Recensione a Guido Viale,
Virtù che cambiano il mondo (Feltrinelli), che "nasce nell' humus dei conflitti sociali e ad essi ritorna, come al proprio committente, per orientarli con una superiore strumentazione teorica". In corso di pubblicazione su il manifesto (f.b.)
L'ultimo libro di Guido Viale, Virtù che cambiano il mondo. Partecipazione e conflitto per i beni comuni, Feltrinelli Milano, pp.154, euro 12 viene innanzi tutto a rendere più netta la singolarità del profilo di questo intellettuale nel panorama culturale italiano. Viale non ha una collocazione accademica e dunque non possiede un definito profilo professionale e disciplinare. In senso stretto, non è un economista, né un politologo, né un filosofo. Non è neppure un ideologo – nel senso che in Francia si dà a questo termine – una figura che anche da noi ha talora un retroterra universitario e più spesso si ritrova fra gli intellettuali militanti ai margini estremi dei partiti politici. Lo potrei definire più precisamente un ricercatore, il quale sceglie ambiti rilevanti dell'universo sociale del nostro tempo per esplorarne i meccanismi, tentando di estrarre e di elaborare, dal nodo dei problemi che li caratterizza, soluzioni possibili a favore dell'interesse generale. E in tale operazione, come un onesto artigiano, va a cercarsi gli utensili che gli servono, vale a dire la molteplicità degli specialismi offerti dal sapere scientifico che quei problemi lumeggiano in ordine sparso.
Per questo nei suoi scritti ritroviamo, fuse in una argomentazione unitaria, le più varie discipline: dall'economia alla filosofia, dalla storia alla sociologia, dalla politologia alle scienze ecologiche. E naturalmente tali ricerche pluridisciplinari non sono finalizzate a una verifica accademica, ma si misurano con una loro possibile traducibilità operativa e politica in contesti territoriali determinati. Con piena coerenza, l'ideazione originaria della ricerca di Viale nasce nell' humus dei conflitti sociali, si nutre anche culturalmente dei saperi di cui questi sono portatori, e ad essi ritorna, come al proprio committente, per orientarli con una superiore strumentazione teorica. E' questa la modalità dei percorsi che io intravedo, ad esempio, nei suoi numerosi saggi sui rifiuti - a partire da Un mondo usa e getta del 1994 – agli studi sull'automobile e sul traffico – sin da Tutti in taxi, del 1996 – ai più recenti saggi sul riciclo e sulla conversione ecologica. Significativamente, in queste
Virtù che cambiano il mondo, Viale registra tale modalità come una caratteristica diffusa dell'oggi:« La novità maggiore di questa nuova stagione sta qui: cultura, democrazia e partecipazione coincidono.»
Il libro appena uscito sistema e approfondisce il vasto campionario di temi che l'autore è andato affrontando in questi ultimi anni, scandendolo per capitoli che esaltano ben 14 virtù: dalla Dignità all'Empatia, dalla Conoscenza alla Trasparenza, dalla Condivisione alla Cura. Capitoli e temi che non sono monadi chiuse, ma larghi contenitori in cui confluisce una argomentazione tematicamente assai varia e densa, che non consente fruizioni veloci e costringe il lettore a fermarsi e a pensare. Di questa ampia platea di temi credo sia utile privilegiare un nodo strategico di grande rilevanza, che offre oggi alla sinistra un orizzonte di indubbia potenzialità egemonica. Mi riferisco al tema della conversione ecologica: una via alternativa all'attuale modello di accumulazione capitalistica, indicata anni fa da Alexander Langer – come ricorda l'autore anche in questo volume - ma su cui poi Viale ha costruito una strumentazione analitica e teorica più sistematica. I lettori del Manifesto hanno sicuramente familiarità con il tema su cui non è il caso di tornare in maniera specifica. Se non per dire che nelle riflessioni di Viale, alla base della prospettiva della riconversione ecologica, compare una visione della natura che impedisce di esaurire e di immiserire l'alternativa in un mero progetto di ristrutturazione industriale.
Non si tratta semplicemente di convertire la sfera della produzione di merci ad altri beni e altri fini, ma di ripensare innanzi tutto il nostro rapporto col mondo fisico. « La Terra - scrive Viale – è fatta di mille e mille cose particolari:” naturali” - boschi, fiumi, mari, monti, laghi, piante e animali – e di mille e mille cose “artificiali”, costruite e trasformate dall'uomo nel corso della sua storia – campi, case, città, strade, impianti, attrezzature, beni mobili e immobili – e la manutenzione e riparazione di ciascuna di esse, per farle durare nella loro forma e nel loro uso originario, finché ci possono essere utili o indispensabili, è il modo principale in cui ciascuno di noi, o ciascuna delle organizzazioni, delle istituzioni, delle associazioni di cui facciamo parte, può “prendersi cura” della salute della Terra nel suo complesso.» Questa visione olistica del mondo naturale, che oggi legge la storia e le società umane fortemente intrecciate con esso, costituisce una delle conquiste più fertili di implicazioni politiche della scienza contemporanea. Una dimensione del reale che la sinistra, in generale troppo lontana, per formazione , dalla sfera delle scienze naturali, non ha ancora saputo scorgere come un proprio terreno di egemonia.
E per la verità, leggendo Viale – uno degli autori più avvertiti e aperti a questa dimensione del sapere – mi sono stupito nel non trovare nella sua bibliografia di riferimento il nome di Edgar Morin. Lo studioso che con maggiore ampiezza e sistematicità ha criticato il riduzionismo della scienza moderna, offrendoci una immagine ormai imprescindibile di natura come rete di connessioni complesse di cui gli uomini sono parte, anche vittime , e non solo “esterne” figure dominatrici. Viale ha il merito, tuttavia, di trarre da questa visione avanzata della natura le conseguenze necessarie per interpretare più profondamente un altro grande tema elaborato dalla sinistra italiana ( e non solo ) negli ultimi anni: quella dei beni comuni. Un tema circolante nel libro insieme a un Leitmotiv in sottofondo che va segnalato: l'idea che possiamo cambiare il mondo anche con il nostro comportamento, con l'azione molecolare della nostra soggettività cooperativa, impegnata quotidianamente anche in territori delimitati.
L'autore, che ha dunque uno sguardo ecologico più ampio di tanti propugnatori dei beni comuni, ricorda che « Le lotte per i beni comuni.... hanno esiti tutt'altro che certi e meno che mai predeterminati: anzi il rischio a cui sono esposte – e, insieme ad esse coloro che se ne fanno protagonisti e l'umanità tutta - è di giorno in giorno maggiore e ha ormai assunto la forma di una minaccia ambientale planetaria». Da ciò la critica ad una delle elaborazione teoriche più rilevanti sul “comune”, diffusesi negli ultimi anni, quelle di Toni Negri e Michael Hardt, « Una minaccia – continua Viale – che il “comune” nella versione di Negri e dei suoi adepti non contempla, e per questo è totalmente estraneo alle due dimensioni che contraddistinguono la conversione ecologica come viene proposta qui: da un lato, infatti, il percorso faticoso e accidentato verso un cambiamento dei propri stili di vita in direzione di una maggiore sobrietà e di una minore aggressività reciproca è reso superfluo da un antagonismo nei confronti del potere già sempre in atto in seno alla moltitudine ».In questa visione, insomma, non c'è posto per la “riconversione” della nostra soggettività, per la nuova responsabilità verso la natura che dovrebbe animare la nostra conflittualità.
Dall'altro lato,viene meno il problema fondamentale degli attori e delle sedi per progettare il “che cosa”, il “come” e il “per chi” produrre. « In gioco - osserva Viale, in questa come in altre posizioni – c'è solo la riappropriazione, ma non la produzione di ciò che c'è da riappropriare, che in questo approccio non fa mai problema.» Prima della produzione, infatti, viene la natura che non è la cava infinita da cui estrarre materia ed energia, ma la trama complessa in cui sono impigliati i destini vitali di tutti noi.
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