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Furio Colombo
L'invenzione del centro
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Un chiaro intervento politico nel dibattito sul “centro”: le ragioni della radicalità. Da l’Unità del 21 agosto 2005

Ci sono dei periodi, nella storia di un Paese, in cui la decisione, sia personale che politica, è quella di stare da una parte o dall’altra, perché le strade del percorso comune si dividono e non c’è modo di sovrapporle in un punto benevolmente chiamato “centro”.

Per esempio, a un certo punto della nostra vita personale, l’Italia ha dovuto scegliere tra la monarchia e la Repubblica. Il problema non era se demonizzare il re o celebrare come sola salvezza la forma repubblicana dello Stato. Il problema era se continuare su una strada che aveva portato a risultati tragici, o se intraprendere una strada nuova. Molti onestamente erano incerti. Da ragazzino (e repubblicano) quale ero allora, ricordo che certi adulti preoccupati definivano la Repubblica “un salto nel buio”. Avrebbero voluto stroncare la discussione sul passato sostenendo che un’altra strada verso il futuro era troppo pericolosa.

Altri erano certi, e lo erano con passione, che una nuova Italia libera e democratica doveva per forza buttare dalla finestra, come in un simbolico 31 dicembre, le ingombranti masserizie della monarchia colpevole. Nessuno fingeva che ci fosse un più quieto e giudizioso rifugio a mezza strada. Certe volte il centro non esiste.

Vogliamo un esempio solo in apparenza meno drammatico? È il no di De Gasperi alla alleanza con i neofascisti per le elezioni comunali di Roma del 1946, voluta fermamente da Pio XII per timore che la “città santa” avesse un sindaco comunista. Quel no è stato lacerante e immensamente costoso per il leader centrista De Gasperi. La sua saggezza è stata di capire il senso devastante che avrebbe avuto, sull’Italia appena rinata alla libertà, una decisione che gli veniva raccomandata come “moderata” e protettrice del centro.

De Gasperi non sarebbe mai più stato ricevuto in udienza dal Papa. Non poteva cedere e non ha ceduto. Si è spostato, ha lasciato vuoto il mitico spazio “centro” e ha salvato il Paese. Certe volte il centro non esiste.

Prendiamo il non dimenticato 18 aprile, la clamorosa vittoria elettorale della Democrazia cristiana contro il Fronte popolare dei Comunisti dei Socialisti. In quel momento il mondo andava da una parte o dall’altra, ed era in gioco la dislocazione dell’Italia sull’orlo di quattro rischiosi decenni di guerra fredda. In quella campagna elettorale nessuno ha finto di fare il moderato. Sono stati messi in campo argomenti estremi perché non c’erano punti di sovrapposizione possibile fra una offerta politica e l’altra. Certe volte il centro non esiste.

***

Quando esiste? Forse quando ci sono elezioni (e campagne elettorali e situazioni esistenziali e politiche) talmente noiose che è possibile immaginarle come la bilancia di un farmacista, sposti gli ingredienti un pochino di qua o un pochino di là e ottieni la giusta posizione. Se a quella posizione fosse stato aggiunto un pizzico in più di estremismo, sarebbe diventata veleno.

Nella vera vita io non ricordo situazioni simili, e non credo che sia a causa di una mia interpretazione drammatica degli eventi. Per farmi capire faccio ricorso alla esperienza americana. Tutte le campagne elettorali che ho vissuto in quel Paese sono state contrapposizioni dure, nette, senza mezze misure e sono avvenute anche al costo di spezzare all’interno l’una o l’altra o entrambe le parti politiche.

Si devono accettare i neri e proclamare uguali diritti civili di tutti nella società americana, o tenerli fuori per non fare “un salto nel buio” e rischiare “il meticciato” (era una delle accuse a John Kennedy)? Si deve fare o fermare la guerra nel Vietnam? Bob Kennedy e Johnson, Humphrey e Goldwater si sono giocati la loro vita fisica e politica. Si può tollerare che un presidente (Nixon) menta al Paese, consenta il furto con scasso a danno del partito avversario e violi la Costituzione?

L’America Latina con cui stabilire nuovi legami è quella del generale Videla e del generale Pinochet o è quella della “Alleanza per il progresso” di Carter, che restituisce ai panamensi il Canale di Panama? Volete l’America dei sindacati, del Welfare, delle cure mediche garantite o l’America dei potentati economici che diventano sempre più grandi, delle imprese gigantesche, delle immense bolle speculative, dei lavoratori e dei risparmiatori che devono proteggersi e arrangiarsi da soli nella speranza di diventare ricchi come i ricchi e di ritrovare i diritti perduti attraverso “il merito” dell’accumulo di denaro?

John Kennedy è stato combattuto con odio, al punto che poche ore prima del suo assassinio a Dallas, un ex generale (uno di quelli che avrebbe voluto sganciare la bomba atomica su Cuba) ha piantato davanti alla sua casa la bandiera confederale (quella degli schiavisti) rovesciata, segno di condanna capitale. Carter è stato accusato con disprezzo per non avere fatto la guerra all’Iran che aveva catturato e teneva in ostaggio 68 diplomatici e impiegati dell’ambasciata americana a Teheran. Clinton è stato perseguitato e accusato con decine di inchieste giudiziarie e parlamentari per avere progettato una riforma sanitaria che avrebbe tolto potere all’impero delle assicurazioni private. Nixon, Reagan e Bush figlio hanno diviso (i commentatori americani dicono spesso: “spaccato”) l’America a metà. Bush figlio ha vinto le ultime elezioni attraverso una violentissima campagna di accuse personali al suo avversario John Kerry che pure era un eroe pluridecorato del Vietnam. Non c’è stata in lui o nei suoi consiglieri la minima preoccupazione di smorzare i toni e cooptare un po’ di elettori democratici nell’area mitica del centro. La parola era “guerra”. Guerra in Iraq, come strumento di difesa dal terrorismo. E guerra alla figura, alla vita, alla reputazione del candidato avversario.

***

Credo che i lettori capiscano che in questa riflessione non ha importanza il giudizio su George Bush figlio e sulla sua scelta di campagna elettorale. È solo l’esempio più recente che viene dal Paese del bipartitismo perfetto. Dimostra che vince l’estrema determinazione di mettere fuori gioco il contendente, di far capir forte e chiaro chi è il vero leader, chi ha il controllo del campo. C’era di tutto con Bush, comprese le retrovie del conservatorismo fondamentalista cristiano, politicamente estremista e impegnato in furibonde e antiche campagne contro chiunque non creda nell’insegnamento letterale di una Bibbia pietrificata. Eppure c’è chi ti spiega che ha vinto perché Bush “è moderno”. La modernità consisterebbe nella totale libertà lasciata alle imprese che galoppano indisturbate sopra il diritto di tutti puntando verso un paleocapitalismo privo di argini e diretto verso un mondo alla Dickens.

Questa presunta “modernità” giova a quanto pare al presidente più antico dell’America contemporanea, che viene percepito - nonostante la teoria estrema dell’unilateralismo in politica estera e della assenza di regole in politica economica - come “centrista”. In altre parole, “il centro” viene visto come l’occhio del tifone, un punto limitato e silenzioso dove non tira vento, mentre intorno le trombe d’aria spazzano il territorio.

È ciò che si legge in un interessante articolo di Michele Salvati, economista di valore, sul Corriere della Sera del 17 agosto. Per costruire “il centro” che, lui pensa, sarebbe salvifico in Italia, fa alla fotografia del centrosinistra italiano ciò che si fa in certe famiglie dopo brutte liti: si tagliano le figure degli zii, cugini e suoceri indesiderabili, in modo che i bambini non li vedano più nell’album di famiglia, nemmeno in immagine.

Nella fotografia del centrosinistra italiano che forma, tutto insieme, la coalizione guidata da Romano Prodi, Salvati taglia via i sindacati (dalla Cisl alla Cgil), taglia via un pezzo dei Ds («che si annidano nella pancia del partito ed esprimono le domande di protezione delle regioni rosse, del pubblico impiego, degli artigiani, delle cooperative, del sindacato»), taglia via i militanti «romantici e tradizionalisti della sinistra radicale che ostacolano un processo di riforma adeguato alla bisogna». Taglia via una buona metà della Margherita, taglia via tutta Rifondazione. E lui stesso, da intellettuale e da economista, sa quanta parte della cultura e della visione del mondo sta tagliando, da Paul Krugman ad Amartya Sen, da Alain Minc a Luciano Gallino.

Il metodo della fotografia tagliata è curioso perché svela il legame tra sogno del centro e sistema proporzionale, una vistosa nostalgia emergente. È un luogo di pace instabile e inesistente come l'occhio del tifone (adesso c’è ma poi all’improvviso si sposta) che si realizza solo con sistemi elettorali che ti inchiodano a un “prima” che ben pochi rimpiangono. L’unico pregio di Berlusconi è di averci fatto sbattere la faccia sul “dopo”. In quel dopo, come in tutti i momenti importanti della Storia, e in tutte le situazioni cruciali del sistema maggioritario, le strade si dividono. Con la legalità, con la Costituzione, con la legge uguale per tutti. Oppure con il mondo dei condoni, della grande evasione, dei conti falsi.

Certe volte il centro non esiste. E se esiste, fa bene ad allearsi con una grande coalizione decisa a vincere, senza tagliare le foto di famiglia.

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