Due sono state le notizie principali in Sardegna, nelle prime settimane di Agosto. Di peso ed interesse diverso esse mi hanno offerto l’occasione di una riflessione.
La prima, non molto importante, è l’appello di Briatore contro la cosiddetta “tassa sul lusso” in Sardegna; un appello che sicuramente si presta a facili ironie: in ogni caso il suo nocciolo è che il turismo dei ricchi porta benessere.
La seconda, molto importante, è l’annuncio che fra due anni si chiuderà la base militare della Maddalena; e qui mi sono ricordato che il Presidente della Sardegna Soru da tempo ha condotto questa benemerita battaglia (ed anche quella sulle servitù militare), ma che tra le sue proposte per l’economia della Maddalena c’è il cosiddetto turismo di lusso (o dei ricchi: riassumibile nella formula “hotel a cinque stelle e campi da golf”).
In un certo senso, nonostante le polemiche tra loro, vi è forse un “comune sentire” fra Briatore e Soru.
Non voglio paragonare il faccendiere Briatore, che pure è persino simpatico (a parte il rispetto che va tributato a chi ha avuto al fortuna ed il merito di essere scelto come fidanzato da Naomi Campbell), ma che miliardario (billionaire) probabilmente non è, a Soru.
Soru miliardario lo è per davvero: è stato tra i primi cento ricchi del mondo nella classifica di Forbes, ma soprattutto è un grande imprenditore, capace di innovazione e visione (un innovatore nel senso che gli dava Schumpeter).
Ma sembrano entrambi convinti che il turismo buono sia quello di lusso.
Questo vorrei porre in dubbio.
Lo faccio anche considerando un’altra iniziativa del Presidente Soru: quella relativa al “Bando per la cessione, riqualificazione e trasformazione di ambiti di particolare interesse paesaggistico del parco geominerario della Sardegna”.
È un bando che prevede la vendita di edifici in “luoghi ormai abbandonati da molti decenni, che sono stati nel passato centro di importanti vicende operaie e industriali, costituiti da villaggi operai raccolti attorno a piccole chiese, palazzine direzionali, edifici scolastici, che si affiancano alle grandi strutture legate all'attività estrattiva, imponenti laverie, pozzi, giganteschi impianti industriali. Sono le architetture di un'epoca passata che sorgono in una zona costiera, in gran parte intatta, un vero spettacolo della natura.”
Si tratta di 260.000 metri cubi, da destinare “a strutture alberghiere ricettive con annessi centri benessere, strutture sportive e per il golf, interventi di miglioramento ambientale e di forestazione, realizzazione di strutture di supporto alla fruizione turistica dei siti di archeologia industriale eventualmente insistenti su tali aree.”
Anche qui ci si immaginano le cinque stelle, mentre il golf è esplicitamente citato.
Vero è che l’elenco delle destinazioni d’uso è “esemplificativo e non esaustivo”, come è stato precisato in un dei “quesiti e chiarimenti”, ma esemplificare significa appunto “proporre ad esempio”.
Ci sono delle considerazioni di tipo generale: perché vendere e non dare in concessione o gestire direttamente o con una società mista?
Ci sono considerazione legate ai quei luoghi: perché vendere quelle straordinarie architetture che sono luoghi di grande rilievo storico, culturale ed identitario (io le ho conosciute attraverso il film di Cabiddu, Il figlio di Bakunin)? Perché destinare a “strutture per il golf” zone estremamente “sensibili” per le emozioni e le memorie, che poi sorgono in una zona costiera “che è un vero spettacolo della natura”, estremamente sensibile dal punto di vista ambientale?
Ma quello che non mi convince, che mi pare non meditato, banale e non motivato è il convincimento che traspare qui, come in molti altre proposte, secondo cui il “turismo di lusso” è un buon turismo.
Non è così; in linea generale, almeno.
Non lo è (certamente) da un punto di vista ambientale: l’impronta ecologica del turista di lusso è enorme e assai fetida.
Non lo è (io credo) da un punto di vista economico: tende a creare ghetti autosufficienti, occupazione di bassa qualità e di tipo servile, servizi di tipo “internazionale” e non legati ai luoghi, incentiva il turismo “mordi e fuggi” dei voyeurs, è egoista e tendenzialmente stagionale, provoca aumenti di prezzi, privatizza spazi pubblici.
Può darsi che in altri tempi non ci fossero alternative, ma quella era l’epoca in cui si veniva mandati in Sardegna per punizione e non per premio.
Il turismo “buono”, sostenibile ambientalmente ed economicamente, non si distingue per fascia di reddito, ma per il rapporto che ha con i luoghi.
Facciamo degli esempi.
È buono il turismo dei giovani e degli studenti, che magari spendono poco, ma si muovono sul territorio, interagiscono tra loro e con i residenti e si affezionano e tornano e ne parlano.
È buono il turismo “elitario” di persone ad alto reddito (in genere non strettamente “ricchi”) che cercano situazioni e sensazioni “speciali”, che hanno cultura e rispetto per i luoghi e che hanno bisogno di servizi ad alto valore aggiunto.
È buono il turismo fedele si persone a reddito medio, magari di pensionati, che “si affezionano” ad un luogo, tornano anno dopo anno, magari nei periodi non di punta, magari per risparmiare (è la propensione al risparmio uno dei fattori possibili di successo di azioni per “destagionalizzare”.
In genere è buono un turismo di “cittadini”, ovvero di persone che si sentono a casa loro e che perciò danno oltre che prendere e che si mescolano ai residenti e che vivono un po’ della loro stessa vita; tra loro forse qualche ricco vero cui proporre qualche cinque stelle o qualche bell’hotel de charme (che tra l’altro non sono tutti a cinque stelle).
Certo nella miscela necessaria per una massa critica si dovrà scontare per un po’ una quota di turismo omologato (ricco, povero e medio), ma una “politica del turismo” punta non tanto ad aumentare questo tipo di turismo, ma a lavorare per migliorare questo turismo e a competere per attrarne un altro.
La giusta battaglia che in altre epoche è stata fatta per evitare di “diventare un popolo di camerieri” può aver condotto a qualche guaio ambientale , ma aveva un senso ed esprimeva una necessità anche economica; un buon turismo è un turismo senza troppi camerieri (con tutto il rispetto e la stima per i camerieri, anche perché esistono camerieri di grande qualità e di grande valore aggiunto che è bene avere e – a quel livello – è anche un buon mestiere).
Un buon turismo non è una mono-cultura.
Un buon turismo è un’attività economica che si integra con altre.
E allora è bene essere prudenti e non seguire i luoghi comuni, ma è opportuno “calcolare” (come avrebbe detto forse Leibniz).
Ad esempio dire “basta seconde case” non è la stessa cosa di dire “facciamo più alberghi”; può darsi che qualche volta sia così e senza dubbio basta con altre seconde case, ma delle seconde case che ci sono già cosa ne facciamo? Che se ne stiano vuote per 335 giorni all’anno? E se magari un alcuni contesti, fossero proprio quelle case gli “alberghi” che servono?
Ad esempio “più occupazione nel settore del turismo” non è sempre una cosa positiva; c’è occupazione e occupazione: ci sono posti di lavoro servili e precarie indotti dal “turismo di rapina” (come giustamente lo ha definito il Presidente Soru) e ci sono quelle prestigiose e di qualità.
Che tipo di turismo serve per una “buona occupazione”?
Intanto partiamo da qui: vendere per un turismo così (che forse non distinguerebbe la Sardegna da Marrakesh, come dice giustamente il Presidente Soru) proprio quei luoghi della Sardegna sud-occidentale tra il Guspinese e il Sulcis Iglesiente, non è neppure un affare, credo.
Non mi riferisco al fatto che 40 milioni di euro siano pochi o tanti; non lo so.
Mi riferisco al fatto che il turismo possibile ed utile in quei luoghi è un altro; per luoghi carichi di storia, c’è bisogno di sobrietà e di rispetto; i luoghi della memoria vanno conosciuti ed assimilati, recuperati poco a poco e delicatamente, man mano che si bonificano, trasformandoli in un processo che crei una comunità di persone che imparano a conoscerli e ad amarli, persone che da sempre hanno vissuto in quei luoghi e persone che li hanno visitati una sola volta.
Esperienze sagge e di successo non mancano.
Un passo indietro: prima di vendere, pensiamo a cosa è meglio.
Con la capacità di visione delle persone creative, con la capacità di correggere i propri errori delle persone intelligenti: insomma con le doti dell’imprenditore schumpeteriano.