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Raffaele d'Agata
L’ineluttabile (?) ricetta
26 Aprile 2013
Società e politica
«Il centrosinistra, finalmente, muore, o meglio si accorge di essere morto fin dalla nascita. Evviva la sinistra» Come proseguire oltre il DS, tenendo conto che «ciò che adesso è in giocosono poco meno che i principi del 1789».

Perunanuovapolitica, 22 aprile 2013.

Finalmente si può uscire dal disastroso ventennio del post-Bolognina. Si può uscire da una triste epoca, contrassegnata dalla normalizzazione e dall’umiliazione trilateralista della democrazia italiana (ossia dalla sua costrizione entro i percorsi predefiniti del bipartitismo artificiale e della cosiddetta governabilità), e dalla contemporanea e determinante umiliazione della democrazia europea entro i gretti e oppressivi vincoli di Maastricht. Si può uscire dalla triste epoca che in Italia cominciò anche, in particolare, con la liquidazione del PCI: ossia, con la confusa e sciatta riconversione del suo capitale cognitivo secondo i canoni stilizzati (e, soprattutto, rabberciati) del nuovismo clintoniano e blairiano.

Dopo le elezioni del 24 e 25 febbraio c’era urgentemente da fare i conti con un responso sconvolgente, certamente anche pericoloso, ma potenzialmente anche salutare (e in ogni caso inevitabile). Scontrandosi con Napolitano circa il modo di reagire a una tale sfida, sotto l’urgenza di un immediato e ragionevole impulso di sopravvivenza politica, Pier Luigi Bersani lo attestava, pur non apparendo abbastanza consapevole di ciò, e certamente senza neanche volerlo. Infatti, il suo comportamento in occasione dell’elezione presidenziale è stato poi guardingo fino alla timidezza: una timidezza che può apparire anche comprensibile, riconoscendo la difficoltà di trattare seriamente con una leadership narcisista e bizzosa come quella del movimento grillino e la difficoltà ancora maggiore di controllare i micidiali narcisismi e opportunismi annidati nel suo stesso partito (che i fatti hanno poi ampiamente illustrato). La contrita umiliazione cui Bersani si è visto infine costretto, comunque, non ha rappresentato tanto la sua fine politica quanto piuttosto la fine di ciò che è stato chiamato “Partito democratico”.

Ciò di cui adesso è questione è la resistenza a un processo di espropriazione della rappresentanza popolare come sede della sovranità, strisciante da lungo tempo, e finalmente culminato nella cosiddetta emergenza finanziaria dell’eurozona (prima in Grecia e poi in Italia). Ciò che adesso è in gioco, insomma, sono poco meno che i principi del 1789. Di fronte, sta una pretesa di potere assoluto, forse non di diritto divino, ma certamente dogmatico e irrazionale.

Si pensava certamente, e si sperava, che il partito democratico e il centro-sinistra potessero subire una scossa ammonitrice più consapevole, meno ambigua, di quella che milioni di italiane e di italiani gli hanno dato nelle urne. Tentativi di proporre qualcosa di simile ci sono stati, e alcuni di noi vi hanno partecipato cercando di superare con la speranza e con la volontà i loro molti segni di potenziale inefficacia (solo in parte dovuti al loro carattere tardivo).

Ma adesso è con questa realtà che bisogna innanzitutto misurarsi. Bisogna farlo con responsabilità e coerenza, e soprattutto in modo efficace: bisogna insomma misurarsi tanto con la scossa che c’è stata quanto con la faglia che essa ha aperto nella struttura ideologica e comportamentale del personale politico stabilito entro la cosiddetta area di centro-sinistra – che appariva così ottusamente irremovibile fino al giorno prima – fino a rendere finalmente problematico questo stesso ambiguo ed esile concetto.
Il rinnovamento radicale delle consuetudini e delle strutture della politica resta naturalmente un’esigenza attuale e ineludibile. Riflessioni e prese di coscienza sulla crisi della “forma-partito” come telaio portante della democrazia sono certamente utili, anche se i risultati finora raggiunti sembrano tutt’altro che definitivi e nemmeno sempre orientati nella direzione giusta. Nel mettersi al servizio di questa esigenza, e insieme e innanzitutto al servizio del grido di dolore che sale da milioni di donne e di uomini giovani e meno giovani nella morsa di questa crisi epocale, e che bisogna salvare adesso, sembra ora tempo di dare all’imprevedibile e sapiente realtà delle cose un peso almeno equivalente a quello dei suggerimenti che la nostra mente voglia dare al suo svolgimento.

Il pensiero critico sul sistema sociale e sulla sofferenza della democrazia oggi, come sappiamo, oscilla tra rinnovamento e superamento-negazione dei partiti. La grave degenerazione dell’intero sistema dei partiti come forma e telaio portante della democrazia nel corso degli ultimi due o tre decenni è innegabile. A livello intellettuale, molto sembra ancora da fare per definire correttamente il rapporto tra questa degenerazione e il concetto stesso di partito, a cominciare dalle sue manifestazioni storiche passate, ossia “novecentesche”. Queste, cioè, non possono certamente rivivere come tali. Ma non possono nemmeno essere seppellite in qualche scantinato, come se non avessero da dire e da suggerire nulla alla nuova storia.

Sarebbe miope non vedere intanto nei processi in corso, e in particolare in quelli che coinvolgono e interessano il partito democratico e il “centro-sinistra” la possibile apertura di un ciclo nuovo e discontinuo nella serie di metamorfosi che seguirono di fatto la svolta della Bolognina (quale che sia il giudizio da dare su quello specifico episodio): per la prima volta, non verso ulteriori stadi degenerativi ma verso una possibile rigenerazione. Se ciò fosse confermato, sarebbe molto grave astenersi dal lavorare, adesso, affinché vada avanti.

Ciò non significa ignorare le tossine ancora presenti: tossine che si chiamano leaderismo, personalismo, e mille altre infiltrazioni ed esalazioni di nuovismo. Significa lavorare per combatterle in modo non meno paziente che fermo, rispettando il malato. Se veramente il malato vuole guarire. C’è ragione di crederlo e di sperarlo (restando lucidi e attenti), perché l’organismo sano che adesso può rigenerarsi e prendere vita deve e può comporsi di tessuti più o meno ammalati, ma anche dell’apporto di realtà che erano restate in gran parte sane (come quelle che i nomi di Landini, e dello stesso Cofferati, possono ben rappresentare). Questo processo di rigenerazione e di rinascita ha molto bisogno di energie generose, nuove, non compromesse; energie intellettuali, energie di militanza, e le due cose insieme. Tra un ottimismo facile e infine disastroso (come quello che accompagnò l’operazione Ingroia) e pur degne e motivate pregiudiziali che non sappiano evitare di trasformarsi in pregiudizi, il sentiero è stretto. Ma obbligato.
L’Italia nelle imminenti battaglie – quasi certamente e anche elettorali – e l’Europa la prossima primavera, quando un suo nuovo parlamento dovrà essere eletto e rivendicare potere, hanno bisogno qui adesso di un’ampia e forte alleanza democratica del lavoro (così potrebbe anche chiamarsi la nuova forza).

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