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Claudio Magris
Le scimmie di Churchill e la paura
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Anche in Occidente non sono pochi quelli che cercano di comprendere, e ricordano i nostri terrorismi. Da il Corriere della sera del 24 luglio 2005

A parte le ovvie, sacrosante e scontate reazioni di orrore per le stragi terroriste, pietà per le loro vittime e paura di far parte domani di queste ultime — rischio cui è esposto chiunque, indipendentemente dalle sue scelte politiche e dai suoi sentimenti caritatevoli o astiosi nei riguardi del prossimo — i devastanti attentati di queste settimane e di questi giorni costringono a prender atto che, fra le sconvolgenti trasformazioni che hanno mutato e mutano la nostra realtà, c'è anche la trasformazione della guerra, come avevano genialmente intuito e analizzato già anni fa, ben prima dell'11 settembre, i due generali cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui. Il terrorismo non è più un episodio isolato, eclatante ma presto sommerso dal corso delle cose; è una guerra e una guerra che non riguarda soltanto roventi situazioni e conflitti locali, come in passato, ma il mondo intero. Non si tratta più di piccoli gruppi che, con mezzi e azioni anomale rispetto alle consuete modalità belliche, colpiscono un avversario e nemmeno di singoli nuclei sovversivi che colpiscono le istituzioni nella speranza di rovesciare l'ordine sociale vigente o di favorire losche manovre politiche, come è avvenuto in anni non lontani in Italia.

Ora si tratta di una guerra, simile o opposta a quella tradizionale: un'organizzazione clandestina attacca rovinosamente New York, cosa che non riuscì e non poteva riuscire all'aviazione del Terzo Reich; bombarda con le sue bombe Londra, come la Luftwaffe di Hitler.

Dinanzi a una guerra — a parte il dolore per i morti e la paura di morire — si possono fare varie considerazioni. La si può inquadrare — e si deve farlo, se ci si propone di discuterne obiettivamente e al di sopra dei propri timori e interessi — nel complesso della storia, collocando la violenza che ci colpisce nella totalità degli eventi che l'hanno preceduta e generata: è quello che ha fatto — con particolare coraggio, dato il momento tragico e il suo ruolo politico — il sindaco di Londra, collega di partito di Blair, ricordando le violenze compiute in passato dall'Occidente e osservando che ognuno combatte con le armi che ha a disposizione, carri armati e aeroplani o bombe. Si può anche ricordare che Begin aveva compiuto sanguinose azioni terroriste e più tardi, in circostanze e funzioni diverse, ricevette il Premio Nobel per la pace, quasi a significare che è la vittoria o la sconfitta a decidere se il terrorismo ha ragione o torto.

Queste osservazioni del Lord Major londinese sono giuste e servono a ricordare, doverosamente e opportunamente, che, accanto alle vittime barbaramente uccise come quelle di questi giorni e giustamente piante da tutto il mondo, ce ne sono state e ce ne sono tante, tantissime altre massacrate altrettanto barbaramente senza che il mondo e la coscienza del mondo ne avessero e ne abbiano rimorso e nemmeno consapevolezza.

Tali considerazioni tuttavia servono a poco dinanzi al fatto che pure chi le fa si trova esposto al rischio di saltare in aria su una bomba messa nella metropolitana; in questo momento, nella piccola Trieste che non attira l'attenzione del mondo, sono probabilmente più al riparo di chi deve attraversare Londra per guadagnarsi il pane, ma, dati i numerosi viaggi cui mi porta il mio lavoro, non sarebbe statisticamente impossibile che toccasse pure a me. Dopo tutto, è stato un caso che mi trovassi a Londra tre mesi e non tre settimane fa.

Dunque, quali siano o possano essere le origini, le motivazioni, le cause, la realtà da cui nasce il terrorismo, debellarlo significa proteggere pure me, i miei amici, tutti. Ma come può essere sconfitto? Certamente occorre rimuovere tutte le cause, e in primo luogo i nostri errori e le nostre colpe, che possono creare situazioni in cui il terrorismo attecchisce più facilmente, ma, a parte questo doveroso disegno del futuro, è necessario stroncare la sua realtà presente, la sua furia che è autonoma e prescinde ormai da ogni genesi storico-politico-sociale. Ma come vincere questa guerra? Sembra talora che l'Occidente si affidi a una visione e a una tattica bellica invecchiate, sorpassate da quella trasformazione globale e capillare della guerra analizzata dai due strateghi cinesi.

L'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq, se si proponeva di estirpare il terrorismo, è stata una risposta tecnicamente invecchiata a una situazione nuova; il terrorismo infatti è aumentato e in Iraq le vittime quotidiane sono così numerose da non destare più emozione, come denunciava giovedì Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, forse anche perché si tende a sorvolare su di esse in quanto dimostrano il fallimento dell'impresa. La disastrosa invasione sovietica dell'Afghanistan, che è stata condannata moralmente anziché essere bollata in primo luogo per la sua stupidità, non ha insegnato proprio nulla.

L'altro giorno, chiacchierando a tavola, uno dei miei figli mi faceva osservare come, sino a pochi anni fa, il divario tra il potere e i piccoli gruppi ribelli fosse andato, con lo sviluppo della tecnologia, sempre crescendo, mentre oggi è proprio il progresso tecnologico che permette a un'organizzazione segreta di sfidare la più grande potenza del mondo e di disporre di armi non troppo dissimili, così come nell'età della pietra sia il capo tribù sia l'ultimo ribelle disponevano della clava. Pure chiudere le frontiere o espellere non già, giustamente, individui di accertata pericolosità, bensì indiscriminatamente persone provenienti da zone vagamente accostabili al terrorismo, è non solo ingiusto, ma inefficace e contrasta quella circolazione e quella globalizzazione che sono, in bene e in male, la nostra realtà e che è patetico illudersi di bloccare. Come ha scritto Sergio Romano sul Corriere, si combatte il terrorismo mantenendo fede alla normalità quotidiana, non lasciandosi intimidire, continuando a creare quella vita d'ogni giorno ch'esso vuole distruggere, viaggiando in metropolitana nonostante le bombe, anche perché non è la morte la disgrazia peggiore («morir si deve, morir bisogna, mostrar il cul senza vergogna», dice un proverbio delle mie parti) bensì una vita tarpata, bloccata.

A una situazione nuova occorre rispondere, per non perdere, con metodi nuovi. Un profano pensa istintivamente che in primo luogo un'efficace rete di infiltrati potrebbe permettere di stroncare il terrorismo sul nascere, ma è ridicolo che un profano dica la sua su queste cose. La reazione inglese, nella sua calma e compostezza, è esemplare, e rappresenta forse una delle risposte migliori. I terroristi hanno assassinato tante persone, ma se la loro strage non incide minimamente sull'atteggiamento degli inglesi, questa è già una loro sconfitta. L'Inghilterra ha vinto la Seconda guerra mondiale anche perché Churchill, mentre Londra veniva selvaggiamente bombardata, si preoccupava ostentatamente della salute di alcune bertucce dello zoo di Gibilterra.

Nell'immagine lo skyline di New York dopo gli attentati alle Torri Gemelle (Jim Graham/Saba)

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