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Massimo Giannini
Lo schiaffo al Quirinale
11 Aprile 2004
I tempi del cavalier B.
Un articolo di Massimo Giannini, su Repubblica del 23 luglio 2003, commenta uno degli scandali parlamentari del gruppo di potere del signor B: la legge Gasparri sul sistema delle informazioni. Le armi per subornare l’elettorato italiano non erano ancora troppo potenti. Un dubbio: ha ragione Giannini anche quando afferma: “L’Italia non è un regime, non rischia derive dittatoriali”?

«La garanzia del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione costituisce strumento essenziale per la realizzazione di una democrazia compiuta... Il principio fondamentale del pluralismo è sancito dalla Costituzione e dalle norme dell’Unione Europea... E’ necessaria l’emanazione di una legge di sistema, intesa a regolare l’intera materia delle informazioni, delle radiotelediffusioni, dell’editoria di giornali e periodici...». Il 23 luglio 2002, il Presidente della Repubblica dettava così il suo primo ed unico messaggio trasmesso al Parlamento. Oggi, a un anno esatto da quel passo solenne, è arrivata la «risposta» del governo Berlusconi.

La riforma Gasparri è stata approvata dal Senato, e ora passa all’esame della Camera per il varo definitivo. In teoria è la nuova «legge di sistema» invocata dal Quirinale. In pratica è uno schiaffo in faccia a Ciampi e alla Costituzione. Uno sberleffo alle sentenze della Consulta e alle direttive della Ue. Un favore a Mediaset e agli interessi personali del Cavaliere. Un danno alla concorrenza e agli interessi generali della collettività. Stavolta, e almeno fino a questo momento, non sono bastati i segnali lanciati dal Colle e la «moral suasion» tentata in prima persona dal Capo dello Stato. Le televisioni sono il «core business» del potere berlusconiano. Contano quanto, se non più degli affari giudiziari del premier. La Gasparri esce da Palazzo Madama molto peggio di come c’è entrata. Se non cambierà a Montecitorio, Ciampi non firmerà un testo che, a questo punto, si può considerare davvero come la quinta «legge vergogna» della legislatura. Dopo le rogatorie, il falso in bilancio, la Cirami e il Lodo Schifani.

La nuova legge blinda e perpetua la potenza di fuoco mediatico del Cavaliere, che conserva il controllo del servizio pubblico televisivo, mantiene la proprietà delle sue tre reti private e in prospettiva può allungare le mani sulla carta stampata. La nuova legge immanentizza il conflitto di interessi, e lo rende consustanziale al «virus videocratico» che Berlusconi sta inoculando nella nostra democrazia.

Ciampi non firmerà, perché non può sconfessare se stesso, e rinnegare l’atto formale più impegnativo di questa sua prima metà di settennato. Nel suo messaggio alle Camere, ha sollecitato l’immediato recupero dei principi costituzionali del «pluralismo, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità dell’informazione». Ha richiamato almeno tre sentenze fondamentali della Corte costituzionale, sistematicamente ignorate dal legislatore e ora allegramente aggirate dalla Gasparri. La prima sentenza, la 536 del 1988, aveva precisato che il pluralismo «non potrebbe in ogni caso considerarsi realizzato dal concorso tra un polo pubblico e un polo privato». Al «duopolio imperfetto» oggi dominante, governi e Parlamenti non hanno voluto o potuto porre un rimedio. Né la legge Mammì del 1990, né la legge Maccanico del 1997. La seconda sentenza, la 420 del 1994, aveva richiamato «il vincolo, imposto dalla Costituzione, di assicurare il pluralismo delle voci, espressione della libera manifestazione del pensiero, e di garantire il fondamentale diritto del cittadino all’informazione»: quella pronuncia aveva dichiarato incostituzionale il limite del 25% (pari a tre reti televisive) che la Mammì aveva previsto come massimo consentito a ciascun concessionario, con la motivazione che «non garantisce la libertà e il pluralismo informativo e culturale». La terza e ultima sentenza, la 155 del 2002, aveva implicitamente confermato l’illegittimità della posizione degli operatori televisivi che possiedono più di due reti su scala nazionale. Ed aveva esplicitamente ribadito «l’imperativo costituzionale» secondo cui «il diritto di informazione garantito dall’articolo 21 della Costituzione deve essere qualificato e caratterizzato, tra l’altro, sia dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie... sia dall’obiettività e dall’imparzialità dei dati forniti, sia infine dalla completezza, dalla correttezza e dalla continuità dell’attività di informazione erogata».

Nel suo messaggio, Ciampi ha giudicato questa sentenza, «particolarmente significativa là dove pone in rilievo che la sola presenza dell’emittenza privata (cosiddetto 'pluralismo esterno’) non è sufficiente a garantire la completezza e l’obiettività della comunicazione politica, ove non concorrano ulteriori misure sostanzialmente ispirate al principio della parità di accesso delle forze politiche (cosiddetto 'pluralismo interno’)».

A queste tre sentenze citate nel messaggio se n’è aggiunta pochi mesi dopo una quarta, la 466 del 20 novembre 2002. Evidenziava un ulteriore impoverimento del pluralismo: «Dalla previsione di 12 reti nazionali (di cui 9 private) si è passati a 11 reti (8 private), e ciò non garantisce l’attuazione del principio del pluralismo informativo esterno». Stabiliva che il regime transitorio (quello che ha permesso a Berlusconi di possedere tre reti private in tutti questi anni) «non può eccedere il termine del 31 dicembre 2003». Entro questa data, Mediaset deve vendere Retequattro, o trasferirla su satellite.

Ciampi non firmerà, perché non può non vedere quanto sia stata disattesa, nella prassi e nella legislazione, la richiesta espressa che lui stesso ha indirizzato alle Camere, invocando «una legge di sistema» nel settore dell’informazione, indicando persino i principi fondamentali che la devono caratterizzare: «Il pluralismo e l’imparzialità dell’informazione, così come lo spazio da riservare nei mezzi di comunicazione alla dialettica delle opinioni, sono fattori indispensabili di bilanciamento dei diritti della maggioranza e dell’opposizione: questo tanto più in un sistema come quello italiano, passato dopo mezzo secolo di rappresentanza proporzionale alla scelta maggioritaria...». Di tutto quello che il Colle ha seminato un anno fa, il governo non raccoglie nulla nella riforma Gasparri. Come era stato annunciato dal ministro per le Comunicazioni, i vincoli antitrust introdotti dalla Camera sono stati puntualmente cancellati dal Senato. L’aula di Palazzo Madama ha reintrodotto un generico «divieto di cumulo dei programmi televisivi e radiofonici», in base al quale uno stesso concessionario «non può essere titolare di autorizzazioni che consentano di diffondere più del 20% dei programmi televisivi», né può avere ricavi superiori al 20%, calcolati secondo le «risorse complessive del Settore integrato delle comunicazioni». Il famigerato «Sic», un parametro volutamente vago e inafferrabile, al quale è impossibile ancorare paletti contro i monopoli. Al Senato Franco Debenedetti ha azzardato un’ipotesi quantitativa: il «Sic» varrebbe intorno ai 23 miliardi 387 milioni di euro. Uno sproposito, che rende pressoché irraggiungibile il tetto del 20%. Ma l’artificio consente al Cavaliere di eludere l’obbligo che da dieci anni gli rinnovano inutilmente leggi e sentenze: vendere Retequattro, o trasferirla sul satellite. A scanso di equivoci, la Gasparri approvata ieri ha previsto un salvacondotto in più. Un emendamento del relatore Luigi Grillo, ovviamente di Forza Italia, fa un ulteriore regalo alle reti che alla fine del 2004 copriranno almeno il 50% della popolazione con il sistema digitale: potranno ottenere una nuova concessione con il sistema analogico. Un altro trucco, che evita definitivamente a Emilio Fede il fastidio di doversi trasferire sul satellite.

Non resta molto altro, di questa «epocale riforma» televisiva. Nell’attesa palingenetica dell’era digitale, istituzionalizzerà una volta di più quella che un grande costituzionalista come Gaetano Azzariti ha definito la «temporaneità perpetua» del sistema televisivo: tra costanti rinvii e continue proroghe, il «regime transitorio» è diventato l’escamotage giuridico che serve a rendere definitivi gli squilibri esistenti. Nell’attesa di una chimerica privatizzazione della Rai (per la quale non si fissa neanche una data) non impedirà che si producano gli errori e gli orrori cui abbiamo assistito guardando i telegiornali in questi ultimi due anni: dal Televideo che occulta i dati Istat sul crollo della produzione industriale al Tg1 che censura gli insulti di Berlusconi a Schulz davanti all’Europarlamento di Strasburgo.

Ciampi non firmerà un testo che peggiora la qualità della nostra democrazia. Nella letteratura politica, gli studi di Larry Diamond e Marc Plattner misurano la democrazia di un Paese partendo dalla suddivisione tra «democrazie elettorali e democrazie liberali». Nelle prime, il criterio minimo di base è lo svolgimento di regolari elezioni tra partiti antagonisti. Nelle seconde si richiedono altri quattro criteri, assai più stringenti: il rispetto delle libertà civili (di fede, di espressione, di protesta), la certezza del diritto e la parità di trattamento di tutti i cittadini davanti alla legge, una magistratura indipendente e neutrale, e infine la garanzia di una società civile aperta e pluralista, di cui è parte integrante la libertà dei mass-media. L’Italia non è «un regime», non rischia derive dittatoriali. Ma dopo due anni di cura Berlusconi, si può dire che il nostro Paese è fuori dal secondo, dal terzo e dal quarto criterio di questa virtuale «Maastricht della democrazia». A un anno dal suo messaggio sul pluralismo, Ciampi non può esserne contento. Noi meno di lui.

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