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Fabrizio Bottini
Lo sprawl fa schifo al cubo
11 Giugno 2012
Scritti ricevuti
Sempre che fosse necessario, anche il terremoto padano contribuisce a confermare la distorsione dello sviluppo territoriale disperso

Chissà se i cantori dello sviluppo del territorio alla padana sono mai andati a lavorare. Lavorare nel senso comunemente inteso, non in quello di saltellare da una sala convegni all’altra, costruendosi quel genere di punto di vista che considera le cose ad altezza d’uomo, non scrutate dall’alto o dal di fuori, che il freddo dei capannoni lo prova nelle ossa la mattina presto, che l’ingorgo sull’ennesimo cantiere eterno per revisione in corso d’opera lo vive come ansia per il ritardo e il rischio di licenziamento. Dato che non siamo in un paradiso artificiale del lavoratore governato dalla banda dei quattro, forse nessuno ha mai obbligato questi intellettuali organici al potere a strappare le erbacce in una risaia, a rispettare gli orari, a tirare qualche colpo di attrezzo a tot centesimi al colpo. Se sapessero di cosa parlano in termini umani e territoriali, discettando di sviluppo del territorio davanti a un microfono, forse inizierebbero a porsi qualche dubbio sulla sostenibilità del modello attuale, magari a partire dalla qualità media che garantisce.

Qualità bassissima, al limite dell’inesistenza, quella che si tocca con mano nel nostro sprawl, che molti non chiamano così giusto per non evocare altre culture, che l’hanno capito da tempo. Uno sprawl che fa schifo sul versante sociale, negando spazi di relazione, a volte addirittura vera accessibilità a quello stesso verde in cui gli immobiliaristi vogliono a tutti i costi immergerci, soprattutto negli opuscoli promozionali. La mancanza di spazi di relazione è evidente esattamente nel successo di massa del modello centro commerciale: perché mai la gente ci va con tutto quell’entusiasmo? Qualche improvvisato sociologo ci risponde che è per via della società dei consumi e dintorni, ma si scorda per strada l’aspetto spaziale. I corridoi e gli slarghi fra le vetrine sono un surrogato di quanto è stato del tutto cancellato (magari a bella posta) dalle lottizzazioni monocordi di stradine solo residenziali, ovvero tutto quanto somiglia a un parente dello spazio pubblico, a volte compresi i marciapiedi (a che servono, se si esce sempre in auto?). Non si perdono una puntata delle Casalinghe Disperate, e non si accorgono di stare nel bel mezzo di una storia identica, di solito senza lieto fine.

Lo sprawl fa schifo anche per chi si deve muovere, per chi vuole spostarsi. Anche qui salta fuori il solito cosiddetto buon senso comune che dice la gente vuole andare in macchina, e chi lo nega? Il fatto è di essere prima obbligati ad andarci, in macchina, perché non c’è altro modo, e poi ad ammucchiarsi costantemente a tutti gli altri disgraziati che al pari di noi subiscono la condanna alle quattro ruote coatte, di solito in fila a sprecare soldi e tempo. La coda per uscire allo stop dove la strada residenziale a fondo cieco sbuca sulla strada locale, poi il primo rallentamento dove la strada locale si avvicina alla rotatoria all’incrocio con la perpendicolare, e più oltre il solito blocco in vista dello svincolo, a chiedersi se c’è stato un incidente o c’è il solito nonno iperprotettivo coi nipoti in macchina che si è fermato in terza fila davanti al complesso scolastico, invece di entrare nel parcheggio. E non siamo mica i soli ad essere stressati, basta dare un’occhiata all’autista precario del furgone bianco per le consegne che impreca sull’altra corsia.

Allora, lo schifo sociale, più lo schifo mobilità, uguale schifo al quadrato. Però si va oltre, e si arriva allo schifo al cubo con quello che è saltato agli occhi (non solo, diciamo per l’ultima volta) col terremoto padano. L’aspetto più vistoso è il crollo dei capannoni sulla testa di chi ci lavora: ci sono i cultori dell’arte e gli studiosi dei centri storici che giustamente si infuriano per tutti quei monumenti senza manutenzione crollati in briciole, ma è davvero tanto più sconcertante che ad ammazzare le persone siano dei precompressi di cemento tirati su da pochi anni. In generale, è questa la qualità media degli spazi di cui i soliti cantori ci raccontano le meraviglie socioeconomiche? Il nostro relatore da convegno a gettone è lì sul suo piedestallo pagato dal contribuente, a raccontare di produzione, sinergie, concorrenza, luminosi futuri per la rete territoriale, e pensiamo un istante al materiale di cui è fatta, questa scricchiolante rete da pollaio. Capannoni che crollano perché bassa densità vuol dire anche bassa densità di controlli, strade che portano male e in modo inefficiente dentro a questi capannoni pronti a crollarci sulla testa, e infima qualità del vivere, dello studiare, del lavorare, del muoversi, del far spesa, dell’incontrarsi.

Fa schifo al cubo, e non è poi detto (come suona implicita la minaccia dei modernisti da strapazzo) che l’alternativa sia tornare al lume di candela, agli zoccoli senza calze, alla fetta di polenta quando c’è. Di solito è questa l’alternativa posta dai cantori dello sviluppo del territorio: vi lamentate tanto, ma c’è il progresso, e compagnia bella. Qualcuno addirittura a suo modo accetta la sfida e ribatte certo che si, torniamoci al lume di candela e alla fetta di polenta (e al fatto di non poter andare mai da nessuna parte, per esempio, come succedeva ai nonni), perché si stava tanto meglio. Discutibile, per non dir peggio. Certo l’alternativa non è cosa che si possa evocare facendo schioccare le dita, ma ragionarci fa bene. Hanno provato a farlo, tra gli altri, negli ultimissimi giorni, di diversi ma a mio parere complementari studi europei, uno sul modello equilibrato città campagna costituito dalla classica città giardino britannica, riproposta in una prospettiva molto contemporanea; un altro che affronta il ruolo di punta della città e della metropoli di fronte alla sfida del cambiamento climatico. Modello insediativo, sfide socioeconomiche e ambientali. Sono gli stessi temi emersi anche con l’ultimo terremoto padano, e ho provato ad affrontarli in parallelo in un altro articolo, a cui rinvio.

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