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Guido Viale
Le sberle dell'economia
18 Giugno 2011
Nostro pianeta
La “crescita” dell’economia è ancora «imperativo categorico di tutto l'establishment economico, politico e sindacale». Se si abbandona questo tabu, diventano chiare le cose che si possono fare. Il manifesto, 16 giugno 2011

Il vento che ci ha portato all'esito delle elezioni amministrative e dei referendum continuerà a soffiare; bisogna cominciare a fare i conti con i problemi che ci troveremo di fronte a breve. A cominciare dai problemi economici. C'è ancora qualcuno che crede che la Grecia possa ripagare il suo debito (in gran parte nelle mani di banche francesi, tedesche e inglesi e ora anche della Bce) o anche solo rinegoziarlo a tassi accettabili mentre le politiche che le impone l'Unione Europea annientano qualsiasi possibilità di ripresa?

O c'è ancora qualcuno che crede che alla lunga possano sottrarsi a una sorte analoga gli altri paesi europei che si trovano più o meno nella stessa posizione della Grecia, a meno di una revisione radicale del "patto di stabilità"? E c'è ancora qualcuno che pensa che in un contesto simile l'economia italiana possa tornare a crescere, realizzando un avanzo primario sufficiente a riportare il suo debito al 60 per cento del Pil? E poi, di che crescita stiamo parlando? Di una crescita del Pil, cioè contabile, per soddisfare le società di rating, interamente controllate dai big della finanza internazionale.

Quella stessa finanza che - dopo aver mandato in rovina milioni di clienti irretiti da mutui fasulli, di risparmiatori ingannati da titoli di carta straccia, di imprese rimaste senza credito perché le banche continuano a investire sui derivati - sta ora scommettendo sul fallimento di quegli Stati che si sono svenati per salvarla, svenando a loro volta i propri cittadini.

E ancora, è forse possibile affrontare temi di ampio respiro - come il dibattito sul reddito di cittadinanza (su cui si appena svolto a Roma un incontro promosso dal Basic Income Network); o il finanziamento di scuola, università e ricerca; o un piano nazionale di lavori pubblici finalizzato alla manutenzione del territorio, degli edifici pubblici e di quelli dismessi (e non alle "grandi opere"), e molte altre cose ancora - ipotizzando un semplice spostamento da una posta di bilancio a un'altra di fondi in gran parte "virtuali", cioè inesistenti, e senza venir meno al patto di stabilità dell'Unione Europea (quello di cui si fa forte, e che rende forte, Tremonti)?

Il dibattito sul ritorno alla crescita, imperativo categorico di tutto l'establishment economico, politico e sindacale del paese - ma anche del resto del mondo - e che ha coinvolto anche, su questo giornale, Valentino Parlato e Pierluigi Ciocca, lascia perplessi.

Si parla, certo con approcci differenti e anche contrapposti, delle condizioni perché l'economia italiana torni a crescere: in due tempi, secondo alcuni; perché senza tagli di bilancio e "conti in ordine" non può esserci ripresa; con più ricerca, più investimenti, più occupazione, secondo altri; perché questa è la premessa per poter salvare i conti pubblici. Ma di quale ricerca, quali investimenti, quale occupazione, cioè di quale "crescita" non si parla mai.

Non sono un fautore della decrescita. Trovo questo concetto povero di contenuti; inutilizzabile, se non impresentabile, nelle situazioni di crisi (quando a essere messi in forse sono redditi e posti di lavoro); ambiguo (in quanto speculare, anche se opposto, a quanto ci viene proposto dagli economisti mainstream). Non credo che le otto "R" di Latouche (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare) apportino al dibattito politico molto più di un chiarimento concettuale. Però, quando si scende - se mai si scende - sulle cose da fare o proporre è molto più facile ritrovarsi d'accordo al di là delle formulazioni dottrinarie. Ma questa diffidenza non significa certo accettazione del diktat della crescita.

Il problema è individuare prospettive e proposte praticabili secondo il principio "pensare globalmente e agire localmente"; dunque, in contesti in cui è possibile raccogliere le forze intorno a obiettivi condivisi. La campagna referendaria contro la privatizzazione dell'acqua, con tutti i significati di cui si è caricata nel corso del suo svolgimento, è l'esempio di un agire che da modeste dimensioni ha assunto un respiro generale. La costruzione di un Gas (gruppo di acquisto solidale) è l'esempio di una prassi che ha un valore paradigmatico, anche se effetti ancora circoscritti. In ogni caso, la "crescita" (un concetto largamente screditato: lo ricordo a Valentino Parlato) non può essere un obiettivo; e nemmeno lo "sviluppo"; lo è il governo o, meglio, l'autogoverno dei processi economici. La conversione ambientale (ecologica, diversificata, diffusa, solidale, partecipata, sostenuta dai saperi della cittadinanza attiva)nei settori decisivi dell'efficienza e dell'approvvigionamento energetico, dell'uso razionale delle risorse - di cui la gestione dei rifiuti è solo l'ultima fase - dell'agricoltura e dell'alimentazione, della gestione del territorio, edificato e non, dell'educazione e della ricerca, è una prima approssimazione al concetto di autogoverno. E qui ci si ferma; perché per le sue caratteristiche di processo che nasce dal basso e, pur armato di buone pratiche e dei saperi che scienza, cultura e tecnologia mettono a nostra disposizione, la conversione ecologica ha bisogno in ogni luogo della partecipazione e concorso degli organismi attraverso cui si esprime la cittadinanza attiva. Per questo ogni sua ulteriore definizione è in gran parte rimandata ai processi di auto organizzazione e di autogoverno.

Tuttavia, mano a mano che i processi molecolari si concretizzano, unificano e rafforzano, i movimenti vengono a confronto ed entrano in conflitto con il potere della finanza internazionale e dei governi che ne sono mandatari a livello statuale. La prima posta in gioco di questo confronto è il bilancio degli Stati. E lungo questo percorso, la strada della bancarotta della finanza statale, a meno di una revisione radicale del patto di stabilità, sembra essere una tappa obbligata. Si tratta solo di vedere chi e come la gestirà. Prendiamo la Grecia. Prima o poi farà default. Chi lo nega lo fa per scaramanzia; ma è come nascondere la testa sotto la sabbia. Il problema è se a questo passaggio obbligato si arriverà dopo aver spolpato lavoratori e popolo di tutto quello che hanno conquistato nel corso del secolo scorso, e dopo aver svenduto alla finanza internazionale tutto il vendibile (porti, utility, servizi pubblici, acqua, edifici, isole, spiagge,magari anche il Partenone); oppure se la dichiarazione di insolvibilità arriverà prima delle svendite, perché la mobilitazione popolare – e il timore della sua moltiplicazione in molti altri paesi - avrà imposto al governo greco o all'Unione europea un cambio di rotta. Il che ci ricollega alla mobilitazione in corso in Spagna, a un referente nelle rivolte dei popoli del Maghreb e del Medio Oriente e, finalmente, anche un po' al vento che ha preso a soffiare in Italia.

E da noi? Qualcuno ha cominciato a pensare come si governa l'economia di un paese insolvente? Magari in compagnia di altri paesi insolventi? Forse non è una prospettiva immediata, ma nemmeno una mera ipotesi di scuola; e meriterebbe qualche attenzione in più. Gli economisti che possono farlo non mancano. Gli esempi a cui rifarsi, nemmeno. L'ultimo in ordine di tempo è l'Argentina, che non ne è neanche uscita tanto male; anche grazie al fatto che lavoratori e comunità hanno presso in mano il destino di molte aziende altrimenti condannate alla chiusura.

Ma il secondo dopoguerra (quello del 1945) è ricco di Stati insolventi, e l'Italia è uno di questi. Il caso più interessante è forse la Germania, dove oltre al debito pubblico era stato azzerato anche il valore della moneta, distribuendo a tutti una piccola somma per "ripartire". Non che si debba ripercorrere strade già tracciate; oggi c'è l'euro e prima di affossarlo è probabile che si renda irrinunciabile l'azzeramento del patto di stabilità. Comunque, una maggiore apertura di spirito nel prospettare gli scenari di domani non farebbe male.

Il vento sta cambiando e bisogna attrezzarsi e mettersi al passo. Cambiare il mondo si può. Quando gli Stati Uniti sono entrati nella seconda guerra mondiale, in pochi mesi hanno convertito l'intero loro apparato produttivo (il più potente del mondo) per fare fronte alle esigenze della produzione bellica. Poi lo hanno di nuovo convertito (in poco tempo, e solo parzialmente) per fare fronte alle aspettative della pace. Oggi siamo in guerra contro una minaccia altrettanto se non più mortale: quella dei cambiamenti climatici. Molti governi - tra cui il nostro - non se ne curano affatto; quelli che se ne curano lo fanno in misura insufficiente. Ma la resa dei conti sta per arrivare e chi si sarà attrezzato per tempo si troverà meglio; o meno peggio. Ma una conversione ecologica del sistema produttivo e dei modelli di consumo dominanti non può avvenire senza liberarsi anche dalla cappa che la finanza internazionale ha steso sull'economia mondiale e sulla vita di tutti.

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