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Marco Travaglio
Leggi su misura e giustizia privata
10 Aprile 2004
I tempi del cavalier B.
da “Micro Mega”, n. 3/99 Questo articolo di Travaglio è di tre anni fa. Andrebbe certamente aggiornatom Allinea fatti che vanno ricordati, a chi appartiene al “popolo sovrano”. Oggi, e soprattutto nell’ora delle elezioni.

Nell'era del liberismo selvaggio, non c'è nulla di scandaloso nel privatizzare la giustizia. Basta dirlo apertamente, applicando ad ogni provvedimento ad personam la relativa etichetta: legge Berlusconi, articolo Previti, comma Squillante...Un giorno di molti anni fa, quand'era ministro dell'Interno e rappresentava il governo in parlamento, Oscar Luigi Scalfaro dovette sciropparsi l'interminabile catilinaria di un deputato meridionale, noto principe del foro, che argomentava dottamente come e perché si dovesse riformare un articolo del codice di procedura penale. A un certo punto, esausto, Scalfaro l'interruppe: «Avvocato, abbia pazienza, mi dica quale processo vuole sistemare. Così magari ci mettiamo d'accordo e la facciamo finita...». «Risate da tutta l'aula», annotano i resoconti stenografici della seduta. Oggi, se un ministro ripetesse una frase del genere, scatterebbe immediata la richiesta di dimissioni. E oggi, al posto delle risate, esploderebbe l'insurrezione generale per leso garantismo. Perché da allora il parlamento della Repubblica italiana ha compiuto un notevole salto di qualità. Di avvocati che invocano riforme per salvare dai guai i loro clienti ce ne sono non uno, ma decine. E oggi, a differenza di quello là, le ottengono. Anche perché ora, in parlamento, non ci sono più soltanto gli avvocati. Ma direttamente gli imputati. Che si propongono e si approvano le leggi su misura. A seconda delle necessità processuali del momento. Prêt-à-porter. Dai decreti Conso e Biondi alla legge antimanette, dalle bozze Boato al nuovo 513, dalla Simeone-Saraceni al pacchetto sul giudice unico, dalla riforma dell'immunità a quella per le intercettazioni, fino alle nuove norme sui pentiti e sull'incompatibilità gip-gup, basta guardare in controluce e prenderanno forma le fattezze dell'imputato o degl'imputati eccellenti che si tenta di salvare. Per motivi di trasparenza e decenza tanto varrebbe ufficializzare il tutto: nell'era del liberismo selvaggio non c'è nulla di scandaloso nel privatizzare la giustizia personalizzando le riforme in materia. Basta dirlo apertamente applicando a ogni provvedimento ad personam la relativa etichetta, con tanto di nominativo e didascalia al posto degli aridi numeri. In luogo di legge numero 354, articolo 2, comma bis, paragrafo ter, sarebbe molto più igienico indicare legge Berlusconi, processo Toghe sporche, articolo Previti, comma Squillante, paragrafo Dell'Utri eccetera. Così tutti capiscono e si dissipano i sospetti di sotterfugio. Alla luce del sole, come si conviene a una democrazia avanzata.

Ne è passata di acqua sotto i ponti dai tempi in cui si gridava allo scandalo per le leggi «a gentile richiesta».

Nel 1973 il pretore di Genova Mario Almerighi scoprì che la legislazione fiscale in materia di petroli veniva scritta ed aggiornata direttamente dall'Unione petrolifera italiana che graziosamente prestava i suoi uomini al governo per la bisogna. In cambio imbottiva di miliardi i ministri e i loro partiti. Fu la prima Tangentopoli d'Italia, subito saggiamente archiviata dalla commissione parlamentare inquirente, con la collaborazione della procura di Roma che fagocitò in tempo reale il processo.

Anche le altre grandi imprese venivano amorevolmente sponsorizzate dallo Stato, come ha raccontato l'ex amministratore delegato di Fiat Auto, Vittorio Ghidella, al processo Romiti: «Un settore per arricchire la Fiat Auto era la contribuzione statale per le ricerche tecnologiche. Qui semplicemente si gonfiavano le spese e le ore di applicazione da parte di Fiat Auto e si lucravano somme che coprivano abbondantemente il costo della ricerca. Anzi, si traevano dei buoni guadagni. Se il ministero fosse venuto a controllare, se ne sarebbe accorto. Ma oggi è impossibile. La legge era stata studiata apposta per dare dei soldi a ufo...».

Il 16 ottobre 1984 tre pretori, legge alla mano, vietano al cavalier Berlusconi di trasmettere i programmi dei suoi tre network in contemporanea su tutto il territorio nazionale. Lui replica con la serrata delle tre reti, facendo credere all'Italia che i giudici abbiano «oscurato la tv libera». Poi va a piangere dal suo amico e compare di battesimo Bettino Craxi. Che, tra l'altro, è presidente del Consiglio. Da Londra, dov'è in visita ufficiale, Craxi convoca un consiglio dei ministri ad hoc, primo punto all'ordine del giorno un decreto «che ripristini il dominio del buonsenso», cioè che oscuri i magistrati per riaccendere le tivù illegali del suo amico. Financo il ministro delle Poste Antonio Gava ha qualche dubbio («Sarebbe un errore agire in termini di conflitto con l'autorità giudiziaria, che interpreta norme esistenti»), ma Craxi minaccia la Dc di andare alle elezioni anticipate. E la spunta. Il 21 ottobre le reti berlusconiane tornano a trasmettere in tutta Italia. Ma il 28 novembre, a sorpresa, la Camera vota a maggioranza per l'incostituzionalità del «decreto Berlusconi», che decade ipso facto. I pretori reiterano il divieto di trasmissione oltre l'ambito locale. «Non si era mai visto», dice il pretore di Torino Giuseppe Casalbore, «che a una diffida fatta a un imputato rispondesse la presidenza del Consiglio con un durissimo comunicato». Il 6 dicembre, il governo Craxi vara il secondo «decreto Berlusconi». Poi, per farlo convertire in legge in tempo utile, fa contingentare i tempi degl'interventi in parlamento. Infine pone la questione di fiducia per annientare tutti gli emendamenti.

Per la prima volta nella storia repubblicana, due decreti prendono il nome del beneficiario. E il caso desta un enorme scalpore, per mesi e mesi. Ripetendosi pari pari nel luglio del '90, quando il governo Andreotti pone la fiducia sugli articoli più sfacciatamente filoberlusconiani (quelli sulla pubblicità in tv) della legge Mammì. Veltroni, in aula parla di «fiducia Berlusconi». Cinque ministri della sinistra Dc si dimettono e Andreotti li rimpiazza in una notte. È il prologo, con quattro anni d'anticipo, del governo Berlusconi. Ma anche quella volta lo scandalo nel paese è enorme.

Nel marzo 1993, a un anno e poco più dallo scoppio di Tangentopoli, tiene banco un altro decreto: prende nome dal ministro della Giustizia Giovanni Conso. Ma dovrebbe chiamarsi «Craxi», visto che a volerlo fortissimamente è il presidente del Consiglio Giuliano Amato, da sempre spirito guida dell'inquisitissimo boss socialista, che l'ha imposto al suo ministro «tecnico». Il decreto depenalizza il finanziamento illecito ai partiti. Se passasse, sarebbe il colpo di spugna su gran parte delle ruberie passate, presenti e future della classe politica e imprenditoriale. Ma per fortuna il presidente Scalfaro non lo firma.

Anno nuovo, governo nuovo, decreto nuovo. Questa volta per imporre leggi pro Berlusconi non c'è più bisogno di Craxi (tra l'altro indisponibile per sopravvenuta latitanza). Ci pensa lo stesso Berlusconi, appena promosso presidente del Consiglio: il 14 luglio '94, ecco pronto il decreto Biondi che proibisce l'arresto per i reati di Tangentopoli. Una liberazione per Paolo Berlusconi, che stava per essere arrestato con altri manager della Fininvest per le mazzette alla guardia di finanza. Ma, visto che la legge è uguale per tutti, escono anche centinaia di detenuti. Stavolta Scalfaro firma, ma la rivolta del paese prima, di Fini e di Bossi poi, costringe il governo alla retromarcia. E, appena il «Salvaladri» decade, Berlusconi junior finisce a San Vittore. «Il decreto non l'ho fatto certo per me o per i miei, ma per un desiderio di giustizia» dice il Cavaliere. Gianfranco Miglio lo smentirà pochi mesi dopo: «Nei giorni del decreto Biondi, Berlusconi mi disse: "Dovevamo farlo passare perché i magistrati stavano perseguitando me e i miei amici"».

A fine anno viene inquisito anche Silvio, mentre la procura di Torino mette gli occhi su Marcello Dell'Utri per le fatture false di Publitalia. Il Polo riesuma il decreto Biondi e, con qualche correttivo per renderlo un po' meno indecente, lo ricicla sotto le pompose spoglie di «Riforma della custodia cautelare e dei diritti di difesa». Il centro-sinistra, per quieto vivere (bisogna tenere in piedi l'anemico governo Dini), inaugura la lunga stagione dell'inciucio. E appoggia la presunta riforma.

La sostanza è più o meno la stessa: mille ostacoli agli arresti, non solo per Tangentopoli, ma anche - in nome della par condicio - per gli altri reati. E, per soprammercato, una serie di legnate ai pubblici ministeri, cosìimparano. Un imperdonabile disguido rallenta l'iter della legge che passerà solo a fine agosto '95. Cosìa maggio i giudici di Torino fanno in tempo ad arrestare Dell'Utri, che sta inquinando allegramente le prove: con la riforma in vigore, non avrebbero più potuto fermarlo. Ad abundantiam, c'è anche qualche regalo alla mafia, compresa l'abolizione dell'arresto per i falsi testimoni, voluto a suo tempo da Falcone e Borsellino.

Quella stessa estate, in gran segreto, Stefania Ariosto comincia a raccontare al pool le avventure di Previti, Berlusconi, Squillante e di tutto il porto delle nebbie. Nel marzo '96 finisce in carcere Squillante, Previti e Berlusconi sono indagati anche per le mazzette ai giudici. $è lo scandalo più grave dall'inizio di Tangentopoli. Sperare nella prescrizione è troppo rischioso: non resta che l'amnistia. Ma ci vuole una scusa che tenga. Eccola: prima si fa la Grande Riforma, dopodiché «si volterà pagina». Ci prova Antonio Maccanico, con il governo di larghe intese e larghissima amnistia, ai primi del '96: fallisce per merito di Fini. Peccato, c'era pure Lorenzo Necci superministro delle infrastrutture. Si va alle elezioni. «Stavolta, se vinciamo, non facciamo prigionieri», promette Previti. Invece perde, e si fa la Bicamerale. «Non dovrà occuparsi di giustizia», dice D'Alema a dicembre. Ma a gennaio '97 Berlusconi protesta e lo vota presidente della commissione. E D'Alema cambia idea: «La Bicamerale dovrà occuparsi di giustizia». Il retroscena lo racconterà, anni dopo, Francesco Cossiga: «Berlusconi mi disse che gli fecero accettare la Bicamerale con D'Alema presidente, promettendogli che a quell'accordo ne sarebbe seguito un altro più impegnativo per un governo di unità nazionale, in cui Forza Italia avrebbe partecipato insieme ai Ds e al centro-sinistra». Magari con un ministro della Giustizia come il presidente del comitato garanzie della Bicamerale, che abusivamente si occupa di giustizia: l'apposito Marco Boato, ex lottatore continuo, ora graditissimo al Cavaliere. Le sue continue bozze, sfornate a ritmi vertiginosi, sembrano scritte a quattro mani da Licio Gelli e Cesare Previti. Prevedono ingerenze politiche a gogo nella magistratura, lo smembramento del Csm, la manomissione dell'azione penale obbligatoria e tante altre piacevolezze. Molto apprezzato da caterve di imputati l'art. 129, che recita: «Non è punibile un fatto previsto come reato nel caso che esso non abbia determinato una concreta offensività». È quel che dice sempre il cavalier Berlusconi: «Nel sentire della gente, non è considerato reato ciò che non danneggia gli altri». Intanto, a scanso di equivoci, si abbassa pure dai due terzi al 50 per cento più 1 il quorum parlamentare per approvare le amnistie.

Il 9 aprile '97 il gup di Torino Francesco Saluzzo condanna il presidente della $$fiat Cesare Romiti a 1 anno e 6 mesi per falso in bilancio, finanziamento illecito ai partiti e frode fiscale. L'indomani, con notevole tempismo, dal Polo, dal Ppi e da mezzo Pds si leva un solo grido: «Depenalizziamo il falso in bilancio e il finanziamento illecito». Come «reati minori». Molto in auge la teoria della «modica quantità», appena sostenuta con scarso successo dagli avvocati romitiani Chiusano e Coppi, e ripetuta pari pari dai collegi difensivi del clan Fininvest, anch'esso imputato per falso in bilancio da capogiro: l'ex magistrato e ora deputato di Rinnovamento italiano, Marianna Li Calzi, propone che il falso in bilancio rimanga reato soltanto quando viene «falsata in modo rilevante la rappresentazione delle condizioni economiche della società». Se un'azienda fattura migliaia di miliardi, potrà occultarne agli azionisti diverse centinaia. Chi più ha, più rubi.

Intanto, alcuni processi di Tangentopoli stanno per giungere alla sentenza definitiva. Molti imputati eccellenti rischiano la galera.

Non sia mai. Ecco dunque, puntualissima, una riforma per impedire il tragico evento. $è l'agosto del '97 quando passa, a gran maggioranza, il nuovo art. 513 del codice di procedura penale. Tutte le accuse non ripetute in aula diventano carta straccia, i processi in corso devono ricominciare da capo, le sentenze già emesse non valgono piu`. La Cassazione annulla le condanne di Craxi e Martelli per l'Enimont e per il conto Protezione: quella di Craxi per la Metropolitana milanese, quella di Paolo Berlusconi e vari politici per le mazzette sulle discariche. E cosìvia, a tutte le latitudini. Restano da sistemare alcune giunte regionali inquisite per varie malversazioni: sempre nell'estate del '97, viene pure abolito l'abuso d'ufficio non patrimoniale (con dimezzamento delle pene e dei termini di prescrizione per la fattispecie patrimoniale). Risultato: assolti in blocco, per legge, gli assessori del Piemonte e della Lombardia, imputati per la lottizzazione delle Usl, e quelli dell'Abruzzo, a suo tempo arrestati per una colossale spartizione di fondi comunitari. Idem per i vigili torinesi che restituivano ad amici, parenti e «vip» raccomandati le patenti sequestrate per varie infrazioni. La fanno franca pure gli inquisiti di Affittopoli, mentre quelli del caso Sisde beneficiano della prescrizione anticipata per legge.

Il '98 si apre alla Camera con il salvataggio di Previti dall'arresto. E prosegue con l'udienza preliminare dell'inchiesta Toghe sporche (imputati Berlusconi, Previti, Squillante e Pacifico). Il Cavaliere, intanto, colleziona le sue prime tre condanne: 16 mesi (condonati) per il falso in bilancio di Medusa Cinema, 35 mesi per corruzione della guardia di finanza, 28 mesi per i finanziamenti illeciti di All Iberian a Bettino Craxi. Ce n'è abbastanza per far crollare in parlamento gli ultimi freni inibitori, per cancellare ogni residua traccia di pudore. Produzione di leggi ad personam in quantità industriali. Il Polo comincia col chiedere l'abolizione del carcere per chiunque abbia compiuto 60 anni (guarda caso: nel '98 Berlusconi compie 62 anni, Previti e Craxi 64, Squillante 71). L'idea non passa, ma poi la legge Simeone salva dal carcere almeno gli ultrasessantenni con «inabilità anche parziale». La prostata di Berlusconi e il diabete di Craxi dovrebbero bastare.

Altra «emergenza giustizia»: la Cassazione sta per esaminare le condanne per la maxitangente Enimont. E chi deve scontare più di 2 anni rischia di finire in galera: Forlani, Sama, Bisignani, Garofano, Giallombardo. Urge provvedere. Il 13 giugno la Suprema corte conferma le condanne, e - guarda caso - il 14 giugno entra in vigore la legge Simeone-Saraceni, che risparmia il carcere a chiunque debba scontare meno di 3 anni. Tutti felicemente fuori.

La Corte d'Appello di Milano respinge l'istanza di revisione del processo per l'assassinio del commissario Calabresi: nessuna speranza per Sofri, Bompressi e Pietrostefani, condannati in via definitiva a 22 anni di carcere? Nemmeno per sogno. Il parlamento rimedia subito con l'ennesima riforma su misura, la «legge Sofri». A tempo di record: il 17 settembre '98 l'inizio del dibattito al Senato, l'11 novembre l'approvazione definitiva alla Camera. Visto che Milano è contraria alla revisione, se ne occuperà Brescia, e se anche Brescia dirà no, giudicherà Venezia. All'infinito.

Anche Sgarbi rischia grosso: dopo la condanna a 6 mesi per truffa ai danni dello Stato (definitiva), e le continue pene subite in vari gradi di giudizio per gli insulti lanciati contro magistrati e privati cittadini, i tribunali cominciano a negargli la sospensione condizionale della pena. Ecco dunque l'apposita proposta di riforma costituzionale avanzata dal Polo (primo firmatario, Vittorio Sgarbi, seguito a ruota da Filippo Mancuso e altri): senatori e deputati non saranno più insindacabili soltanto per «i voti dati e le opinioni espresse» nell'esercizio delle funzioni parlamentari, come finora ha previsto la Costituzione, ma potranno anche insultare chi gli pare, «indipendentemente dal senso letterale della parola adoperata e dai contenuti espressi (...) anche fuori dal Parlamento». Ad esempio su Canale 5, sul fare del mezzogiorno. Il centro-sinistra si oppone, anche se poi alla Camera e in Senato collabora col Polo nel dichiarare insindacabili quasi tutti gli eletti impedendo ai tribunali di processarli per calunnie, ingiurie e diffamazioni varie. Inaugura il 1999 il caso Dell'Utri: richiesta di arresto da Palermo per ogni sorta di inquinamento probatorio, a base di falsi pentiti, calunnie aggravate ed estorsioni: il tutto documentato da una montagna di intercettazioni sui telefoni di alcuni pentiti avvicinati dall'onorevole berlusconiano. La Camera, ça va sans dire, dice no all'arresto. E contemporaneamente mette all'ordine del giorno la riforma delle intercettazioni. Da un lato Polo e Ulivo escludono, dai reati per cui è consentito intercettare: la calunnia (guarda caso, quella contestata a Dell'Utri), l'associazione per delinquere semplice e, già che ci sono, tutti i delitti di Tangentopoli. Poi, quando lo scoprono i giornali, ci ripensano per la vergogna. Ma ecco un'altra idea geniale: oltre al divieto di intercettare l'utenza di un parlamentare, prevedere l'inutilizzabilità di tutte le conversazioni intercettate sull'utenza di privati cittadini (regolarmente intercettati) che parlano con parlamentari. La Camera approva. Il Polo propone addirittura di distruggere tutte le bobine in cui qualcuno nomina un parlamentare (chissà mai a quale pensano): ma questa è troppo grossa financo per il centro-sinistra, che però è d'accordo di incenerirle «quando sono irrilevanti», mentre per quelle «rilevanti» i magistrati dovranno chiedere il permesso al parlamento, prima di utilizzarle. Resta da spiegare come si possa considerare irrilevante che due delinquenti, parlando fra loro, facciano il nome di un parlamentare.

Ma Dell'Utri non ha problemi soltanto a Palermo. La condanna a 3 anni subita a Torino per false fatture, confermata in Appello con un rincaro di altri 2 mesi, rischia di diventare definitiva in Cassazione: nemmeno la legge Simeone risparmierebbe al deputato-imputato un paio di mesi al fresco. Ecco dunque un'altra legge ad hoc: quella che consente di patteggiare le pene anche in Cassazione. Approvata due giorni prima che la Corte decida su Dell'Utri, la legge permette ai suoi difensori di presentare istanza di patteggiamento. Con relativo sconto di pena e scampato pericolo di arresto. Nella primavera del '99, ormai una ciliegia tira l'altra. E quasi tutte finiscono in pasto a Previti, sempre più allarmato per l'avanzare dell'udienza Toghe sporche. Il pacchetto Carotti, con le norme di accompagnamento della riforma del giudice unico, viene infarcito di codicilli su misura. Un emendamento dei forzisti Gaetano Pecorella e Donato Bruno prevede di «diminuire sempre la pena quando l'imputato è incensurato o ha superato i 65 anni di età»: un'attenuante speciale che, aggiunta alle altre, accorcerebbe i termini di prescrizione del processo a Berlusconi, Previti & C. e, in caso di condanna, li salverebbe da pene superiori ai 3 anni (cioè dal carcere). Viene respinta a fatica, visto che mezzo Ppi non vede l'ora di approvarla. Approvato invece dalla Camera, nell'indifferenza generale, il nuovo art. 431 del codice di procedura, al posto di quello preparato da Giovanni Falcone nel '92 e approvato soltanto dopo la strage di Capaci: verranno espulsi dal fascicolo del dibattimento «i verbali degli atti assunti nell'incidente probatorio e quelli assunti all'estero in sede di rogatoria». In pratica, tutti gli accertamenti bancari e le testimonianze raccolte all'estero per rogatoria diventano carta straccia. E qual è il processo in corso con il maggior numero di atti acquisiti per rogatoria? Ma il processo Toghe sporche, naturalmente. Un processo che, se tutto va bene, potrebbe non iniziare neppure. Previti e Berlusconi sono così preoccupati per la lentezza del sistema giudiziario che fanno di tutto perché quell'udienza preliminare, iniziata il 29 giugno '98, non finisca mai. Le hanno provate tutte: dai continui rinvii per impegni parlamentari di dubbia urgenza (i due sono dei recordman dell'assenteismo) all'incredibile richiesta di termini fino al 2005 per «studiare le carte»; dalla ridicola ricusazione del pool (come se gli imputati potessero scegliersi il pm che preferiscono) a quella del gip Alessandro Rossato, lo stesso che dispose l'arresto di Previti e che ora conduce l'udienza preliminare. Richieste irricevibili per la giustizia, ma non per il parlamento, che le ha addirittura trasformate in legge, con la fattiva collaborazione della maggioranza. Il 2 giugno, infatti, il senatore Guido Calvi (Ds) propone e fa approvare un emendamento al decreto Diliberto sul giudice unico, per rendere immediatamente esecutiva l'incompatibilità fra gip e gup che il governo voleva rinviare al 2 gennaio 2000. Traduzione: Rossato, avendo già preso decisioni in fase d'indagine preliminare, dovrà farsi da parte ed esser sostituito da un collega che non ha mai letto un rigo di quel processo. Risultato: tutto si bloccherà per almeno un anno. Il resto lo farà la prescrizione, che per le accuse più gravi - le mazzette più recenti, quelle fino al '92 per la sentenza Imi-Sir - potrebbe scattare nel 2001. Una vera fortuna visto che difficilmente la corruzione in atti giudiziari (fino a 8 anni di carcere) potrebbe rientrare nell'amnistia giubilare prossima ventura.

Restano ancora da sistemare alcuni dettagli, come i pentiti di mafia: ma per quelli c'è pronta la riforma della legislazione premiale (che diventerà punitiva) e quella dell'art. 192, degno completamento del 513 (oggi in versione Super, che dopo la bocciatura della Corte costituzionale entrerà direttamente in Costituzione): non farà più differenza se a parlare saranno uno o dieci o venti collaboranti. Divieto totale di riscontri incrociati. L'avevano previsto alcuni camorristi intercettati a Napoli un paio d'anni fa mentre brindavano al 513: «Hanno fatto una bellissima riforma e ora ne faranno un'altra». Ma Totò Riina, che queste cose aveva chiesto ai politici amici nel famoso “papello” del '94, può già dirsi soddisfatto: gli han pure chiuso Pianosa e l'Asinara, rammollito il carcere duro e quasi abolito l'ergastolo. A ciascuno il suo, insomma. È l'ultima frontiera della giustizia, nell'ambito della Grande Riforma del welfare: la giustizia privatizzata, personalizzata. Come ha scritto Michele Serra, “che un miliardario con aereo privato, mass media privati, partito privato e addirittura cimitero privato pretenda anche una giustizia privata è perfettamente nella logica”. Già, ma perché solo lui?

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