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Luciano Gallino
L’industria affonda, il governo perde tempo
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
In disfacimento anche la base materiale della vita del paese. Una nuova denuncia del sociologo ligure, da l'Unità del 14 gennaio 2005

MILANO Prima d’occuparsi dei governatori, Berlusconi s’è occupato di competitività, bandierina agitata promettendo pochi soldi e molti slogan, del tipo: modernizzazione con la pubblica amministrazione e le nuove tecnologie, potenzialità del sud, sgravi fiscali e incentivi... quanto dovrebbe bastare a rendere competitivo un paese che perde i pezzi. «Direzioni» per Berlusconi, con la genericità che le rende ancora più ovvie.

Sono «direzioni», come stare in autostrada, che possono dare competitività al nostro sistema? Lo chiediamo al professor Luciano Gallino.

«Se è così, mi pare che siamo ancora molto lontani... Cioè mi pare che quelle accennate siano questioni largamente periferiche rispetto al tema profondo della competitività, perchè questa si dovrebbe realizzare ad esempio ricostruendo la capacità industriale del paese. Non solo la capacità manifatturiera. Mi riferisco cioè a imprese che producono beni e servizi...».

Si torna al nodo del declino industriale. Ma Berlusconi non lo lo vuole vedere...

«Del nostro sistema industriale siamo riusciti a perderne gran parte e nessuno può credere di rimetterlo in piedi. Non ci si può neppure illudere di poter ricreare un’impresa di venti o trenta o cinquantamila dipendenti, di una misura cioè che potrebbe garantire risorse, tecnologie, ricerca, prodotti, eccetera eccetera, cioè competitività. Bisogna far i conti con quanto abbiamo, ad esempio con i nostri distretti industriali, e allora bisognerebbe fare in modo che i nostri distretti industriali si strutturino in modo da configurarsi come grandi fabbriche, come officine, come grandi unità produttive».

Il “piccolo” insomma dovrebbe preparare il proprio salto di qualità. E dovrebbe essere aiutato, guidato passaggio?

«Come hanno fatto e stanno facendo in altri paesi vicini a noi, Francia e Germania. Se ci sono mille piccole fabbriche, bisogna fare in modo che diventino i reparti di un’unica impresa distribuita sul territorio. Tutto questo richiederebbe un impegno serissimo, che si intuisce totalmente al di fuori delle cose che si dicevano prima, la pubblica amministrazione, gli sgravi fiscali... Vedere quali distretti, quali potenzialità, quali tecnologie, coordinare, fare opera di integrazione orizzontale e verticale, cioè organizzare ciò che è complementare e poi sostenere con scuole professionali, università, infrastrutture. Non vedo niente di questo nell’idea di competitività che agita il governo...».

Lei ha una ricetta molto complessa e pesante, strutturale. Berlusconi se la cava molto più alla svelta. Pensa che basta schiacciare un bottone e la luce si accende.

«Ovviamente non è così. Per creare competività bisognerebbe immettere in un sistema industriale le cose di cui molto si parla e di cui poco si fa: innovazione, ricerca, alta formazione, formazione professionale... Soprattutto avere bene in testa un’idea strategica di rilancio industriale».

Una politica economica e industriale, insomma. Ma non è pane per i denti di questo governo. Si sono persino dimenticati di avvertire Marzano della riunione...

«Sì, appunto, un’idea forte di politica economica che comprenda anche aspetti come la distribuzione dei redditi, le condizioni di lavoro, infrastrutture e territorio».

Treni, ad esempio. Qualcosa insomma che va oltre il calcolo elettorale.

«Già abbiamo perso molto tempo. Non si può pensare che in un anno o sei mesi si possa rimettere tutto in piedi... Una politica economica di alto profilo si proietta sugli anni, sui lustri e sui decenni, mentre qui si vorrebbe far scattare un paio di interruttori. Sarebbero urgenti altro tipo di investimento politico e culturale, altro impegno. Bisognerebbe anche intendersi sui parametri della competitività, perchè tendenzialmente si pensa alla competitività sotto forma di costo del lavoro, come se bastasse tagliare il costo del lavoro per guadagnare in competitività. Ma anche da questo punto di vista la partita pare irrimediabilmente compromessa e comunque persa, perchè non si riusciranno mai a produrre merci con costi del lavoro pari a quelli, oggi, della Cina o di altri paesi emergenti e non si possono neppure degradare i nostri salari nel nostro sistema produttivo al punto di mettersi alla pari o addirittura in gara. Sono progetti irrealizzabili, che non si possono neppure decentemente proporre».

Eppure il costo del lavoro è un ritornello di questa maggioranza di centrodestra.

«E si continua a sentirlo sullo sfondo di certi discorsi. Insomma, la corsa verso il fondo ha i suoi sostenitori.. piuttosto che la corsa verso l’alto... Ma se la competitività è corsa verso il fondo, la sfida è subito destinata alla sconfitta, da un lato per ragioni materiali, dall’altro per ragioni di civiltà e di moralità».

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