C’è una domanda cui bisogna rispondere. Sembra una domanda facile, e il guaio è là. Che il numero dei morti palestinesi per l’offensiva israeliana a Gaza sia così alto, e cresca ancora, è un segno di vittoria di Israele, o di sconfitta, o di che cosa? E una sottodomanda, in apparenza ancora più facile: che i morti palestinesi siano tantissimi, e quelli israeliani pochissimi, è una vittoria o una sconfitta di Israele? Leggo che il generale Yoav Galant, comandante della regione sud, ha dato la sua risposta secca ad ambedue le domande, illustrando il proposito dell’offensiva: "Ributtare indietro di decenni la striscia di Gaza in termini di capacità militare, facendo il massimo di vittime presso il nemico e il minimo fra le forze armate israeliane". Il massimo dei loro, il minimo dei nostri. Noi, i generali, le donne e i bambini, e loro, i bambini, le donne e gli sceicchi. Ah, come sono difficili le domande facili!
Si tratta del capriccio con cui il libero mercato fissa il pregio delle diverse vite umane. Avete visto a che ritmo vertiginoso è cresciuto da noi l’impiego del termine: Bioetica. L’impiego, e gli impiegati. La bioetica ha a che fare coi progressi spettacolosi della medicina, della biologia, dell’ingegneria genetica, gli inseguimenti trafelati della filosofia e del diritto, e le supervisioni delle chiese. Una sua esemplare dichiarazione è che "la vita umana è sacra e va difesa dal concepimento alla morte". La cito non per ridiscuterla qui, ma per osservare che la nostra fresca sensibilità bioetica si concede il lusso di concentrarsi sui due poli, il concepimento, o almeno la nascita, e la morte, il capo e la coda, riservando un’attenzione minore a quello che sta fra l’inizio e la fine, cioè alla vita nella sua durata, che poi è la vita.
Così, benché le innovazioni che la scienza introduce e la filosofia insegue col fiato corto e la religione rilega in pergamena, valgano per tutte le disgrazie che investono l’intermezzo fra nascita e morte - la fame, le malattie, le guerre - ce ne commuoviamo meno. La nostra guerra (di religione) sulla trovata secondo cui la vita è così sacra da essere "indisponibile" alla stessa singola persona vivente sta ai luoghi in cui la vita viene mietuta all´ingrosso, come i nostri botti di Capodanno, adorati da tutti tranne i cani i bambini e chi ha conosciuto una sola notte di guerra, stanno ai bombardamenti su Gaza. Così vicino, oltretutto - due sponde dirimpettaie- che si potevano sentire reciprocamente, e raddoppiare l’allegria degli uni e lo spavento degli altri.
Io resto affezionato a Israele come a quella che potrebbe essere, "per un pelo", la miglior madrepatria di un cittadino della terra di oggi, così come lo sarebbe stata l’Atene del V secolo - per un pelo, la questione degli schiavi. Siccome voglio così bene a Israele, e ne taccio da un bel po’ di tempo, dirò come si è andato incupendo il mio stato d’animo settimana per settimana. Ogni settimana, la rivista "Internazionale" pubblica una rubrichetta di poche righe, intitolata "Israeliani e palestinesi", che aggiorna il numero dei morti dell’una e dell’altra parte a partire dalla seconda Intifada, cioè dal settembre del 2000.
Piano piano, ma inesorabilmente, la sproporzione è cresciuta, e se i morti israeliani erano sempre stati meno numerosi, a un certo punto arrivarono a essere solo la metà di quelli palestinesi, e già questo provocava un turbamento complicato; poi il divario ha continuato ad accrescersi, finché all’inizio di dicembre, ben prima dell’attacco a Gaza che fa impennare le cifre, il totale dei morti palestinesi superava di più di cinque volte quello dei morti israeliani (5.301 a 1.082). Complicato, il turbamento: perché si è involontariamente indotti, come di fronte a ogni sproporzione eccessiva, a desiderare che la forbice si riduca, ciò che può avvenire riducendo le morti degli uni o moltiplicando quelle degli altri...
Descrivo qualcosa che assomiglia più a un riflesso condizionato che a un pensiero. Del resto il mondo, benché secondo molti e benevoli suoi passeggeri continui a progredire, è platealmente pieno di smisuratezze, a cominciare dalla differenza fra ricchi e poveri, e fra vite medie che si allungano spettacolosamente e vite medie dimezzate.
La popolazione ottuagenaria e passa dell´Europa potrebbe protestare di non avere colpa nella popolazione sì e no quarantenne dello Zimbabwe: ma non sarebbe del tutto vero. E non è vero, certo non del tutto, che gli israeliani non c’entrino con la mortalità di guerra cinque volte superiore dei loro vicini. La sproporzione si riproduce e si moltiplica in una quantità di circostanze. Negli scambi di prigionieri, che Israele rilascia a centinaia in cambio di uno o due propri, o anche di due salme, com’è appena successo con gli hezbollah libanesi. Israele ha pressappoco undicimila prigionieri palestinesi, la Palestina, cioè Hamas, uno solo, il povero Gilad Shalit.
Negli ultimi otto anni, se non sbaglio, dalla striscia di Gaza sono stati lanciati sulle città del sud di Israele migliaia di razzi sempre più micidiali (l’ultimo ha colpito una scuola per fortuna evacuata di Beersheva, aveva dunque una gittata di 40 km) facendo in tutto 18 morti. L’offensiva aerea su Gaza ne ha fatti oltre 400 in pochi giorni, contro 4 dalla parte israeliana: in ragione di più di 100 a uno. E’ vero che il conto dei morti non dice tutto. Ad Ashkelon, Sderot, Ashdod, Gan Yavne, è un decimo della popolazione di Israele a vivere sotto la minaccia quotidiana dei missili. Tuttavia quel complicato turbamento resta, e anzi si fa sempre più pungente. Dunque, la domanda: più morti palestinesi facciamo, più vinciamo? E la sottodomanda: più forte è la differenza fra "il massimo dei morti loro" e "il minimo dei morti nostri", più vinciamo?
C’è un argomento forte in favore di Israele. Israele fa tesoro della vita dei suoi figli. Guarda con orrore il fanatismo islamista che addestra i figli al suicidio assassino, e si inebria del loro "martirio". E’ appena successo un episodio esemplare e agghiacciante. Nizar Rayan, sceicco invasato, già mandante di un figlio kamikaze e reclutatore per amore o per forza di scudi umani, nemico feroce di Israele come di Fatah, bersaglio prelibato della caccia israeliana, si trovava in un edificio al quale è arrivata la telefonata di avvertimento dello Shin Bet: sarebbe stato bombardato di lì a poco. Rayan "non è scappato", dicono i suoi. Ha voluto morire da martire, e si è tenuto stretti qualcuno dei dodici figli, qualcuna delle quattro mogli: proprietà sue, vite consacrate non alla vita, ma alla morte. Ma gli invasati, o i farabutti, non rendono un popolo correo del loro fanatismo: nemmeno quella metà del popolo che li ha votati in un’elezione.
Tanto meno i bambini, e le sorelle e i fratelli ammazzati insieme dalle incursioni, com’è inevitabile in uno zoo così fitto di umani e così prolifico. Ci sono madri che non trionfano per la morte da shahid delle loro creature, e invece rinfacciano al cielo e alla terra la doppia misura. La madre delle cinque sorelline di Jabaliya ammazzate: "Se venisse ucciso anche un solo bambino israeliano, il mondo intero si indignerebbe... Ma il sangue dei nostri bambini non conta niente per il mondo". Non importa nemmeno da che parte sia venuta la strage, come per le due sorelline di Beit Lahya, ammazzate dal razzo kassam di Hamas, "per errore". Dice quel padre: "Non s’è scusato nessuno. Siamo poveri".
La bioetica, dunque. Se davvero un’azione militare mirasse al "massimo di vittime nel nemico", l’ideale sarebbe lo sterminio. Se la confermasse, il generale che ha pronunciato una frase del genere andrebbe messo ai ferri. Ma resterebbero sempre gli altri. Quelli - quasi tutti, fra le autorità, e a gara di sondaggi e di voti- che dicono amaramente: "E’ la guerra. La guerra esige le vittime civili. Noi facciamo di tutto per ridurne il numero". Non è un buon argomento, non più. Non è "la guerra". E’ qualcosa di più, per il soffocante odio di vicinato, e di meno, per la sproporzione delle forze. Di quella sproporzione (provvisoria, peraltro, con l’Iran che incombe) Israele non dovrebbe avvalersi per proclamare preziose le vite dei bambini palestinesi come quelle dei proprii, e agire di conseguenza? Utopia? Certo, bravi, continuiamo così. Se l’utopia troverà mai un luogo, sarà in quel pezzetto di terra in cui il Dio di tutti gli eserciti ha deciso da sempre (dalla strage degli innocenti, che nessun angelo avvertì, sospira Massimo Toschi) di togliere il senno alle sue creature. Continuiamo così. Il sangue dei martiri è il seme della cristianità ? diceva Tertulliano. Il sangue dei martiri, anche di quelli equivoci e abusivi, è seme di qualunque pianta. Si vuole cancellare Hamas? Sarebbe bello.
Ma i bambini e i ragazzi di Gaza che sopravviveranno ai bombardamenti aerei (l’esperienza più paurosa) non avranno un futuro ragionevole e gandhiano. L’ammasso di profughi e figli e nipoti di profughi che è Gaza ha un’età media, ho letto, di 17 anni. Quanto al resto del mondo, dei razzi su Ashkelon ha sentito sì e no parlare. Ma le immagini di questi giorni le ha viste. Israele sembra aver smesso da tempo di badare all’opinione del mondo. E’ vero che il mondo, quando gli ebrei erano al macello, applaudì o guardò dall’altra parte. Appunto. Tzipi Livni si è industriata di spiegare al mondo le sue buone ragioni, poi è bastata una frase ?"A Gaza non c’è una crisi umanitaria"- per cancellarne ogni effetto.
Mi dispiace delle parole rassegnate di Yehoshua: "Non avevamo altra scelta". Non è possibile che Israele, cioè gli israeliani, pensino e sentano di "non avere altra scelta" ? dunque di non avere scelta. Ce l’hanno, sanno anche qual è: tutti, o quasi. Sanno qual è, e vanno da un’altra parte. In cielo e, tanto peggio, in terra. Nel giorno della strage nella moschea - ci sarà la battaglia di propagande sul fatto che fosse un deposito di armi, o un deposito di umani, o le due cose insieme, ma non cambia – l’ingresso dei soldati israeliani fa temere che tutta la macabra contabilità della morte stia per impazzire. Soldati bravi, ben equipaggiati e risoluti ad andare avanti si troveranno di fronte, oltre a nemici votati alla morte, una gente disperata ed esasperata, in cui i bambini sono la maggioranza. I carri armati dovranno decidere che cosa fare quando si troveranno davanti una folla di bambini. Poi, comunque vada, dovranno chiedersi ancora una volta come tornare indietro.