Ho voluto intitolare la mia riflessione sul post-terremoto “L’informazione intermittente” perché mi sembra che questa sia stata l’attenzione del mondo dell’informazione ai complessi e delicati problemi posti drammaticamente dal terremoto abruzzese dell’aprile scorso.
Intermittente perché soltanto pochi organi nazionali d’informazione se ne sono occupati con la dovuta continuità delegandola in sostanza agli organi regionali e locali.
Intermittente perché, mentre è stata fin dall’inizio molto forte, aggressiva e costante la linea politico-propagandistica scelta dal presidente del Consiglio, con tutti i gravi limiti di una risposta soltanto “edilizia”, incostante e intermittente è stata l’informazione e ancor di più il commento riservato dagli organi nazionali (carta stampata e televisione) alla realtà vera del post-terremoto, al di là cioè del “tutto va nel migliore dei modi” governativo.
Sul primo dato (pochi organi di informazione nazionale se ne sono occupati con continuità) mi pare che non possano esservi obiezioni rilevanti: dei giornali più venduti il solo a dedicare – passata l’ondata emotiva delle prime settimane - servizi estesi e approfonditi è stata “La Repubblica”, insieme all’”Unità” e a pochi altri fra i quali “Il Manifesto”. Anche in sede di commento, ad esempio con la rubrica – molto seguita e apprezzata – di Mario Pirani, il lunedì, nella quale uno dei commentatori più stimati ha posto subito in rilievo l’insufficienza dei finanziamenti e il loro assurdo dilazionamento all’orizzonte 2032.
Giornali importanti come “Il Messaggero” che pure si rivolge, anche nel bacino romano, a numerosi immigrati abruzzesi, hanno delegato soprattutto alle cronache quotidiane locali il compito di informare i lettori (della sola regione però, o a quanti navigano sul web). Compito svolto in modo, occorre sottolinearlo, piuttosto ricco e non poche volte coraggiosamente critico. Un compito, quest’ultimo, che ha svolto con puntualità anche il quotidiano regionale del gruppo L’Espresso, cioè “Il Centro”, la cui redazione ha seguito passo passo le vicende aquilane e abruzzesi.
Mi pare che discorsi analoghi sulla “intermittenza” si possano fare anche per i telegiornali più importanti (a parte, in una certa misura, il TG3 e l’intera RaiTre con trasmissioni quali “Ambiente Italia” e “Report”). Va aggiunto tuttavia che talune trasmissioni televisive hanno invece messo a nudo problemi e punti dolenti del post-terremoto. Mi corre l’obbligo di segnalare fra queste la trasmissione “Terra!” curata da Toni Capuozzo per Canale 5. Dove, nonostante l’appartenenza del canale al gruppo di famiglia Fininvest, in essa si sono dette, o fatte dire, critiche anche di fondo alla linea seguita dal governo nel post-terremoto, mettendo in risalto, per es., il ritardo nella partenza della ricostruzione aquilana, che ha provocato la frustrazione dei piccoli proprietari di alloggi lesionati, i quali hanno preferito – cito l’inchiesta – cominciare a vendere o a svendere a Fintecna.
Colleghi abruzzesi che so obiettivi mi dicono che i giornalisti del TGR Abruzzo hanno sposato, in particolare Daniela Senepa, la causa della ricostruzione aquilana compensando in parte la latitanza di Tg1 e Tg2 e l’intonazione essenzialmente propagandistica delle tv private, tese a spacciare per “ricostruzione” il progetto c.a.s.e.
Non ho visto molto la “Stampa” di questi mesi, dopo le prime settimane. Vedo quotidianamente il “Corriere della Sera” che, a parte alcune vicende di cronaca “nera” (primi scandali, arresti, la vicenda della Casa dello Studente), si è praticamente occupato assai poco dell’Aquila. Nulla di paragonabile comunque rispetto all’attenzione dedicata da “Repubblica” e, nonostante i mezzi molto minori, dall’”Unità”. Nulla di paragonabile all’attenzione dedicata al post-terremoto del 1997 in Umbria e Marche o ai più lontani terremoti del Friuli e dell’Irpinia.
Certo, quel sisma umbro-marchigiano di dodici anni or sono, con assai meno morti (anche perché le scosse erano avvenute a metà giornata) e però con un’area infinitamente più vasta (soltanto nelle Marche le chiese lesionate più o meno gravemente furono 1500 circa), ebbe una risonanza nazionale e internazionale assai più ampia e profonda perché aveva colpito, facendovi le sue uniche vittime, di fatto, un monumento di valore assoluto come la Basilica Superiore di Francesco in Assisi, attorno alla quale – minacciata di crollo totale – si mobilitò un’attenzione anzitutto televisiva di lunga, drammatica evidenza e durata.
Nel terremoto aquilano lo stesso risalto non si è riusciti a darlo, sul piano della comunicazione, alla Basilica di Collemaggio pur così preziosa, né si è riusciti a conferirlo al magnifico centro storico dell’Aquila ben più terribilmente colpito del centro storico di Assisi dove soprattutto talune chiese importanti erano state ferite.
Qui ha giocato probabilmente un ruolo la debolezza con la quale il tema strategico della ricostruzione del centro storico è stato posto in varie sedi risultando così decisamente perdente rispetto alla linea del governo e del suo presidente tutta giocata sull’efficienza edilizia, sul dare un tetto a tutti entro Natale, evitando i container ed eliminando le tendopoli. Tutti sappiamo che i programmi, pur “militari”, della protezione Civile hanno scontato invece seri ritardi, che decine di migliaia di persone sono state disperse negli alberghi e nelle pensioni della costa adriatica o presso case di parenti e amici.
Sappiamo quindi che le comunità locali – rispetto alle soluzioni post-terremoto adottate in Friuli o in Umbria e Marche (io ricorderei anche la bellissima medioevale Tuscania che ebbe, oltre trent’anni fa, più di 30 morti e distruzioni rilevanti, sanate tuttavia con perizia) – si sono notevolmente impoverite. Ma le proteste, gli allarmi, le denunce dei sindaci e ancor più, mi pare, dei parroci e della Caritas non hanno trovato voce nazionale di sorta, o quasi. La loro eco è rimasta insomma provinciale o regionale, al massimo. Quando hanno manifestato inquietudine i vescovi abruzzesi ai quali erano state fatte promesse di gran peso, il Vaticano li ha subito tacitati mandando in poche ore all’Aquila un vescovo ausiliare. Fatto inusitato che ha tuttavia suscitato pochi anche se accesi commenti (cito per tutti l’articolo di fuoco dedicato sull’”Unità” da Filippo Di Giacomo, un sacerdote). Come rari interventi ha provocato la decisione di un Ministero – quello dei Beni Culturali – autoeliminatosi peraltro dall’intera vicenda, di assegnare direttamente alle Diocesi i fondi per le riparazioni più urgenti delle chiese.
Pochi giornali e giornalisti si sono preoccupati di compiere inchieste serie, approfondite “sul campo” e di instaurare raffronti puntuali con le precedenti esperienze di soccorso, di assistenza, di ricostruzione. Operazione interessante e importante dal momento che governo e protezione civile hanno operato stavolta – ecco un altro elemento fondamentale, anche sul piano mediatico – come se non ci fossero mai state in passato quelle esperienze, come se partissero da zero, col fine preciso di dimostrare che si sarebbe fatto prima e meglio. Sul piano di una risposta, lo ripeto, limitata invece all’edilizia, al dare un tetto. Senza occuparsi quasi per nulla di centri storici, grandi e piccoli, di beni culturali e ambientali, e senza pianificare (parola uscita dal vocabolario politico governativo, praticamente) servizi e territorio.
Per fare tutto ciò, si è dato, come è risaputo, alla Protezione civile un potere sostanzialmente esclusivo, il monopolio degli interventi. Operazione resa possibile dalla ritirata politica totale del Ministero per i beni e le attività culturali, nel ’97 presente in forze e dotato di mezzi finanziari copiosi, e dalla debolezza politica e probabilmente anche tecnica della Regione Abruzzo. Operazione che, rovesciando completamente l’impostazione data al posto-terremoto in Friuli e in Umbria-Marche, ha escluso, non soltanto le comunità locali, ridotte sostanzialmente a spettatrici dolenti, ma anzitutto le Soprintendenze (quella regionale e le altre territoriali e settoriali), evitando l’impiego, in altre situazioni invece essenziale, di tecnici del più alto livello, evitando l’afflusso di specialisti che in passato hanno funzionato anche da formidabile cassa di risonanza mediatica, da elemento moltiplicatore e sollecitatore di altri apporti e pure di articoli, interviste, inchieste giornalistiche, ecc.
Tutto ciò perché dovevano in sostanza essere due, soprattutto, i protagonisti del post-terremoto sul piano mediatico: il presidente del Consiglio e il vice-ministro alla Protezione civile. Il fatto che in sede regionale e locale – ma pure nella maggioranza dei grandi giornali – non si siano levate subito voci critiche, in modo pacato quanto netto, per questa esclusione in partenza degli organismi tecnico-scientifici, degli esperti dei vari rami, da apporti decisionali, o comunque importanti, ha concorso a produrre quel deficit informativo che registriamo a livello nazionale e internazionale. E che sarà, temo, ben difficile colmare, dal quale sarà ben difficile risalire.
La stessa richiesta ai Paesi del G8 di “adottare” un monumento da restaurare all’Aquila – a parte la vecchiezza in sé, “ideologica”, della proposta (che a me è parsa, essendo da tempo l’Italia Paese fra i più sviluppati al mondo, una sorta di “mendicità di Stato”) - ha registrato un limitato successo probabilmente per non aver voluto in campo, ben visibili, gli alti dirigenti del Ministero, gli storici dell’arte, gli strutturisti e restauratori con solide relazioni in tutto il mondo, per non aver voluto quella mobilitazione di competenze tecnico-scientifiche e di passioni civili che si verificò invece per Assisi e che suscitò tanta impressione e quindi tanta eco nazionale e internazionale (e, alla fine, tanto consenso).
Né si è voluta, e quindi avuta, come dicevo dianzi, la intensa, decisiva partecipazione delle comunità locali, certo più forti e attrezzate laddove la civiltà e gli orgogli municipali e regionali sono storicamente più forti, in Friuli, in Umbria, nelle Marche. Nello stesso caso del post-terremoto irpino, fra Campania e Basilicata, su noi giornalisti più attenti a tali problemi la creazione a Napoli della Soprintendenza speciale creata e retta da Giuseppe Proietti e il cospicuo finanziamento affidato alle mani esperte e sagge di Mario De Cunzo avevano dato modo di fare informazione in maniera più ampia e adeguata.
In estrema sintesi: c’è stato, c’è e perdura un indubbio deficit di attenzione e di voglia di approfondire da parte dell’informazione a livello nazionale, ma ciò è avvenuto anche per l’impostazione straordinariamente accentrata, tutta politica e, alla fine, esclusivamente “edilizia” data dal presidente del Consiglio data alla gestione del post-terremoto e conseguentemente all’informazione su di essa. Grazie anche ad atteggiamenti certamente deboli, esitanti o subalterni, sul piano propagandistico, del mondo medesimo dell’informazione.
Il quale, a livello di canali televisivi (5 sui 6 complessivi di Rai e Mediaset, più ora i canali del digitale terrestre), sta come sappiamo, cioè fortemente omogeneizzato al potere del premier, e a livello di carta stampata risulta fortemente condizionato, con poche eccezioni, da proprietà saldamente in mano, o molto vicine, alla stessa famiglia del premier (Giornale, Libero, Panorama) o da proprietà le quali coincidono ormai con immobiliaristi/costruttori, in tutto, e cioè Messaggero, Mattino, Gazzettino, Corriere Adriatico (Caltagirone), o in parte, vale a dire Corriere della Sera (Ligresti) e altri giornali, per esempio il gruppo Rieffeser (Carlino, Nazione e Giorno) che pure ha corposi interessi fondiari. Una filosofia proprietaria che confligge frontalmente con una buona, seria, autonoma (soprattutto) informazione quando vi sono di mezzo questioni urbanistiche, architettoniche e territoriali.
Un ruolo molto significativo hanno così assunto i Blog e i Social Network molto tempestivi sempre nel dare voce alle varie componenti, pure a quelle minoritarie, della classe dirigente locale e alle diverse categorie di terremotati (gli abitanti delle tendopoli, poi quelli delle casette, i pendolari, gli ospiti degli alberghi, i cassaintegrati, i commercianti, i professionisti, quelli delle case b-c-e e della “zona rossa”). Un vero e proprio tam-tam che ha consentito di sventare tempestivamente alcune trappole celate nei decreti governativi (per es. sui rimborsi al 100 per cento), di sveltire varie scadenze fiscali, ecc. Da segnalare anche la vivacità dell’editoria abruzzese che sta sfornando numerose pubblicazioni (spesso di inchiesta) sul post-terremoto, fra queste i “Quaderni aquilani” con interventi importanti come quello di Giorgio Piccinato.
Una inequivocabile cartina di tornasole dell’intermittente e quindi insufficiente attenzione dedicata dai media nostrani al post-terremoto abruzzese è rappresentata dalla flebile eco incontrata da una iniziativa invece encomiabile come l’appello promosso dall’ex ministro per i Beni e le Attività culturali Giovanna Melandri per una “tassa di scopo” o comunque per un finanziamento straordinario da assegnare alla ricostruzione del centro storico aquilano. Appello sottoscritto da tutti gli ex ministri a partire da Alberto Ronchey, passando per Fisichella, Paolucci, Veltroni, la stessa Melandri, Urbani e Buttiglione. Con l’autoesclusione di Rutelli contrario a nuove tasse.
Fra i quotidiani nazionali – sto alla rassegna stampa fornitami dall’ufficio della stessa on. Melandri promotrice dell’appello - soltanto Il “Messaggero” (che ha l’Abruzzo fra le regioni di maggior diffusione) e l’”Unità” hanno dedicato un ampio servizio firmato all’iniziativa, certamente apprezzabile in tanto silenzio politico. La “Repubblica” le ha dedicato una corposa notizia e la “Stampa” una “breve”. Il “Corriere della Sera” – a quanto risulta dalla rassegna stampa citata – nemmeno una riga, un telegramma. Per rintracciare un altro ampio servizio firmato, dobbiamo infatti rifarci al quotidiano abruzzese del gruppo L’Espresso, “Il Centro”. Ed è tutto per la carta stampata. Tutto e davvero poco come eco nazionale. Intermittente e, concludo, decisamente insufficiente.