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Ida Dominijanni
Lo spettro al confine
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
"La paura si aggira per l'Europa come un novello spettro. Gli spettri non vanno rimossi, vanno guardati - altrimenti si vendicano". Da il manifesto del 14 luglio 2005

Ibambini di Baghdad usati dai marines come scudi e ammazzati dai kamikaze come mosche ci guardano e ci interrogano e chiedono conto delle loro esistenze interrotte. Ci guardano e ci interrogano e ci chiedono conto le vittime di Londra e di New York, di Madrid e di Baghdad, di Gerusalemme e di Bali, di Beslan e di Kabul e di tutte le altre stazioni del girone infernale della guerra permanente globale. Definirla scontro di civiltà, dopo l'11 settembre, fu la trovata truffaldina di chi aveva bisogno di rassicurazioni: il Male sono loro, il Bene siamo noi; confini certi e identità certificate ci dividono; la logica amico-nemico riuscirà ancora una volta a fare ordine sulla superficie geopolitica del pianeta. Diagnosi sbagliata, e conseguente strategia ottusa, tanto crudele quanto inefficace. L'11 settembre non era l'inizio dello scontro di civiltà, ma della guerra civile globale. In cui i confini sono saltati e le identità sono mescolate, l'attacco viene da dentro perché nel mondo globale non c'è più un fuori, l'altro ci assomiglia perché è già passato attraverso l'occidentalizzazione, le vittime sono quelle che capita, ordinary people di metropoli multiculturali e cosmopolite. Si vedeva già dalla forma hollywoodiana dell'attentato alle torri gemelle. Adesso che dei kamikaze londinesi è nota la provenienza e la cittadinanza, si vede meglio. La vocazione suicida-omicida può germogliare nei sobborghi di Londra, fra immigrati di terza generazione nati britannici e di educazione britannica: la democrazia e l'Occidente non li avevano convinti, figurarsi la loro esportazione armata. I martiri sono fra noi. Non ci sono alieni e non c'è la guerra dei mondi, ma la guerra di un mondo.

Alla guerra civile globale, gli Stati uniti hanno risposto con la strategia nazionale e revanchista di una potenza ferita e arrogante, che stendeva la bandiera come un velo d'ignoranza sopra gli strappi del diritto internazionale e della Costituzione. L'Europa, s'è detto in questi anni con ottimismo, non l'avrebbe fatto; l'Unione europea, anzi, doveva nascere contro quegli strappi, a difesa della civiltà giuridica, del diritto e dei diritti. Oggi che anche l'Europa ha paura, quel programma non si deve infrangere. Non può essere la sospensione di Schengen la risposta al kamikaze di Leeds, né l'introduzione dei dati biometrici per i visti, né la raccolta delle telefonate e delle e-mail; e inquieta che a deciderle o a invocarle sia quella stessa Francia che ha detto no all'Unione e sì, con la legge contro il velo, alla laicizzazione forzata delle ragazze islamiche. Tre segni di una illusione nazionalista che evidentemente può convivere con l'opposizione alla guerra americana all'Iraq.

La paura si aggira per l'Europa come un novello spettro. Gli spettri non vanno rimossi, vanno guardati - altrimenti si vendicano. Dopo Londra e dopo Madrid aver paura di salire su un autobus è umano. Disumano sarebbe, com'è stato dall'altra parte dell'oceano, gonfiare i muscoli e ripristinare i confini per anestetizzare l'ansia e bloccare la ricerca. Il tempo della guerra civile globale è il tempo di una fragilità senza scampo, che unifica l'umanità dei primi della terra a quella degli ultimi. Nella culla europea della politica moderna basata sulla forza, passa solo per la coscienza di questa fragilità interdipendente la possibilità della politica a venire.

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