Repubblica, 11 ottobre 2016 (c.m.c.)
Ashis Nandy vede venditori di nazionalismo far danni in tutto il mondo, compresa la sua India. Ma qui questa ideologia mescolata prima al secolarismo del modello Nehru, ora all’induismo di Narendra Modi non ha funzionato bene, tanto meno ora. Il celebre intellettuale, psicologo e sociologo, – 78 anni – ha fatto sua la battuta di Rabinandrath Tagore, uno dei padri della moderna India: l’impresa di costruire un nazionalismo indiano è tanto assurda quanto per la Svizzera sarebbequella di darsi una marina militare. Ma Nandy è prima di tutto studioso della mentalità coloniale. Ha lavorato per la «decolonizzazione» della mente indiana e la liberazione dal suo «nemico intimo»: gli inglesi. Si è occupato dei poteri coloniali europei, tra i quali ha individuato i «perdenti nel Primo Mondo», con il loro «machismo», o come meglio dice lui, il loro «androcratico dominio».
E dunque la prima cosa che le chiedo è: se la mente indiana è da decolonizzare che cosa si ha da fare con la mente europea?
«Sono d’accordo con la formula che piace a Taylor e Chakrabarty: smetterla di immaginarsi come il centro. Ma aggiungo che il «West», Europa e Nord America, in virtù dell’esperienza coloniale con il «Rest », sono portatori di un trionfalismo e della visione del proprio stile di vita come superiore a quello di altre parti del mondo. E banalmente osservo che il mondo non ha il genere di risorse che serve per produrre una mezza dozzina di Stati Uniti d’America. In Europa va un po’ meglio, ma non riesco a credere a quanto gli europei siano ostili verso gli immigrati, a quanto esageratamente pensino che il loro arrivo possa rendere la loro esistenza miserabile. Hanno invece qualcosa di importante da imparare».
Che cosa?
«Quello che è vero per l’Europa come è vero per l’India e per tutti: una certa apertura ad altri stili di vita e di pensiero è necessaria ed implica che, in alcuni casi, i livelli dei consumi debbano abbassarsi, invece di salire. C’è qualcosa di sbagliato nella difficoltà europea e americana di affrontare questa possibilità. La nostra idea di progresso è viziata dal dogma della crescita perpetua. Nel 1972 il Club di Roma ha prodotto un manifesto intitolato ai “limiti dello sviluppo”. E ora? Non riusciremo a rendere popolare la “crescita zero”, ma almeno prepariamo la gente a uno stato di cose in cui si dica: “Va bene, è abbastanza, non vogliamo crescere di più”».
Lei, bengalese, ha vissuto la separazione tra musulmani e induisti, la nascita del Pakistan e poi del Bangladesh. Avvennero quelle che restano forse le più grandi migrazioni umane della storia.
«Appartengo al Bengala. E lì ho assistito alla stessa ostilità nei confronti degli immigrati, un numero altissimo di rifugiati, quasi dieci milioni in un colpo solo. E poi ancora molti altri. Fu una catastrofe. E lo stesso è accaduto nel Punjab, il Pakistan a occidente. Anche quando il governo ha cercato di trattare bene i profughi, mostrandosi aperto nei loro confronti, le stesse comunità di appartenenza, gli stessi parenti! sono stati ben più ostili e implacabili».
Ma che cosa è il nazionalismo in India? Ci sono sondaggi secondo i quali l’India è il paese più nazionalista al mondo.
«A dispetto di questi dati le dico che il nazionalismo non è un’opzione qui di successo, perché è troppo specifico per soddisfare i bisogni di tutti gli indiani. L’India è caratterizzata da una serie di anelli comunitari concentrici, e ciascun individuo non appartiene solo a una, ma a una serie di comunità, dal paese alla regione, fino al gruppo linguistico, alla setta, alla religione e, infine, alla casta. Il quadro è davvero molto complesso. Ogni comune individuo indiano, vive un “io” sfaccettato, ma ci si trova abbastanza a suo agio, perché è abituato a questa varietà».
«Sono antisecolarista», lei ha detto una volta.
«Il progetto secolare era tarato nella sostanza. Partiva dal presupposto che, così come in Europa, la religione si indebolisse. La gente si dichiarava non credente, agnostica o atea e molto spesso l’ideologia ha fatto da surrogato della religione. Ci si aspettava che quelle ideologie servissero a fornire una struttura etica alle nostre esistenze pubbliche, ma così la sfera pubblica è apparsa dominata dalla legge della giungla, priva di valori, in preda alla anomia».
Ha ragione allora il filosofo cattolico tedesco, Wolfgang Boeckenfoerde che dice: «Gli stati liberali e secolari vivono di premesse che non sono capaci di riprodurre»?
«Il problema nasce prima dello stato liberale, con la Rivoluzione francese e il giacobinismo: senza terrore nulla si ottiene. Tale convinzione si è radicata nel profondo nella cultura delle élites del potere e da lì sono penetrare in profondità nel complesso della società intera. La società tedesca dopo la Prima Guerra mondiale era alla deriva dal punto di vista morale, e l’ascesa del nazismo si collega a questa crisi della vita pubblica. L’Illuminismo europeo ha prodotto di tutto: grandi pensatori, grandi innovatori, grandi riformatori sociali, grandi scienziati, ma non ha prodotto un pensatore che abbia dato priorità alla non violenza, un aspetto cruciale nella vita pubblica del nostro tempo».
Lei propone una alternativa al secolarismo, cerca nuovi concetti.
E che nome darebbe a questa alternativa?
«Pluralismo culturale è un termine abbastanza consono, perché ogni sistema religioso, in questa parte del mondo, può dare il suo contributo, anche il cristianesimo, quello di San Francesco d’Assisi. In quest’area del mondo Chiesa e Stato non sono così distinti, perché non esiste una Chiesa. Ciò rende il contesto caotico ed eterogeneo, ma facilita anche l’instaurarsi di un dialogo».
Quella in corso è la recrudescenza del nazionalismo induista e sta vanificando il progetto laico.
«Il progetto nazionalista induista è un prodotto diretto del progetto secolarista, perché la persona che l’ha istituito era un ateo dichiarato. Sia il leader degli induisti, che ha prodotto la Bibbia del nazionalismo (Vinayak Damodar Savarkar) sia il leader del nazionalismo musulmano, che ha forgiato nel subcontinente uno Stato musulmano, il Pakistan (Mohammad Ali Jinnah), erano entrambi personalità non religiose e nutrivano un profondo disprezzo nei confronti dei comuni induisti e dei comuni musulmani».
Un’ideologia contro la natura del popolo cui è stata imposta.
«Il disprezzo nei confronti degli induisti e dei musulmani è iscritto chiaramente nelle vite e nelle opere di quei due campioni. Si è trattato dello sfruttamento di una identità religiosa per consolidare una convivenza democratica. È un po’ come quello che è accaduto in Palestina. Lì le relazioni tra ebrei e musulmani e virtualmente ovunque, in Magreb, nell’impero ottomano, nella Spagna dei mori, erano migliori che nel resto d’Europa. Oggi invece si azzuffano come cani e gatti e questa contrapposizione va avanti in Palestina da sessantacinque anni. Così in Asia meridionale si azzuffano musulmani e induisti da sessantacinque anni. Non ha funzionato e ancora non vedo una facile via d’uscita».
L'autore è fra i protagonisti di “ Identità e democrazia in un’epoca di paura” , il convegno internazionale di Reset-Dialogues on Civilizations che si terrà dal 12 al 14 ottobre alla Fondazione Cini di Venezia in collaborazione con l’Università di Ca’Foscari e la Fondazione FIND