La lunga ed estenuante transizione italiana è arrivata al suo approdo. Vista dalla fine, la storia si vede sempre meglio. Vista dalla fine, e caduti uno dopo l'altro i veli che nei primi anni `90 fecero brindare molta sinistra al «nuovo inizio», la transizione mostra con chiarezza la sua posta in gioco più vera. Che è stata, dall'inizio, la rottura e la riscrittura del patto costituzionale fondativo della Repubblica. Non questo o quel punto, questo o quel potere, questo o quel diritto, ma l'impianto, la concezione della democrazia, la storia novecentesca e antifascista di quel patto. Non a caso la maggioranza che ha messo al mondo la proposta della nuova Carta è fatta di tre forze fin dall'inizio eterogenee, ma fin dall'inizio cementate dalla loro comune estraneità e ostilità alla Carta del `48. Nel voto del Senato di ieri non c'è, per il centrosinistra, una sconfitta politica: c'è una sconfitta, e una verità, storica. Bisogna guardare in faccia questa sconfitta e questa verità senza diminuirle. Perché è vero che l'ultima parola non è ancora detta e spetta al referendum, ma è vero altresì che il referendum non si potrà vincere senza questa cruda consapevolezza, derubricando la posta in gioco o smussando le ragioni dello scontro. L'esito di oggi si poteva evitare? Sì, si poteva evitare; o almeno si poteva lottare con convinzione per evitarlo. Si poteva evitare, dagli anni ottanta in poi, di interiorizzare l'idea che la democrazia italiana avesse bisogno solo di qualche iniezione di governabilità. Si poteva evitare, negli anni novanta, di abbracciare il sistema maggioritario come la panacea di tutti i mali, senza nemmeno preoccuparsi di dotarlo delle garanzie necessarie a non farlo funzionare (oggi e anche in passato, quando fu il centrosinistra a riformare da solo il titolo V) come onnipotenza della maggioranza. Si poteva evitare di innamorarsi con frivolezza di tutti i figurini istituzionali disponibili sul mercato internazionale, dividendosi sul premierato israeliano e sul semipresidenzialismo francese invece di arginare e ribaltare il sovversivismo di Berlusconi, Bossi e Fini. Si poteva evitare di giocare a dadi con la Costituzione e con le istituzioni per risolvere problemi di natura squisitamente politica interni ai partiti e alle coalizioni. Ci voleva una politica costituzionale; non c'è stata.
Bisogna ricostruirla e comunicarla all'opinione pubblica con la convinzione che serve nelle battaglie decisive. Non è vero che la materia è astrusa quanto sembra e non è detto che sia meno coinvolgente di un Porta a Porta su Sanremo. Intrattenere gli elettori sui dispositivi tecnici della riforma può essere difficile, ma spiegarne il senso è semplice. E il senso è questo: una riforma che dà tutti i poteri al premier, riduce il parlamento a una camera di consultazione medievale, sovrappone quattro fonti legislative, altera le funzioni di garanzia del presidente della Repubblica e della Corte. E soprattutto, svuota la rappresentanza e fa a pezzi i diritti fondamentali. Ce n'è abbastanza per mobilitare chiunque.
Esiziale sarebbe invece, per l'opposizione, restare paralizzata dall'annosa paura che difendere il patto del `48 significhi macchiarsi di conservatorismo, e che riformarlo significhi riscriverlo nello stesso senso, solo un po' più moderato, del centrodestra. La Costituzione non va né difesa come un totem né stracciata come un certificato scaduto: va rilanciata, nel suo spirito originario, all'altezza del presente. Magari con un occhio puntato alla Costituzione europea, cornice necessaria, ancorché a sua volta controversa, per smarcarsi dal talk show della transizione nazionale e compiere il salto che la storia impone davvero dal Novecento al secolo nuovo.