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Salvatore Settis
Lo spettacolo che non fa ridere
5 Luglio 2011
I tempi del cavalier B.
La farsa del massacro inferto al nostro paesaggio e al nostro patrimonio culturale da questa classe politica ha risultati da tragedia. Da la Repubblica, 5 luglio 2011 (m.p.g.)

La sindrome di Salò che assedia l’armata Brancaleone al governo fa spettacolo ma non fa ridere, perché trascina il Paese nel baratro bloccandone la crescita in nome di falsi bersagli. Di un regime (da operetta, non da tragedia) agli sgoccioli ci sono sintomi e stimmate: concordia in superficie e risse dietro le quinte, proclamato attivismo e sostanziale paralisi, fedeltà di facciata ai Capi (Berlusconi e Bossi) che tutti considerano "bolliti". Una "tenuta" apparente, una caduta imminente. Con spietata lucidità, Eugenio Scalfari ha fotografato in queste pagine (3 luglio) un fallimento epocale: mancata riforma fiscale, aumento del debito pubblico e della spesa corrente, crescita selvaggia dell´evasione fiscale, peggioramento dei servizi, crescita della disuguaglianza sociale, radicalizzazione del precariato, netto calo di produttività e competitività, una manovra fiscale che pesa solo sul lavoro dipendente, sui pensionati, su Regioni e Comuni.

Intanto l’Italia è precipitata al 167° posto al mondo (su 179 Paesi considerati) nel rapporto percentuale Pil/persone, condivide con l’Irlanda il record europeo di dottori di ricerca costretti a emigrare, mantiene un sistema di (scarse) assunzioni allergico al merito (dati e valutazioni dell’Economist). La spesa primaria (cioè al netto degli interessi sul debito pregresso) è la più bassa d’Europa: il che vuol dire non solo esorbitante debito pubblico, ma anche bisogni pubblici non adeguatamente soddisfatti (F. Galimberti, Il Sole, 29 giugno). Il bilancio netto è la «macelleria sociale» di cui ha parlato Mario Draghi, aggiungendo: «e io credo che gli evasori fiscali siano tra i responsabili».

Sarebbe tuttavia un grave errore credere che, in tanta immobilità, non succeda proprio niente. Si accentua al contrario (altra caratteristica dei regimi sul letto di morte) l’economia di rapina, la produzione di provvedimenti ad amicos, lo smontaggio dello Stato e la spartizione del bottino. «Mangia tutto quel che puoi mangiare», la frase sinistra di Luigi Bisignani, è il vero motto dell’Italia di oggi. La grande abbuffata corrompe e tacita i potenti, anche i più onesti , sensibili comunque all’odore dei soldi; il facile guadagno di oggi acceca i più, vieta uno sguardo lungimirante. Macelleria sociale ed economia di rapina sono le due facce della stessa moneta (falsa), l’unica che abbia corso oggi nei corridoi del potere. Sacrificando il domani di tutti (delle generazioni future) all’immediato profitto dei pochi, la scuola viene taglieggiata, la ricerca e l’università sono mortificate dall´ormai congenita mancanza di risorse; le spese per la cultura, il teatro, la musica, le arti, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico sono considerate non (come in altri Paesi anche governati dalla destra: vedasi la Francia) come un investimento produttivo, ma come un lusso da evitare.

Fra le vittime designate di questa stagione infelice, il paesaggio. Il decreto 70 sul cosiddetto "sviluppo" si ostina a considerare l’edilizia come il motore primario della crescita, ignorando che proprio nella "bolla edilizia" americana è la radice della crisi economica mondiale. Dovremo così subire il silenzio-assenso in materia di autorizzazioni edilizie; dovremo fare i conti con l’attenuazione delle procedure di valutazione ambientale, mentre le Regioni dovrebbero entro sessanta giorni (!) legiferare sulla riqualificazione delle aree urbane, inclusa la ricostruzione di edifici esistenti con «il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva come misura premiale». Si concede ai privati l´edificazione sugli arenili, con l’etichetta bugiarda di "diritto di superficie", ma accatastando i relativi immobili; anzi, i territori costieri vengono trasformati in "distretti turistico-alberghieri", zone a "burocrazia zero", con deregulation delle procedure autorizzative, anche per porti turistici e pontili. Si estende da 50 a 70 anni la soglia temporale oltre la quale gli immobili pubblici o di enti no profit sono soggetti a valutazione di interesse culturale, e si abolisce l’obbligo di comunicare alle Soprintendenze il cambio di disponibilità degli immobili vincolati (una petizione al Capo dello Stato su questo punto ha raccolto in pochi giorni migliaia di firme). Intanto, il Senato ha già approvato una perversa norma sulla «insequestrabilità delle opere d’arte arrivate in Italia per mostre od esposizioni», che garantisce impunità anche quando si accerti che un quadro, in Italia per una mostra, sia stato rubato o, poniamo, razziato dalle SS a una vittima dell´Olocausto. Quest’ultima disposizione violerebbe gli artt. 24 e 133 della Costituzione, come quelle sul silenzio-assenso in materia di beni culturali violano l’art. 9 (lo dicono le sentenze 26/1996 e 404/1997 della Corte Costituzionale).

Di fronte a tanti sintomi degenerativi, l’opposizione è prigioniera di un inerme attendismo. Assai più svegli si stanno mostrando i cittadini, con le numerose associazioni a difesa dei beni pubblici (ormai oltre duemila in tutta Italia). Il risultato più vistoso è stato certamente il recente referendum, che ha raggiunto il quorum contro alcuni partiti (come il Pdl) e malgrado alcuni altri (come il Pd); ma anche i risultati elettorali di Napoli e di Milano si spiegano come la pacifica rivolta degli elettori contro gli apparati di partito. Lo stesso si può dire delle imponenti manifestazioni anti-Tav in Val di Susa, alle cui ragioni civili nulla tolgono gli scontri che pur vi sono stati. Non meno importanti sono i successi delle azioni popolari contro l’inerzia o l’inefficienza delle pubbliche amministrazioni: il Consiglio di Stato ha approvato la class action contro la scuola modello Gelmini, poiché il taglio ai docenti provocherebbe il sovraffollamento delle aule; in Molise, l’azione di 136 Comitati contro l’eolico selvaggio sta ottenendo importanti risultati.

Quel che resta della sinistra può far proprio il patrimonio di idee che viene dalle associazioni, o buttarlo via. C’è un precedente poco incoraggiante: nel referendum del 2006 votarono contro una riforma costituzionale di marca leghista 15.791.293 italiani (il 61,3 % dei voti espressi), oltre due milioni di più degli elettori del maggior partito (il Pdl) nelle elezioni del 2008, che furono 13.629.464, pari al 37,3% dei voti espressi in quell’occasione. Fu la dimostrazione che il "partito della Costituzione" è il più robusto schieramento italiano; ma, come osservò allora Oscar Luigi Scalfaro, la sinistra non seppe cogliere il messaggio degli elettori e trarne le conseguenze. Umberto Eco ha ricordato opportunamente (Repubblica, 2 luglio) la dura dichiarazione di D’Alema (1997) contro «la politica che viene fatta dai cittadini e non dai partiti», col corollario che «l’idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla ai cittadini è un mito estremista che ha prodotto dittature sanguinarie o Berlusconi». Questa avversione alla società civile in nome degli apparati di partito sa di muffa. Sarebbe tempo di ricordarsi che non i partiti, ma i cittadini sono i protagonisti della politica, l’anima pensante della polis, di cui i partiti dovrebbero essere espressione. Di fronte a un’opposizione che pare ansiosa di prendere il posto di Berlusconi come partner della Lega in un qualche federalismo, sarebbe tempo di cercare nelle associazioni spontanee dei cittadini il meccanismo-base della democrazia, il serbatoio delle idee per un’alternativa di governo ancora priva di un progetto. Senza dimenticare che la pessima legge elettorale che espropria il cittadino del diritto di scegliere per nome i propri rappresentanti, prima di diventare legge dello Stato, fu introdotta da una regione "di sinistra", la Toscana. Dagli apparati di partito, appunto.

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