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Benedetto Vecchi
L’enclosures dell’innovazione
17 Maggio 2014
Libri segnalati
«Tempi presenti. I successi di Apple, Google e Big Pharma non sarebbero stati possibili senza i finanziamenti di Washington elargiti a università e imprese. Un sentiero di lettura a partire dal saggio dell’economista Mariana Mazzucato per Laterza editore».

Il manifesto, 17 maggio 2014

La pro­vo­ca­zione arriva a freddo e prende di mira il sim­bolo dell’innovazione tec­no­lo­gica, la Apple. L’iPod, l’iPhone e l’iPad non sareb­bero mai stati pro­dotti senza i soldi che lo stato ame­ri­cano ha inve­stito nei pro­getti di Ricerca e Svi­luppo dagli anni Cin­quanta fino a ieri, quando l’applicazione basata sull’intelligenza arti­fi­ciale Siri è uscita dai labo­ra­tori ed è diven­tata una società e un pro­dotto che Steve Jobs ha com­prato per una cifra irri­so­ria rispetto agli inve­sti­menti sta­tali desti­nati al suo svi­luppo. Poche pagine dopo, un altro colosso della Rete, Goo­gle, è preso di mira. L’algoritmo Page Rank, svi­lup­pato alla Stan­ford Uni­ver­sity e diven­tato lo stru­mento per far diven­tare Goo­gle la potenza impren­di­to­riale nota a tutti, è stato finan­ziato dal Pen­ta­gono. Stesso discorso per le nano­tec­no­lo­gie, disci­plina di ricerca che da sem­pre ha usu­fruito di gene­rosi finan­zia­menti sta­tali. Se il campo di osser­va­zione cam­bia e dalla com­pu­ter science si passa alle bio­tec­no­lo­gie non ci sono molte varia­zioni nel mood analitico.

La map­pa­tura del Genoma umano non sarebbe infatti stata imma­gi­na­bile, negli Stati Uniti, senza l’intervento del Natio­nal Insti­tute of Health (Nih), che oltre a finan­ziare il pro­getto di ricerca di base con­ti­nua a inve­stire cen­ti­naia di miliardi di dol­lari per la ricerca appli­cata allo svi­luppo dei cosid­detti «far­maci orfani», desti­nati alla cura di malat­tie rare, che coin­vol­gono risi­bili mino­ranze della popo­la­zione, ma che sono ven­duti dalle mul­ti­na­zio­nali far­ma­ceu­ti­che a prezzi stra­to­sfe­rici. Allo stesso tempo è pro­prio il Nih che ormai «innova» far­maci con­so­li­dati, basan­dosi però sulle cono­scenze che ven­gono dalla geno­mica. Infine, un altro set­tore rite­nuto «stra­te­gico» nello svi­luppo eco­no­mico, le ener­gie rin­no­va­bili, non riu­scirà a decol­lare se lo Stato non con­ti­nuerà ad inve­stire nella ricerca, come testi­mo­niano i pro­getti pub­blici di svi­luppo in Cina e in Brasile.

Produttore di futuro

È que­sto il punto di par­tenza di un volume intel­li­gen­te­mente pro­vo­ca­to­rio e meri­to­ria­mente tra­dotto da Fabio Galim­berti per la casa edi­trice Laterza. A scri­verlo è Mariana Maz­zu­cato, eco­no­mi­sta ita­liana, natu­ra­liz­zata ame­ri­cana (i suoi geni­tori erano «cer­velli in fuga» negli anni Cin­quanta) e attual­mente docente, in Inghil­terra, presso l’University of Sus­sex. Lo stato inno­va­tore (pp. 378, euro 18), que­sto il titolo, pre­senta una tesi con­tro­cor­rente rispetto l’ideologia domi­nante neo­li­be­ri­sta. Per l’autrice, lo Stato è un sog­getto poli­tico fon­da­men­tale nel favo­rire lo svi­luppo eco­no­mico, per­ché è il luogo dove ven­gono defi­nite le norme che non solo rego­lano, ma pro­du­cono il mer­cato. Svolge cioè un ruolo per­for­ma­tivo dei com­por­ta­men­tii fun­zio­nali allo svi­luppo capitalistico.

È que­sto il con­te­sto dove, teo­ri­ca­mente, Karl Polany incon­tra Lord Key­nes, Joseph Shum­pe­ter e, ma l’autrice non ne fa mai men­zione, anche il Michel Fou­cault sto­rico dell’ordoliberismo austriaco e della bio­po­li­tica. Marina Maz­zu­cato non è però inte­res­sata alle genea­lo­gie teo­ri­che delle sue tesi. Il suo obiet­tivo è far emer­gere ciò che rimane in ombra nella discus­sione pub­blica segnata dall’egemonia libe­ri­sta, cioè che gran parte delle tec­no­lo­gie svi­lup­pate al pro­cesso eco­no­mico sono «effetti» degli inve­sti­menti dello Stato, in epoca moderna, nel campo della for­ma­zione e della ricerca scien­ti­fica. Inve­sti­menti che non sem­pre pre­fi­gu­rano imme­diate rica­dute pro­dut­tive e eco­no­mi­che. Quel che si deve infatti chie­dere allo Stato è una vision del pre­sente e del futuro senza asfic­citi e algidi vin­coli di bilancio.

Si inve­ste in ricerca e for­ma­zione per­ché, nei tempi lun­ghi, l’intero «eco­si­stema» se ne avvan­tag­gerà, gra­zie alla pre­senza di un ele­vato numero di ricer­ca­tori, di forza-lavoro qua­li­fi­cata e dalla tra­du­zione ope­ra­tiva (la ricerca appli­cata) di cono­scenze svi­lup­pate in anni e anni di lavoro in qual­che labo­ra­to­rio senza l’ansia e l’incubo di doversi spo­stare da un mece­nate all’altro nella spe­ranza di rac­co­gliere i fondi neces­sari per andare avanti nelle ricerche.

In nome dello statalismo

Nell’esporre la sua tesi Mariana Maz­zu­cato non nasconde dun­que la sua pro­pen­sione «sta­ta­li­sta» per quanto riguarda il neces­sa­rio inter­ven­ti­smo pub­blico nella for­ma­zione e nella ricerca scien­ti­fica. Non è quindi un caso che si applica con con­vin­cente con­vin­zione alla demo­li­zione di un altro mito che ha accom­pa­gnato lo svi­luppo della com­pu­ter science e della new eco­nomy. Imprese come Goo­gle, Face­book, Intel, Apple non sono diven­tate quel che sono – cioè imprese glo­bali fon­da­men­tali nello svi­luppo capi­ta­li­stico – gra­zie a intra­pren­denti e spe­ri­co­lati ven­ture capi­ta­list: il capi­tale di rischio, scrive l’autrice, più che favo­rire l’innovazione, la ral­len­tano, anzi la met­tono in peri­colo. Chi inve­ste in una start-up, infatti, non è inte­res­sato a finan­ziare l’innovazione tec­no­lo­gica, bensì a far cre­scere quel poco un impresa per poi col­lo­carla in borsa o ven­derla a un’altra società per ripa­gare l’investimento ini­ziale con l’aggiunta di una per­cen­tuale (gene­ral­mente molto alta) di profitti.

Lo Stato inno­va­tore è una miniera di infor­ma­zioni per quanto riguarda la rico­stru­zione delle for­tune di Apple, di Goo­gle e delle altre imprese sim­bolo della new eco­nomy. L’esisto è una con­tro­sto­ria dello svi­luppo tec­no­lo­gico e eco­no­mico degli ultimi cinquant’anni. Da que­sto punto di vista, Mariana Maz­zu­cato fa sue molte delle ana­lisi che hanno indi­vi­duato nel Pen­ta­gono la fonte eco­no­mica e finan­zia­ria dell’innovazione tec­no­lo­gica. Non solo i pro­getti per la costru­zione di una rete di comu­ni­ca­zione che potesse «soprav­vi­vere» a un attacco nucleare è stata finan­ziata dai mili­tari attra­verso il Darpa (Defense Advan­ced Research Pro­jects Agency ), ma è stato sem­pre il Pen­ta­gono, assieme al Mini­stero del com­mer­cio, che ha defi­nito le regole affin­ché i risul­tati delle ricer­che potes­sero essere dif­fuse sull’insieme delle atti­vità pro­dut­tive sta­tu­ni­tensi. Inter­net è nata così. Ma que­sta è sto­ria nota.

Il pre­gio del volume sta sem­mai nel riper­cor­rere tutti i pas­saggi che hanno por­tato ai suc­ces­sivi pro­grammi di ricerca degli anni Set­tanta e Ottanta (il Gps, le nano­ten­co­lo­gie, gli schermi lcd, il fin­ger work, cioè gli schermi tat­tili) senza i quali non ci sareb­bero stati l’iPod, l’iPhone e l’iPad.

Il sole che ride

Il famoso motto di Steve Jobs (stay hun­gry, stay foo­lish) usato per indi­care la con­di­zione neces­sa­ria per il suc­cesso impren­di­to­riale nasconde l’ipocrisia di chi è stato sfa­mato gra­zie al fatto che ha sfrut­tato, certo crea­ti­va­mente, la crea­ti­vità mani­fe­sta­tasi nei labo­ra­tori di ricerca e nelle uni­ver­sità lau­ta­mente finan­ziati dallo Stato attra­verso il Pen­ta­gono o il pro­gramma Atp dell’Istituto nazio­nale per le norme e la tec­no­lo­gia o dai pro­getti rela­tivi all’innovazione per quanto riguarda le pic­cole e medie imprese.

Eguale rile­vanza infor­ma­tiva è data allo svi­luppo delle ener­gie rin­no­va­bili. In que­sto caso, gli Stati Uniti hanno scelto di costi­tuire una agen­zia fede­rale appo­sita (l’Arpa-e) che dovrebbe svol­gere nelle ener­gie rin­no­va­bili lo stesso ruolo svolto dal Darpa nella com­pu­ter science e dal Nih nelle bio­tec­no­lo­gie. Tut­ta­via, la strada migliore è quella trat­teg­giata da Cina e Bra­sile. In Cina lo stato ha inve­stito e sta inve­stendo cen­ti­naia di miliardi di dol­lari per favo­rire la ricerca e lo svi­luppo di ener­gia rin­no­va­bile attra­verso l’eolico, il foto­vol­taico e il solare. In Bra­sile, invece, le ban­che per lo svi­luppo defi­ni­scono e finan­ziano pro­grammi che con­sen­tano al paese lati­noa­me­ri­cano non solo di essere, nel futuro, indi­pen­dente dal punto di vista ener­ge­tico, ma di ven­dere l’energia pulita pro­dotta. Cina e il Bra­sile sono diven­tati paesi all’avanguardia della green-economy, come la Ger­ma­nia, men­tre gli Stati Uniti hanno perso ter­reno prezioso.

Nel Nove­cento la Ricerca scien­ti­fica sta­tu­ni­tense è stata pre­va­len­te­mente finan­ziata dallo Stato, anche se l’autrice non nasconde che gran parte dei risul­tati con­se­guiti sono stati poi acqui­siti dalle imprese pri­vate e usati per inno­vare i pro­dotti e i pro­cessi lavo­ra­tivi. Inol­tre, negli Usa, lo Stato ha defi­nito norme, defi­nito i pro­cessi e le pro­ce­dure affin­ché le cono­scenze tec­ni­che scien­ti­fi­che potes­sero essere socia­liz­zate, favo­rendo così la cre­scita di nuovi mer­cati, facendo leva, ad esem­pio, sulle norme della pro­prietà intel­let­tuale. Da qui il pen­dolo sta­tu­ni­tense che oscilla dalla scelta a favore del public domain alla pos­si­bi­lità con­cessa alle uni­ver­sità di poter bre­vet­tare le sco­perte scien­ti­fi­che avve­nute all’interno di pro­getti di ricerca finan­ziati dallo Stato.

Governance di sistema

Mariana Maz­zu­cato non è una eco­no­mi­sta radi­cale anti­ca­pi­ta­li­sta. La ten­sione pole­mica pre­sente nel volume è sem­mai rivolta con­tro l’ideologia neo­li­be­ri­sta, che vede nel mer­cato il deus ex machina dell’innovazione. Il capi­tale di rischio non rischia, afferma l’autrice, vuole vin­cere in par­tite facili, dove certo c’è incer­tezza, ma il rischio è minimo. Un atteg­gia­mento paras­si­ta­rio che lo Stato ha per troppo tempo favo­rito e incen­ti­vato. Per l’autrice, l’intervento sta­tale va sal­va­guar­dato per­ché è il solo sog­getto poli­tico che può creare un «eco­si­stema sim­bio­tico» tra pub­blico e pri­vato. Lo stato tut­ta­via deve creare le con­di­zioni affin­ché si mani­fe­sti al meglio l’indispensabile seren­di­pity che favo­ri­sce l’innovazione e la ricerca scien­ti­fica. Per fare que­sto, vanno messe in campo misure che, ad esem­pio, recu­pe­rino parte dei finan­zia­menti sta­tali attra­verso un arti­co­lato sistema di gover­nance della cono­scenza. Può dun­que essere isti­tuita una gol­den share sui diritti di pro­prietà intel­let­tuale, in maniera tale che una parte delle royal­ties vadano a finire nelle casse dello Stato; oppure va attuata una riforma fiscale che sco­raggi l’elusione nel paga­mento delle tasse da parte di imprese che si sono avvan­tag­giate dalla ricer­che scien­ti­fi­che finan­ziate dallo Stato, come invece accade adesso per gran parte dei colossi della new-economy e delle bio­tec­no­lo­gie, che sta­bi­li­scono le loro sedi nei para­disi fiscali o in regioni tax free. Tutto ciò per con­ti­nuare, anzi aumen­tare gli inve­sti­menti in ricerca e sviluppo

Il capi­ta­li­smo può dun­que essere sal­vato con un rin­no­vato pro­ta­go­ni­smo dello Stato, senza il quale è desti­nato a implo­dere nelle sue con­trad­di­zioni. Per­ché una delle regole auree del neo­li­bie­ri­smo («socia­liz­za­zione dei costi e pri­va­tiz­za­zione dei pro­fitti») ha por­tato il capi­ta­li­smo sul ciclo del bur­rone. Solo con lo pre­senza di uno Stato che inve­ste molto e che crei le con­di­zioni per un eco­si­stema sim­bio­tico tra pub­blico e pri­vato, chiosa alla fine l’autrice, è pos­si­bile pen­sare non solo alla sua soprav­vi­venza, ma a un suo dura­turo svi­luppo. Con­clu­sioni mode­ste, si può dire, per un libro che invece ha una sua potenza ana­li­tica che fun­ziona come un salu­tare anti­doto a quel neo­li­be­ri­smo che con la sua crisi sta impo­ve­rendo la mag­gio­ranza della popolazione

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