Passeggiando sul lungomare li riconosci subito: i terremotati (brutto termine: ma ormai è entrato nel nostro vocabolario) hanno qualcosa di diverso dai residenti, e dai primi villeggianti. Roseto degli Abruzzi è una bella cittadina turistica: in questi giorni, poi, l’Adriatico, è azzurro come i mari lontani che vediamo sui poster delle agenzie di viaggi. Anche gli alberghi dove gli sfollati hanno trovato rifugio sono tutti di buona o eccellente qualità: tre stelle, quattro stelle. Ma sui volti dei terremotati sono impresse domande insistenti: quando tornerò? Ritroverò un lavoro? Che futuro avranno i nostri figli? Si coglie un sentimento di inquietudine: che il provvisorio diventi definitivo.
Nel 1981 un collega inglese, a un anno esatto dal terremoto dell’Irpinia, scrisse: «Voi italiani avete un maledetto gusto per le ricorrenze», ed è vero. Ma aiuta a ricordare. E a far sapere che, dodici mesi dopo quella scossa del 6 aprile che devastò l’Abruzzo, 5.336 persone sono ancora negli alberghi; altre 1.070 sono sempre sulla costa, ma in appartamenti privati; 926 sono sistemate in due caserme. In totale, 7.332 persone che non hanno ancora riavuto la loro casa, e non hanno neppure avuto una casa di legno. Bisognerebbe aggiungerne altre quindicimila che hanno trovato ospitalità da parenti o amici, qualcuno in roulotte.
Non è che il governo non abbia fatto nulla, anzi. La ricostruzione è molto indietro, ma quanto a sistemazione dei senza tetto, è stato fatto molto più che in passato. È che il terremoto è una cosa terribile che ai nostri occhi resta terribile solo quando sulle macerie sono accesi i riflettori: spenti quelli, ci dimentichiamo. Alla gente colpita il futuro genera incertezza, il passato paura.
Ci racconta Arnaldo Centi, un pensionato che incontriamo sulla passeggiata: «Quella notte? Ricordo il tremare, la luce che va via subito. Ho chiamato i figli che dormivano, il terrore che non fossero vivi, l’intonaco del soffitto caduto sul viso. Sono vivo, e mi considero fortunato. Uno del mio paese è scampato al crollo, ma il giorno dopo è morto di infarto. La paura è tremenda».
All’hotel Marechiaro ci accolgono con sospetto: il proprietario ci spiega che è stata qua una troupe della tv, è rimasta sua ospite per alcuni giorni, ha intervistato tutti gli sfollati e poi ha mandato in onda solo le dichiarazioni di chi si lamentava. «Uno schifo - dice Giovanni Speranza, 56 anni, uno degli ospiti dell’albergo - quella trasmissione è stata uno schifo. Qui l’accoglienza è ottima, più del dovuto. Non sono di nessun partito, ma secondo me questo governo non ci ha fatto mancare niente. Chi dice il contrario è un bugiardo, sono quelli che vorrebbero avere sempre tutto gratis. Io mi sono sentito trattato bene, non posso pretendere di più. La mia casa dell’Aquila ha lesioni non gravissime e non avevo diritto alla nuova abitazione antisismica: ma mia figlia, che è sposata, l’ha avuta. Settantacinque metri quadrati, si sta bene. Per me Bertolaso è un grande uomo e Berlusconi si è comportato da signore: quello che ha promesso, l’ha fatto».
È lo Stato che paga gli alberghi: «Con calma, ma paga», dice il proprietario dell’hotel Palmarosa: «Ho avuto qui fino a 180 persone, adesso molte di meno. Sono rimasti soprattutto gli anziani». Quelli che lavorano devono fare i pendolari con L’Aquila: è un disagio, ma per loro l’autostrada è gratis. «Stiamo bene, non paghiamo nulla», dice Pasquale Nardecchia, 86 anni: ci racconta che correva in bicicletta con Coppi, Olmo e Fantini.Lo Stato paga l’albergo anche alla sua badante, che è rumena e alle difficoltà è abituata. Si chiama Viorica Chivu, è parente del calciatore dell’Inter che ha avuto un brutto infortunio: ci chiede se sappiamo come sta, sembra più preoccupata per lui che per lei.
Sono qui tutti da aprile, maggio dell’anno scorso. Il rischio è quello di lasciarsi andare. Stare in albergo è comodo e confortevole, non bisogna preoccuparsi di nulla, ma la noia è sempre in agguato. Riconosci quelli che non reagiscono anche da come sono vestiti: se resti in tuta tutto il giorno è un brutto segno, passi la giornata davanti alla tv.
«Sì, bisogna stare attenti a non morire dentro», dice Manfredo Nanni, pensionato, ospite all’hotel Marechiaro. «Ne ho approfittato per realizzare un mio vecchio desiderio e ho scritto un romanzo. E poi sono istruttore di fuoristrada, qui a Roseto c’è un club, ho potuto tenere dei corsi». È uno di quelli - e dobbiamo dire che sono la maggioranza - che non si lamentano: «Mi hanno sempre trattato bene, non solo nell’albergo ma in tutta Roseto: abbiamo trovato grande solidarietà, ci incoraggiano, nei negozi ci fanno lo sconto. I disagi? Certo che ci sono ma non si può dare la colpa al governo. C’è stato un terremoto! Vorrei vedere quelli di Haiti se sono stati trattati come noi».
Ci sono certamente anche colpe dell’uomo: ma vanno ricercate nel passato. Manfredo Nanni assume le sue: «Sono un architetto ed ero direttore tecnico dell’Ater, l’istituto delle case popolari dell’Aquila. Devo dire che anche noi tecnici non abbiamo pensato al terremoto per troppi anni. Rispettavamo le normative, certo, ma non erano adeguate al rischio di un sisma. E sa perché? Perché il 1915, l’anno del terremoto di Avezzano, era lontano. E il terremoto dell’Aquila del 1703 ancora più lontano. E quello del 1463 ancora di più. È questa abitudine a dimenticare che ci ha rovinati. Adesso non dobbiamo perdere la memoria».
L’Aquila da qui sembra ancora molto lontana. Più che nello spazio, nel tempo: chissà quando tornerà a essere una città. Il rischio di perdere la memoria riguarda tutti noi. «Noi - scrisse Enzo Biagi tornando dal Belice - che abbiamo il problema del parcheggio o di come riempire il tempo libero, non possiamo continuare a ignorare la delusione e la rabbia di chi ha il problema di vivere». (3 - continua)