Non bisogna farsi ingannare, e soprattutto tranquillizzare, dalla sostanziale stabilità della diffusione della povertà nel nostro paese anche in un anno, il 2008, segnato nella sua seconda parte dalla crisi economica. É vero che a livello nazionale la diffusione della povertà relativa ormai da quattro anni si attesta attorno all’11,3% delle famiglie (2 milioni e 737 mila circa) e il 13,6% della popolazione (circa 8 milioni e 78 mila individui). Ed è rimasta stabile, al 4,9%, anche l’incidenza di quella assoluta. Ma vecchi divari si sono ampliati e specifici gruppi hanno aumentato la propria vulnerabilità.
In primo luogo, nonostante situazioni di peggioramento emergano anche nel Centro e soprattutto al Nord, il divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno è aumentato e complessivamente l’incidenza della povertà in queste regioni, già molto più elevata che nelle altre, è ulteriormente aumentata. Significativamente tale aumento si riscontra sia se si utilizza la linea della povertà relativa, uguale per tutto il paese, sia che si utilizzi quella della povertà assoluta, che viceversa, a parità di beni considerati necessari, tiene conto, oltre che della numerosità della famiglia, anche del diverso costo della vita nelle varie aree del paese. In particolare, la diffusione della povertà assoluta nel Mezzogiorno è passata dal 5,8% delle famiglie nel 2007 al 7,9% nel 2008, a fronte di una media nazionale del 4,9% (3,2% nel Nord, 2,9% nel Centro).
In secondo luogo è aumentata l’incidenza della povertà, sia relativa che assoluta, tra le famiglie numerose, in particolare quelle con due o più figli, specie se minori. Ciò, tra l’altro, significa che la povertà tra i minori è aumentata più che tra gli adulti. Un fenomeno per nulla contrastato, nel nostro paese, da misure quali assegni per i figli di tipo universalistico e non riservate solo alle famiglie di lavoratori dipendenti a basso reddito. Tanto meno da una social card di valore irrisorio e destinata solo ai bambini sotto i tre anni. Il fenomeno della povertà minorile nel nostro paese è grave ed ha caratteri di persistenza, quindi effetti di lunga durata sulle chances di vita, maggiori che per gli adulti. È stato da tempo segnalato dai vari rapporti della Commissione di indagine sulla esclusione sociale. Anche i Rapporti dell’Unicef sulla condizione dei minori nei paesi sviluppati indicano che l’Italia è collocata, insieme agli Stati Uniti e all’Inghilterra, tra i paesi in cui la percentuale di minori in condizioni di disagio economico è più serio. Ma i diversi governi che si sono succeduti, a differenza, ad esempio, di quello inglese, non lo hanno mai considerato una priorità da affrontare con misure non occasionali e puramente simboliche. Anche il Libro bianco sul futuro del modello sociale non fa pressoché menzione.
In terzo luogo, l’incidenza della povertà sia relativa che assoluta è aumentata nelle famiglie in cui gli adulti sono a bassa istruzione e in quelle in cui sono in cerca di lavoro. Sia avere una bassa qualifica che perdere il lavoro, in altri termini, ha presentato nel 2008 un rischio più elevato di caduta in povertà che in passato. La cosa non sorprende, perché i lavoratori a bassa qualifica hanno sia meno riserve che minori possibilità di ricollocarsi, specie in un periodo di diminuzione della domanda di lavoro. E sappiamo che molti di coloro che hanno perso il lavoro non hanno diritto a nessuna forma di protezione del reddito, stante il nostro sistema frammentato e pieno di trappole. Il fatto è che il numero di coloro che hanno perso il lavoro è nel frattempo aumentato ed è destinato ad aumentare ancora, senza che si sia messo mano ad un sistema di protezione più adeguato. Anzi, per certi versi si sono accentuati i difetti dell’esistente: discrezionalità, categorialità, criteri di esclusione sorprendenti e così via.