L´odierna discussione della «questione cattolica» è resa particolarmente difficile da una comune ma opposta disposizione d´animo diffusa sia nel mondo cattolico che in quello laico. La si potrebbe dire una sindrome da accerchiamento. È stupefacente constatare che molti cattolici, in perfetta buona fede, considerano la propria religione insidiata nella sua stessa esistenza dalla laicità, identificata con relativismo etico, edonismo, materialismo, scientismo; che per molti laici, altrettanto in buona fede, è invece l´attivismo politico della Chiesa a minacciare i principi stessi su cui il loro mondo si fonda: pluralismo di fedi, convinzioni e modi di vivere, rispetto delle coscienze, autonomia del diritto dalla morale, libertà della scienza. Per ognuna delle parti, l´altra è una minaccia. È la condizione più favorevole allo scontro e meno favorevole al dialogo. Ma il dialogo, tuttavia, per preservare le fondamenta, è tanto più necessario quanto più difficile. Benemerito chi, nell´uno e nell´altro campo, opera per tenerlo vivo.
La «questione cattolica» è una messe di questioni: cristianesimo e identità, Chiesa e Stato, Chiesa e democrazia. Iniziamo dal primo binomio.
Identità è la parola magica di tutti coloro che pensano al Cristianesimo come religione civile, come strumento di governo delle società. Le discussioni sul Preambolo del fallito progetto di Costituzione europea sono state dominate dalla questione dell´identità cristiana. La stessa idea si riaffaccia ogni volta che, nel nostro Paese, si parla della posizione materiale e simbolica che è giusto assegnare alla religione nella vita pubblica. Nella controversia circa l´esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici, alla libertà e uguaglianza delle coscienze si contrappone l´identità religiosa come valore nazionale. I privilegi che la Chiesa rivendica come diritti (insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, finanziamenti diretti e indiretti, agevolazioni tributarie, posti nelle più diverse istituzioni, ecc.) si vogliono giustificare con l´essenza cattolica dell´identità nazionale. Ancora l´identità è invocata tutte le volte che si toccano temi di morale tradizionale, come la famiglia e la procreazione. Infine l´identità in pericolo è l´argomento principe di coloro che – cattolici e non cattolici – propugnano una politica di difesa aggressiva nei confronti dell´Islam.
In tutti i casi, identità è la cittadella assediata, l´ultimo fortino da difendere, magari attaccando, prima della capitolazione. Questa resistenza unisce cristiani credenti e cristiani non credenti che si dicono tali per ragioni politiche (teo-con, atei-devoti o come altrimenti li si denominino).
La spendita politica del Cristianesimo va di pari passo con una triplice riduzione: A) dell´identità a storia; B) della storia europea a Cristianesimo e C) del Cristianesimo a Chiesa. In tal modo, il gioco è fatto: la difesa dell´identità finisce con l´allineamento alla Chiesa. Vediamo.
A). Identità è un modo per dire «carattere essenziale». Nel dibattito pubblico, la parola è stata banalizzata. Quasi non c´è «opinionista» o uomo politico che non se ne serva a piene mani. Ma la banalità nasconde le ambiguità. Soprattutto, occulta la domanda se l´identità sia un fatto oppure, nei limiti in cui siamo capaci di elaborare e selezionare culturalmente il nostro passato e progettare un avvenire, un´elezione. Come se non potesse essere altrimenti, la si assume come fatto o, meglio, insieme di fatti, cioè storia. La questione dell´identità, nella sua essenza, è una questione di filogenesi storica, di competenza della storiografia.
Siamo prodotti della storia e non possiamo negare la storia senza negare noi stessi. Quante volte si è detto: non possiamo recidere le radici! E le radici sono un dato della vita naturale.
Questa concezione dell´identità è acritica e aggressiva e corrisponde all´idea di sé propria delle società tribali. E´ acritica, perché nell´identità in cui dovremmo riconoscerci starebbero, allo stesso titolo e col medesimo valore, il centurione che presso il Colosseo ci ricorda il panem et circenses, l´Accademia dei Lincei che rinnova il ricordo dell´Umanesimo italiano, la Marcia su Roma e le Fosse Ardeatine, per fare qualche esempio. Non è forse una coincidenza se una certa storiografia revisionista che, tramite assoluzioni generalizzate e appiattimento dei valori, chiede l´assunzione in blocco del passato nella nostra identità «nazionale» è la stessa che difende il Cristianesimo come religione civile. Ma questa concezione è anche aggressiva. Di fronte alle sfide, non ci possiamo mettere in discussione. Se lo facessimo, tradiremmo noi stessi o il gruppo cui apparteniamo. L´unica possibilità è l´autodifesa e qualunque mezzo è a priori legittimo, anzi santo. Appellarsi all´identità equivale a battere il pugno sul tavolo contro gli estranei che sono o si affacciano tra noi.
Una volta «chiarita» la nostra autentica identità, che cosa dovrebbe fare chi non vi si riconosce o, peggio, non vi è riconosciuto dagli altri? Dovrebbe accettarla obtorto collo, per non essere meno cittadino? O dovrebbe addirittura scomparire, se i caratteri dell´identità (come l´etnia o la «razza») non permettessero adattamenti? E´ una storia antica. Non si è compreso che, dietro una parola apparentemente dotta, minacciosamente fa di nuovo capolino il nazionalismo etico. Ma non dovrebbe essere la Chiesa a rifiutare questa idea di identità: proprio la Chiesa cattolica che, tra tutte le chiese, è la più orientata all´azione missionaria? Il proselitismo nel campo occupato da tutte altre tradizioni religiose non si basa forse sull´idea che ogni persona e i popoli interi possono essere artefici della loro identità, che non l´ereditano come un fagotto obbligatorio?
B). La civiltà europea come storia solo cristiana è un´idea onnivora, già a prima vista bizzarra. Eppure, è proprio questo che gli apologeti della religione civile cristiana sostengono quando attribuiscono al cristianesimo la primogenitura in tutto ciò che oggi ci pare buono e bello. Si dice, ad esempio, che la democrazia - vanto dell´Occidente - non vive senza condizioni: fiducia reciproca, pari dignità degli esseri umani, senso di responsabilità e di giustizia, tolleranza e rispetto; che tutto ciò è ethos cristiano e che dunque la democrazia è figlia del Cristianesimo. Così, però, si gioca sull´equivoco. L´affermazione può valutarsi diversamente a seconda che per Cristianesimo s´intenda messaggio cristiano o storia della Chiesa.
Limitiamoci al rispetto e alla tolleranza. Certamente, il messaggio cristiano non giustifica nulla che faccia violenza alla libertà. Il Cristo non obbliga nessuno. Nella grande tentazione satanica del deserto (Mt 4, 1-11; Lc 4, 1-13), egli rifiuta la coercizione delle coscienze: rifiuta il comando che costringe, il miracolo che seduce, i beni materiali che corrompono. Nessuna sanzione colpisce chi rifiuta la chiamata, se non un poco di tristezza (Mt 19, 23; Mc 10, 22; Lc 18, 23). La conversione è, per antonomasia, l´atto di libertà della coscienza. Ma chi oserebbe negare che nei secoli la Chiesa abbia invece piuttosto avversato la democrazia e appoggiato ogni sorta di autocrazia, che abbia praticato più l´imposizione che il rispetto delle coscienze? Chi potrebbe dimenticare la violenza di cui è stata dispensatrice in nome della fede che custodiva? Chi può avere la memoria così breve da ignorare che l´unica «libertà» riconosciuta è stata a lungo quella di aderire alla vera religione e che ogni rivendicazione di libertà diversamente indirizzata è stata oggetto di dure condanne?
Le libertà provengono piuttosto dalla contestazione dell´autorità della Chiesa: una contestazione che, in taluni casi, ha preso a base lo spirito evangelico dell´uguale dignità dei figli di Dio per rivolgergliela contro ma, in molti altri, ha avuto radici apertamente razionaliste, immanentiste, teiste, scientiste, atee: in genere a - o anti-cristiane. Senza di ciò, la Chiesa stessa non sarebbe quella che è: la Chiesa che si è disposta ad accettare la sfida del «mondo moderno», cioè del nemico contro il quale per molti secoli aveva militato.
La storia d´Europa non è dunque storia solo cristiana, nemmeno storia cresciuta tutta entro le contraddizioni generate dalle possibilità del logos cristiano.
Non ci sono ragioni d´opportunità o d´opportunismo che giustifichino autentiche appropriazioni indebite, per esempio in tema di diritti umani. Secondo la tradizione cattolica, aristotelico-tomista, il diritto è l´ordine naturale oggettivo, al quale il singolo deve conformarsi. Per la tradizione moderna, che inizia col Rinascimento, la prospettiva si rovescia addirittura e il diritto diventa prerogativa dell´individuo che autonomamente agisce nella società. Scavando nelle controversie tra papato e ordini monastici, nelle glosse dei giuristi medievali e nella filosofia della cosiddetta seconda scolastica, qualche studioso ha rintracciato qua e là rari e sempre discutibili indizi di uso del termine ius in senso soggettivo, invece che oggettivo, e ha concluso che nemmeno la concezione moderna dei diritti può ascriversi a un pensiero diverso da quello cristiano. Tali tentativi di revisione storiografica hanno avuto una ragione di politica culturale precisa, legittimare quella che a molti, all´interno del mondo cattolico, poteva apparire una cesura nelle radici: l´adesione del Concilio Vaticano II allo spirito moderno dei diritti umani.
La fondatezza di questi studi, pur mossi dalle migliori intenzioni, è però più che dubbia. Ma è bastato il tentativo perché ci si sia buttati senza discernimento, non temendo di relegare in secondo piano, quasi come sottoprodotto, i diritti umani sorti dalle comunità riformate, dal razionalismo, dal liberalismo, dal socialismo: diritti che la dottrina della Chiesa ha per secoli condannato e, sotto certi aspetti, ancor oggi condanna nei suoi massimi documenti normativi.
Questa cedevolezza fondata sulla dimenticanza non è solo fastidiosa. È è anche dannosa, perché appiattisce le cose nel più insulso degli accomodamenti, concettualmente e moralmente privo di nerbo. Tutto sembra la stessa cosa. Invece, la dottrina laica dei diritti non è quella cattolica, come risulta da un punto cruciale: per la prima, il limite dei diritti è l´uguale diritto altrui; per la seconda, l´ordine naturale giusto. La differenza è capitale. La prima dottrina mira alla libertà; la seconda, alla giustizia.
Valori diversi e, in certi casi, anche in conflitto, come constatiamo, ad esempio, a proposito del riconoscimento delle unioni al di fuori della famiglia tradizionale: per gli uni, non fanno male a nessuno; per gli altri, sono comunque «disordinate».
Solo mantenendo le differenze si può salvare la ricchezza delle diverse tradizioni: nella specie la tensione alla libertà (contro il quietismo oppressivo della giustizia) e la tensione alla giustizia (contro la prepotenza senza limiti).
C). In ogni caso, il Cristianesimo non è solo istituzione mondana. La riduzione dell´uno all´altra ucciderebbe lo spirito cristiano, espressione della parola divina trascendente ogni concretizzazione storica. Lo spirito cristiano non è una cultura dominante, una scala di valori temporali definita o una forma politico-culturale realizzata. Addirittura, non può nemmeno mai identificarsi pienamente con un´organizzazione confessionale, una chiesa o una «comunione di santi» storicamente determinate.
Sarebbe comunque riduzione mondana, culturale, etica, politica o chiesastica, nella quale il finito pretenderebbe di costringere l´infinito. Una tale riduzione ucciderebbe la speranza nello spirito e la Chiesa, secondo un monito di Soren Kierkegaard, sarebbe addirittura «annientata».
Il Cristianesimo è «spada che divide» il mondo (Mt 10, 34-35; Lc 12, 51-53); è «dal mondo» ma non «del mondo» (Gv 15, 19). Il Cristianesimo come «religione civile» sarebbe una confusione letteralmente anti-cristiana. Il messaggio di Gesù di Nazareth diventerebbe un´ideologia come un´altra, un collante sociale ambiguo e mellifluo, al servizio di ordinamenti costituiti. Per questo, è segno di totale sbandamento, è anzi motivo di scandalo, l´applauso opportunistico che certi «cristiani per fede» (chierici e laici) tributano oggi a certi «cristiani solo per politica».
«La Chiesa è una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino»; essa «è visibile ma dotata di realtà invisibili [...], presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina»: dice il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 771), aggiungendo una splendida citazione da Bernardo di Chiaravalle ove, a commento del Cantico dei cantici, si paragona così la donna amata alla Chiesa: «corpo di morte, tempio di luce [...] Bruna sei, ma bella, o figlia di Gerusalemme [Ct 1,5]: se anche la fatica e il dolore del lungo esilio ti sfigura, ti adorna tuttavia la bellezza celeste». Su questa doppia natura, proprio la Chiesa cattolica ha costruito la dottrina che le consente di passare indenne attraverso errori e anche nefandezze dei suoi uomini.
Essi, per quanto infedeli al Vangelo di Cristo, non ne intaccano lo spirito. Non si giudica il Cristianesimo solo a partire dai cristiani: nonostante i loro peccati, la Chiesa è santa e non per la virtù dei suoi figli ma in virtù dello spirito. Questa tensione è ciò che immunizza la Chiesa - institutio divina ma «sempre bisognosa di purificazione» (Catechismo, n. 827) - dall´effetto mortifero dei suoi peccati. Ma se la Chiesa rinnega la sua dualità? Se i suoi uomini si attribuiscono il pieno possesso dello spirito confondendolo così con quel mondo che essi sono, come potrà non valere anche per la Chiesa la legge inesorabile di tutte le istituzioni «secolarizzate» che si insudiciano della corruzione dei loro membri e, alla fine, ne sono travolte?
All´inizio del terzo Millennio, il papa Giovanni Paolo II ha ritenuto necessario chiedere perdono a Dio per un´impressionante sequela di misfatti della Chiesa cattolica, tutti dovuti a commistioni di fede e potenza mondana. È stata un´ammissione di colpa rivolta al passato ma nulla impedisce di ipotizzare che altre ammissioni domani dovranno ripetersi con riguardo al nostro presente, quando sarà anch´esso passato. Questa è umiltà cristiana. Sbagliare compromettendo nell´errore lo spirito divino, oltre che se stessi, sarebbe invece il massimo dell´orgoglio.
In breve, ricapitolando i tre punti, possiamo dire che la riduzione dell´identità a mera storia è una seduzione tribale; la riduzione della storia europea a storia cristiana, un falso storico; la riduzione del Cristianesimo a Chiesa, un peccato contro lo spirito. Che ne viene, allora? Allora, non limitiamoci a confrontarci su ciò che siamo stati ma ragioniamo soprattutto di quel che vogliamo essere; diamo al Cristianesimo il posto che gli spetta nella storia spirituale europea, non come tutto bensì come parte di un tutto assai più vasto e composito; riconosciamo alla Chiesa il pieno diritto di partecipare, insieme agli altri, alla definizione delle nostre identità collettive, ma in parità morale con ogni interlocutore, senza che il nome cristiano giustifichi una pretesa d´incontestabilità.