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Rossana Rossanda
Le tesi di Bertinotti
20 Novembre 2008
Sinistra
Esiste ancora la lotta di classe dopo il crollo del muro di Berlino? Una questione centrale per tutte le sinistre. Il manifesto, 20 novembre 2008

Le tesi che Bertinotti ha presentato in questi giorni (cfr. Matteo Bartocci sul del 13/11) tentano di superare la collisione tra le due anime di Rifondazione comunista. Lo scoglio su cui urtano non è soltanto loro. E' un punto diventato problematico per tutte le sinistre, moderate o radicali, negli anni '70 e '80, e precipitato con la caduta del muro di Berlino: l'implosione del «socialismo reale» non rende obsoleto il paradigma marxiano della lotta di classe?

Esso aveva sorretto tutto il movimento operaio e pareva confermato dalla rivoluzione del 1917. L'implosione dell'Urss e il capitalismo divenuto sistema unico mondiale davano per finito anche il conflitto sociale. Fine è parola gravida di emozioni. Non alludeva a una attuale impossibilità, ma alla verificata insostenibilità di un errore del concetto stesso che aveva innervato la lotta politica in Europa per oltre cento anni.

«Fine della storia» proclamava Francis Fukujama negli Stati Uniti, «Fine di un'illusione» scriveva Francois Furet in Europa, fine del Novecento hanno scritto in molti, e non solo come del «secolo breve» ma come venir meno delle idee che lo avevano retto, prima di tutte l'affermazione marxiana secondo la quale la libertà politica di ogni cittadino non è possibile finché ne restano disuguali le condizioni. Al contrario, non pochi si sono spostati a sostenere che la libertà di impresa, luogo di condizioni disuguali per definizione, sarebbe la sola garanzia di tutte le libertà.

Non sarà mai sottolineata abbastanza l'influenza che questa ottica, in forme più o meno sottili, ha esercitato su tutte le sinistre. Tanto più che la messa in dubbio del conflitto di classe si dava mentre emergeva la percezione di altri conflitti, due dei quali innovativi: il femminismo, che andava oltre l'emancipazione e l'ecologia come scoperta della devastazione del pianeta ad opera dello sviluppo industriale.

Erano due percezioni di sé e del mondo su piani affatto diversi, che di comune hanno soltanto la contemporaneità (sulla quale varrebbe la pena di riflettere) e lo sfondamento rapido di un minoritarismo; risuonavano immediatamente sul reale. E non si aggiungevano al movimento operaio, lo accusavano di averle ignorate pretendendo la sola sua centralità; l'uno nega le altre e viceversa, inclinando ciascuno a porsi come «la» contraddizione principale.

Attaccate nella loro base sociale dall'offensiva liberista, incerte nel cogliere l'evolvere dell'organizzazione capitalista della proprietà e del lavoro, colpevolizzate dall'accusa di non avere inteso i nuovi conflitti, le soggettività di origine operaia o si sono irrigidite o hanno dubitato delle proprie ragioni. Tutti i filosofemi sul Novecento, per quanto diversamente conditi, affermano la fine della loro ragion d'essere. Paradossalmente il capitalismo si è esteso, è il sistema unico dominante, l'ineguaglianza dentro alle singole società e fra paesi dominanti e dominati, nord e sud, non sono mai state così grandi e percepite, ma i motivi di opporvisi non ci sarebbero più. O almeno non gli stessi. Addio al proletariato scriveva una ventina di anni fa un amico scomparso, André Gorz.

Qualcosa di analogo si può dire per le molte ricerche sulle innovazioni che sarebbero intervenute nel capitalismo rendendo obsoleto il conflitto di classe; ancora di recente uno dei nostri più stimati compagni, Marcello Cini, è tornato a insistere sul «luogo» di accumulazione del capitale, negando con buone ragioni che essa avvenga ormai soprattutto sul tempo di lavoro, ma scordando che non è sul dilemma di dove si formi ma sulla mercificazione della forza lavoro, la sua spersonalizzazione e riduzione a cosa, che è cresciuta la rivolta del proletariato industriale. E questa mercificazione si è estesa, se mai, ben oltre il secolo scorso e il fordismo, sull'insieme della produzione, materiale e immateriale, su gran parte della riproduzione e sul complesso dei rapporti umani.

In Italia il problema è esploso su Rifondazione comunista dopo il disastro delle elezioni. Già era del tutto scomparso dall'orizzonte del Partito democratico, che neppure più si definisce di «sinistra» e non certo perché il termine è diventato equivoco, ma perché al conflitto sociale ancora in qualche modo allude. Del dilemma che ancora agita i socialisti francesi, ancorarsi alla questione sociale o al centro, il Pd ha scelto il secondo corno fin nella sua composizione. Mentre è diventato dirompente in Rifondazione. E non poteva non esser così per un partito che si era proposto di «rifondare» il comunismo, recuperando lo spazio che il Pci aveva lasciato deserto, ma non superava mai una soglia assai minoritaria di ascolto e di colpo non ne raggiungeva, istituzionalmente parlando, più nessuna.

Al Congresso di Chianciano, la vecchia robusta minoranza è diventata maggioranza accusando la dirigenza di Bertinotti e poi la mozione Vendola di dismettere ogni lotta sociale con la prospettiva di finire prima o poi nel Pd; mentre la mozione Vendola accusava la linea Ferrero-Grassi di arroccarsi su una inerte ripetitività del passato. Negli articoli di Paolo Ferrero e Nichi Vendola sull'ultimo numero di «Alternative per il socialismo» (che, per essere stati scritti a settembre, non percepiscono le mutazioni della scena internazionale, né la crisi apertasi nel capitalismo) le posizioni restano immutate. Ferrero, preso dall'angoscia che tutti conosciamo, del venir meno d'una soggettività sociale punta a ricostruirla «in basso e a sinistra», cioè come esperienza diretta degli individui ora atomizzati attorno a un bisogno ravvicinato da affrontare assieme. E insiste sui simboli, nome del partito e falce e martello come salvagente per non precipitare in grembo al Pd. Vendola, nell'appassionata mappa dei conflitti e sofferenze del presente - con la sensibilità umana rara e che gli è avvalsa la vittoria in Puglia - stenta a dare una collocazione alla lotta di classe, una delle molte ferite della società. E anche lui insiste, in altra direzione, sulla priorità del simbolico. Ora il simbolico, quando venga assunto a sua volta come piano principale o unico, può essere devastante del «materiale reale». I due piani o si tengono stretti, diciamo così, per il bene e per il male, o si mutilano.

Adesso Bertinotti interviene affermando, con ragione, che non esiste sinistra senza il conflitto sociale, mentre il movimento degli studenti gli suggerisce, ed è discutibile, che può darsi il contrario. Nega sia l'autonomia del sociale sia quella del politico. La proposta di Ferrero è povera, quella di Vendola stenta a individuare i nessi, conclude chi legge, che aveva individuato già, in una sua più vasta analisi della disaggregazione delle soggettività, Maria Luisa Boccia (in sintesi anch'essa in «Alternative per il socialismo»).

In verita tutta Rifondazione comunista si dibatte, da quando esiste, sul bandolo dal quale afferrare la matassa dopo il 1989. Esponendosi agli scacchi: alcune affermazioni che egli ora giustamente discute sono derivate dalla sua iniziativa. Non penso tanto alla scelta di stare o non stare nella maggioranza di governo, quanto all'aver puntato sulla Sinistra Arcobaleno come a qualcosa di più che una coalizione elettorale, il nucleo di un partito «plurale». Che una opposizione al berlusconismo e al centro raccolga culture e sensibilità differenti mi pare d'obbligo, ma che la stessa possa costituire un partito nel quale il conflitto di classe sarebbe un optional è un altro paio di maniche.

Ne sono derivate reazioni opposte e assai dubbie, come il disinvolto articolo sul comunismo di Rina Gagliardi su Liberazione e, all'opposto, l'accusa di liquidatore indirizzata a Vendola.

Le tesi di questi giorni dovrebbero far giustizia delle battute avventate e costituire una trama sulla quale lavorare. Esse hanno dovuto aggiornarsi sulla realtà aperta negli ultimi mesi; che modifica le carte del mondo come si presentavano un anno fa. Danno fin troppo ragione a chi si opponeva alla «fine della storia» e all'autosufficienza del mercato come ordinatore dell'economia e della società.

Ma, nuovo paradosso, gli apologeti dell'una e dell'altra, davanti alla cui protervia non si poteva aprir becco senza essere dileggiati, chiedono affannosamente aiuto all'intervento pubblico, mentre la sinistra non sa che dire davanti alla crisi, non solo «finanziaria», nella quale il capitalismo si dibatte. Noi, sinistre critiche, sembriamo un gatto nella notte, abbacinato dai fari d'un camion di cui preconizzavamo l'arrivo ma che ci prende di sorpresa.

C'è molto da rivedere nella nostra cassetta degli attrezzi e anche nelle nostre rivendicazioni. Come avanzare un piano o un partito del «lavoro», quando è il sistema che sta traballando? Certo non possiamo attardarci nelle beghe fra noi. La rivoluzione non è all'ordine del giorno ma un corto circuito del liberismo è in corso. Non dovremmo avere qualcosa da dire? Almeno sulle misure di intervento, quante, come, destinate a chi e da parte di quale «pubblico»?

Se non l'abbiamo, la nostra scomparsa da contingente rischia di diventare definitiva.

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