Il manifesto, 10 gennaio 2013
Norberto Bobbio aveva utilizzato la fortunata espressione «età dei diritti» per indicare la progressiva centralità conquistata, sia nel discorso pubblico che nella teoria giuridica e politica, dai diritti fondamentali. Con la stagione delle grandi Costituzioni europee del secondo dopoguerra, l'idea, radicata nella tradizione statalistica di gran parte del diritto pubblico, che i diritti fossero solo l'altra faccia dei doveri, una semplice espressione della forza dello Stato che li riconosceva e li garantiva, era stata definitivamente superata in nome di una nuova centralità dei diritti fondamentali della persona. La stessa tradizionale classificazione dei diritti nelle tre generazioni dei diritti civili, politici e sociali cominciava a diventare antiquata, sia per una notevole espansione dei diritti sociali stessi, sia per l'affacciarsi di diritti «nuovi», legati alle trasformazioni culturali, tecnologiche, ambientali.
Sul linguaggio, sulla teoria ma anche sulla dimensione dell'effettività concreta dei diritti fondamentali, torna oggi Stefano Rodotà, che in questo Il diritto di avere diritti (Laterza, pp. 433, 20 euro) offre una densissima cartografia del «mondo nuovo dei diritti», esplorandolo senza mai neutralizzarne la tensione di fondo: i processi globali comportano contemporaneamente, «un incessante riscrivere il catalogo dei diritti» e, insieme, il costituirsi di un campo mai pacificato, continuamente attraversato da conflitti, all'interno del quale l'inefficacia di larghe parti delle costituzioni e delle carte sovranazionali costituisce un persistente lato oscuro dell'età dei diritti. Le guerre umanitarie hanno, del resto, mostrato un'altra faccia terribile del discorso sui diritti, l'estrema facilità con la quale i diritti umani sono diventati strumento ideologico di giustificazione delle guerre dell'Impero.
Quando i confini mutano
Mosso da un'estrema consapevolezza di questi aspetti problematici del linguaggio dei diritti, Rodotà si confronta direttamente con quelle voci critiche che, ispirandosi a impostazioni di tipo realistico, non fanno mistero di nutrire un'esplicita diffidenza per le varie prospettive di costituzionalizzazione sovranazionale e per le dichiarazioni «di carta», sognando un ritorno alla centralità dell'autorità politica degli Stati e, spesso, della legge e dei parlamenti contro quella che considerano una pericolosa estensione dell'influenza delle Corti. Contro questo tipo di critiche, il testo di Rodotà chiama incessantemente, e in modo assolutamente convincente, all'esercizio di tutt'altro tipo di realismo: non si tratta di rimpiangere il territorio perduto, il senso protettivo delle identità consolidate, ma di saper abitare i continui attraversamenti, ridefinizioni e cancellazioni dei confini tradizionali. Allo stesso modo, nessuna nostalgia è possibile per un'idea semplificata della politica, che guardi all'antico decisore «sovrano», identificandolo tradizionalmente con la centralità dei Parlamenti nazionali: dalla natura reticolare e complessa dei poteri nessuno può pensare di uscire, in un tempo in cui le classiche «istituzioni della normazione», le assemblee legislative, perdono spazio a favore delle «istituzioni del rispetto e dell'attuazione», in primo luogo le Corti, nazionali e sovranazionali. In questo universo policentrico e multilevel, una saggezza realistica deve saper riconoscere che nei diritti e nella loro azionabilità in giudizio, più che nelle sedi tradizionali della decisione politica statuale, spesso, «si è rifugiata l'unica democrazia possibile in tempi di globalizzazione».
Questa lettura contiene materiali preziosi per contestare tutti quei discorsi che, dietro una pur salutare critica degli abusi della retorica dei diritti, nascondono evidenti nostalgie per concezioni neostatualiste, pensando magari di giocare un qualche imprecisato ritorno a un'autentica sovranità del «popolo» contro i nuovi assetti costituzionali complessi e policentrici. Rodotà sa mostrarci come le sovranità statali non siano scomparse, ma anche come il loro ruolo si sia radicalmente trasformato e come, in ogni caso, la forza del «politico» non abiti certo più da quelle parti. La lotta per il diritto, trasformatasi oggi in una diffusa lotta per i diritti, incarna molta più «politicità», anche se difficilmente localizzabile, di quella che anima i luoghi e i tempi classici della decisione politica.
Modelli non disincarnati
Il cuore di questo libro non sta tanto nel difendere il costituzionalismo dei diritti dalle critiche avanzate nel nome di ritorni semplificatori allo Stato o alla Sovranità, o a una presunta purezza del Politico. Le pagine teoricamente più dense girano piuttosto intorno a un'altra serie di critiche, di diversa ispirazione, che obiettano invece al discorso dei diritti un'eccessiva astrattezza e un'insostenibile pretesa di universalità, con il rischio di far scomparire la concretezza delle differenze e la molteplicità delle esperienze, e di ridurre la ricchezza delle pratiche sociali effettive entro modelli normativi disincarnati. Nel rispondere a questo tipo di obiezioni, la ricerca di Rodotà evidenzia con forza come il richiamo ai diritti oggi si muova su coordinate molto diverse da quelle che animavano la classica modernità giuridica. La norma, anche la norma giuridica, è sempre meno un modello «trascendentale» che si impone dall'alto a dar forma alla mutevolezza dell'esperienza, ma si presenta sempre più coinvolta, aperta, resa permeabile alle trasformazioni, alle differenze, alle metamorfosi. Le lotte femministe, l'emergere delle differenze e, ancor più complessivamente, l'emergere di un soggetto che non si presenta più come «compatto, unificante, risolto», ma che «si fa nomade», richiedono, infatti, un ripensamento complessivo dello schema su cui il discorso giuridico si è fondato nella modernità. Questa nuova materialità, questo riferirsi non più al soggetto giuridico «astratto» ma ai soggetti «di carne», costituisce l'autentico punto di forza della ripresa contemporanea del discorso dei diritti. È il costituzionalismo dei bisogni, come lo definisce Rodotà, che ha saputo ridefinire l'intero discorso dei diritti dentro la materialità delle differenze, dei conflitti e delle lotte.
Questo costituzionalismo materiale, che vive di persone incarnate e dei loro legami sociali, oltre la classica astrazione del «soggetto giuridico», richiede un deciso superamento della logica proprietaria. Il rapporto complesso tra persona e beni non è riassumibile né nella proprietà privata, né nella proprietà pubblica: la questione è invece quella dell'accesso ai beni fondamentali come diritto della persona, sganciato dalla titolarità della proprietà; un accesso non puramente «formale», che si affidi a logiche mercantili, ma che renda usufruibili i beni «senza ulteriori mediazioni». Si tratta di costruire lo spazio del «comune», dimensione decisamente al di là di individuo e Stato, sapendo bene anche che non si tratta di vagheggiare un ritorno alla logica chiusa della «comunità», ma piuttosto di immaginare uno spazio globale di valorizzazione piena dell'uguaglianza e della libertà. Così, le densissime pagine su vita e autodeterminazione, cyberspazio e identità personale e quelle, cruciali, sulla necessità di ripensare in termini innovativi il nesso tra vita, diritto e lavoro, verso la costruzione di una «democrazia del reddito universale», permettono di misurare tutta la forza di una simile proposta costituzionalista: probabilmente, il riformismo più avanzato che abbiamo oggi a disposizione.
Resta però tutto da discutere se anche questo costituzionalismo avanzato possa esaurire l'intero spazio delle lotte e delle rivendicazioni contemporanee. Lo stesso discorso di Rodotà mantiene una tensione con tutto ciò che continua a emergere anche fuori dallo spazio del processo di costituzionalizzazione dei diritti, che non a caso legge come un processo sempre aperto e tendenzialmente «infinito». Resta però urgente, a nostro parere, mantenere, anche dinanzi a una versione così avanzata del costituzionalismo e del discorso sui diritti, la possibilità di interrogazione critica sul costituzionalismo stesso, e sui limiti delle lotte che si pongono nei termini classici del «riconoscimento dei diritti».
Per esempio: è vero che lo spazio giuridico europeo, quello della carta dei diritti, contiene più di un'apertura valorizzabile nel senso di un costituzionalismo materiale dei bisogni; ma, allo stesso tempo, è difficile ignorare che la finanziarizzazione ha assunto oramai in questo spazio un ruolo sempre più a suo modo costituente (da vera e propria «rivoluzione dall'altro», come ha scritto più volte Etienne Balibar), che ha imposto trasformazioni decisive alle stesse costituzioni nazionali formali. In questo quadro, è difficile continuare a immaginare una costituzionalizzazione progressiva dei diritti, affidata all'attività, pur a volte sicuramente encomiabile, delle Corti europee. La ripresa della costruzione di uno spazio europeo dei diritti all'altezza delle sfide della «costituzione finanziaria», sembra in questo momento richiedere elementi di rottura costituente non pacificamente contenibili nella grammatica istituzionale dell'espansione dei diritti e negli spazi aperti dalla loro interpretazione.
E ancora: Rodotà conosce bene - e valorizza - tutte le forme di produzione informale di diritto, di istituzionalizzazione dei diritti attraverso soggetti e procedure diverse da quelle usuali nei processi politico-costituzionali. Legge però nelle ipotesi che si fondano su processi di autocostituzionalizzazione, di elaborazione di «costituzioni civili» settoriali - sostenute per esempio dal sociologo e giurista tedesco Gunther Teubner - un elevato rischio di non superare un certo elogio, piuttosto incapacitante, della frammentazione post-moderna. Rischio che esiste, e fa bene Rodotà a soffermarsi sulle dinamiche ricompositive in atto anche nei processi globali. Ma anche qui: siamo sicuri che i processi «sociali» di autonormazione incontrino inevitabilmente il destino della debolezza frammentaria e che quelli politico-istituzionali formalizzati conservino invece forza ricompositiva? Un costituzionalismo materiale, oggi, non potrebbe invece trovare nuova forza proprio nella capacità dei nuovi movimenti sociali di dar vita a processi autocostituenti, certo parziali, ma in grado di aprire sperimentazioni di democrazia post-rappresentativa e di mantenere una tensione permanente con gli spazi rappresentativi e politico-istituzionali «classici»?
Un costituzionalismo pur incarnato e materiale, pur sensibile alle trasformazioni della società della conoscenza e capace di installarsi su un terreno riformista ricco e denso, non esaurisce insomma gli spazi di innovazione e di conflitto che i movimenti sociali vanno aprendo. E se è vero che Marx, come ricorda opportunamente Rodotà, seppe leggere nella vittoria «legislativa» sull'orario di lavoro tutta la ricchezza di un avanzamento decisivo per il proletariato, è anche vero che per Marx quella vittoria non si rinchiudeva in un recinto giuridico acquisito, ma permetteva di riproporre, a un livello più alto, la connessione tra critica del diritto e critica dell'economia politica.
Così, il riconoscimento dei progressi democratici che si possono ottenere sul terreno di un costituzionalismo materiale avanzato, potrebbe coniugarsi con processi costituenti di critica radicale degli assetti costituzionali esistenti.