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GIUSEPPE D’AVANZO
LE ULTIME parole di Ilda Boccassini sono un urlo alla luna nera, una protesta civile, il tentativo finale di proteggere almeno, soffocato il processo con una legge palesemente incostituzionale, la limpidezza del lavoro della procura di Milano, lo spirito di servizio e la correttezza degli addetti in toga e in divisa. Il pubblico ministero ha buone ragioni per farlo.
Appena qualche giorno fa. L’imputato Berlusconi entra nell’aula del suo processo con l’aria spavalda di chi è uso agli schermi e al riflettore. Libera il suo flusso verbale, accortissimo a tenersi lontano dalle circostanze, dalle testimonianze, dai documenti che lo indicano come corruttore di giudici.Accusa i magistrati, insinua trame e complotti, indica burattinai, dileggia testimoni. Può farlo a mano libera e senza timore perché è l’imputato e perché non accetta il contraddittorio. Promette al tribunale (e all’opinione pubblica) che tornerà in quell’aula «a dirne di altre», finalmente «nel merito». Quando lo promette, sa che non terrà fede alla sua parola perché la maggioranza ha già pronto un salvacondotto che non trova ostile l’opposizione né in dissenso il capo dello stato: e tuttavia, non è l’assenza (o la fuga) dell’imputato eccellentissimo dopo il j’accuse, come sembra pensare la Boccassini, l’epilogo di questo processo.
Il compimento s’era già consumato il 17 di giugno. È un’osservazione di Marcello Dell’Utri. «La scena con cui martedì si sono chiuse le "dichiarazioni spontanee" del presidente del consiglio sono l’immagine plastica della fine di una stagione. Berlusconi, che nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano risponde all’ultimo affondo della Boccassini: "Venga a Palazzo Chigi se crede, ora mi scusi devo andare a governare", è il segno che sul decennio giustizialista cala il sipario», (La Stampa).
Se lasciamo in un canto la rituale classificazione («decennio giustizialista»), Dell’Utri non ha torto. Quella rapidissima scena occorre imprimersela a fuoco nella memoria perché non chiude soltanto un decennio (e il tentativo di ripristinare il controllo di legalità sull’azione dei poteri pubblici e privati: questa è stata Tangentopoli) ma ribalta alla radice il tratto costitutivo della nostra repubblica. Riavvia il nostro futuro verso un passato storico che fu di Rousseau e dei giacobini per i quali «deve avere comunque l’ultima parola chi, in sede politica, è legittimato a rappresentare la volontà generale». Ecco allora il significato di quell’immagine che chiude il processo di Milano. Berlusconi non accetta di farsi processare come un cittadino qualunque perché non si sente un cittadino qualunque. Egli è un potere, anzi il potere. Lo incarna perché rappresenta il popolo sovrano, la sua volontà e il suo interesse. Egli, come Rousseau, come Saint Just e Robespierre, pensa che il potere debba essere, sia uno. Crede che l’unicità di quel potere sia custodita dal potere politico, il solo potere legittimato mentre gli altri poteri, quando non sono funzioni amministrative, si definiscono al più eccezioni o supplenze. È l’onnipotenza della politica come versione moderna della sovranità del principe.
Quest’idea "istintiva" del signore di Arcore ("istintiva" perché tutta iscritta nel codice genetico del suo animal spirit) è apparsa all’inizio di questa avventura la pretesa stravagante (arrogante? ingenua?) di un parvenu della democrazia. Ora che quella convinzione è stata codificata in una legge che ne riconosce l’intangibilità; ora che alla luce del sole il sistema istituzionale gli ha dato il via libera fermando la mano del giudice, va preso molto sul serio Giuliano Ferrara quando annuncia la nascita della «terza repubblica» e scrive dell’immunità firmata da Ciampi come di «un atto rifondativo del primato della democrazia e della politica dopo dieci anni di veleni di interdizioni».
La notizia, come si dice, è la riproposizione del «primato della politica» come fondamento della democrazia italiana o della "democrazia berlusconiana", e non è una buona notizia. Come è evidente, non parliamo più di un processo o di un imputato che è anche capo del governo né di pubblici ministeri e di procure, di mani pulite e di baratti giudiziari. Quel che appare a chi governa addirittura «un atto rifondativo» è l’epifania di un nuovo sistema politico che ha al suo centro un convincimento vecchio di tre secoli - la concezione "assolutista" della politica - che, se ha ragione Jacob L. Talmon nelle «Origini della democrazia totalitaria», ha ispirato le ideologie e i regimi totalitari del Novecento: la sovranità popolare come potere primigenio e illimitato di fronte al quale ogni altro deve cedere, un potere che non tollera limiti e contrappesi. E’ un’idea che annichilisce quella che Giuliano Amato ricorda essere «la concezione lockiana della divisione dei poteri, quella all’interno della quale i poteri sono davvero plurali, l’uno non dipende dagli altri e c’è una legge superiore (la Costituzione)». In questa architettura liberale, al contrario di quanto annuncia Giuliano Ferrara, i poteri sono distinti ed equiordinati, non esiste una primazia dell’uno rispetto agli altri perché sono collocati in ambiti diversi.
Ci saranno i tempi, i modi e le intelligenze per riflettere dalle colonne di questo giornale sul ripiegamento giacobino della nostra democrazia, quel che qui si vuole osservare è che quell’idea di «primato della politica» non nasce con Berlusconi, ma è nel cuore stesso della cultura politica del nostro Paese e l’attraversa a destra, come a sinistra. Che cosa fu la Bicamerale, presieduta da Massimo D’Alema, se non il tentativo esplicito e risoluto di restituire alla politica (a chi governa) quel che sembrava fosse andato perduto nel crollo della "prima repubblica"? E non fu quello il tentativo di trovare «la via per condurre i magistrati all’allineamento alla law making majority» (Stefano Rodotà)? Non è negli anni del centro-sinistra (1996/2001), e sempre in ossequio a un ambiguo «primato della politica», che non venne affrontata la crisi delle garanzie che affligge il nostro sistema politico innovato dal maggioritario? Quell’«atto rifondativo», che è la morte del processo di Milano e la legge di immunità/impunità per Silvio Berlusconi, non è un fiore nato nel deserto. E’ un pensiero di fondo di cui la cultura politica italiana non riesce a liberarsi. E non riuscirà mai a disfarsene, soprattutto nell’opposizione di sinistra, «mostrificando» Berlusconi senza ripensare con critica severità alle proprie antiche e pericolose convinzioni, a quella tentazione giacobina che l’ha affascinata fino ad ieri. E che oggi, per mano della destra, diventa governo, metodo, cultura e addirittura legge.