«». Il Sole 24 ore, 8 maggio 2016 (c.m.c.)
Niente anemoni né garofani, niente orchidee né violette. La mimosa, piuttosto. A portata di mano – all’inizio di marzo – nei campi di tante contrade d’Italia, e a portata di portafoglio per i «compagni» anche meno danarosi... Nella tradizione orale del Partito comunista italiano, la scelta della mimosa quale simbolo dell’8 marzo, giornata internazionale della donna, è stata intestata a Teresa Mattei: già coraggiosa combattente partigiana nella Toscana dell’occupazione tedesca e presto, dopo le elezioni del 2 giugno 1946, il più giovane in assoluto fra i deputati dell’Assemblea costituente. Sarebbe stata lei, durante il primo inverno dopo la Liberazione, a guidare i dirigenti del Pci e le responsabili della neonata Udi (Unione Donne in Italia) verso un 8 marzo profumato di giallo.
L’aneddoto viene dato per buono da Chiara Valentini, nel felice ritratto di Mattei da lei abbozzato per un volume a più mani, Donne della Repubblica, appena uscito dal Mulino: libro di storia – quattordici profili biografici – attraverso cui il collettivo femminile Controparola ha voluto celebrare il settantesimo anniversario del voto alle donne. Libro talvolta un po’ incantato, per la tendenza di alcune autrici a sposare toto corde il punto di vista dei loro personaggi. Ma libro meritorio, se è vero che anche le maggiori «donne della Repubblica» restano oggi poco conosciute, mentre dovrebbero troneggiare nel Panteon novecentesco della storia d’Italia. Un’Italia che – guarda caso – ha saputo riconoscere i suoi founding fathers, non le sue founding mothers.
Lina Merlin (nata nel 1887), Camilla Ravera (1889), Teresa Noce (1900) ), Renata Viganò (1900), Ada Prospero Gobetti (1902), Nilde Iotti (1920), Teresa Mattei (1921), Marisa Ombra (1925), Tina Anselmi (1927): appartenevano a generazioni profondamente diverse, le più storicamente significative fra queste donne della Repubblica. Eppure, a guardarle l’una accanto all’altra, si notano in loro vari tratti comuni. Tutte o quasi tutte venivano dal Nord: per lo più dal Piemonte, altrimenti dal Veneto o dall’Emilia. Molte, in una prima fase della loro vita, erano state maestre o comunque insegnanti. Le più anziane avevano militato già nel Partito socialista di Filippo Turati, altre diventeranno comuniste soltanto negli anni Cinquanta, ma tutte si erano date un appuntamento – virtuale o reale – nell’Italia della Resistenza.
Seguire quattro di loro nell’aula di Montecitorio, deputate alla Costituente (e tre su quattro, Merlin, Iotti e Mattei, incluse nella Commissione dei 75 delegata a elaborare il progetto di Costituzione), equivale a toccare con mano una qualità propria della «Repubblica dei partiti»: la capacità di selezionare al meglio una classe dirigente. D’altra parte, le carriere politiche di donne come Merlin, Ravera e Mattei – carriere accidentate almeno quanto gloriose – illustrano la difficoltà di quei partiti, anche se di sinistra, nell’accettare pienamente il contributo di tali donne alla Costituzione e alla legislazione repubblicane. Attestano la ritrosia dei padri della patria a costruire un’Italia che davvero fosse nuova, oltreché nelle sue fondamenta istituzionali e valoriali, nella parità di statuto e di condizione fra i suoi uomini e le sue donne.
Si deve alla deputata socialista Merlin – passata poi alla storia per la legge contro le «case chiuse» – una formulazione decisiva della nostra Carta fondamentale: quella che, all’articolo 3, «senza distinzione di sesso» riconosce a tutti i cittadini l’eguaglianza di fronte alla legge e una pari dignità sociale. Si devono a deputate come la comunista Noce e a intellettuali militanti come l’azionista-comunista Gobetti i lenti ma sicuri progressi di una legislazione moderna sulla maternità. Si deve all’impegno ostinato di donne come Tina Anselmi l’evoluzione storica di una riottosa Democrazia cristiana, da partito-baluardo della «famiglia» a partito relativamente aperto verso la «questione femminile».
Quando pure il loro corpo fosse minato nella salute (così per Camilla Ravera, lungamente in carcere sotto il fascismo), queste donne della Repubblica sapevano tenere la schiena straordinariamente dritta. Ne fece esperienza il «compagno Ercoli», Palmiro Togliatti: cui Ravera non esitò a contrapporsi fin dagli anni Trenta, cioè nei tempi più grami (e più insidiosi) dell’ortodossia stalinista, e cui Mattei osò scrivere nel 1956, alla vigilia dell’VIII congresso del Pci: «Non possiamo accettare un processo allo stalinismo fatto dagli staliniani». A sua volta, il Psi avrebbe finito per vivere con disagio l’indipendenza politica e l’autonomia culturale di Merlin. Né si sarebbe svolta diversamente – in anni a noi più vicini – la vicenda dei rapporti fra Anselmi e quanto restava della Dc.
Al patriarcato della Repubblica, alcune di queste donne pagarono un prezzo altissimo anche in termini strettamente personali: nell’incontro-scontro fra la loro vita pubblica e la loro privata. Teresa Mattei e Marisa Ombra furono sospinte ai margini del Pci dalle loro relazioni con uomini già sposati, mentre Nilde Iotti – la compagna di Togliatti – dovette accettare l’«amara felicità» di un amore impossibile da vivere apertamente, il segretario del Pci restando ufficialmente coniugato con Rita Montagnana. Quanto a Teresa Noce, ripetutamente tradita dal marito Luigi Longo («Gallo» non solo in battaglia), apprese del suo proprio divorzio da un articolo del «Corriere della Sera». Falsificando carte e firme, Longo si era organizzato per divorziare da lei nell’aula compiacente di un tribunale di San Marino.
Non tutte le donne della Repubblica ebbero a fianco un marito come quello di Ada Prospero, il cui profilo è stato delicatamente tracciato – nel volume del Mulino – da Eliana Di Caro. Il 23 agosto 1919, Piero Gobetti aveva scritto in una pagina di diario: «Se fossi costretto a pensare per un momento la differenza di sesso come differenza di capacità spirituale non so qual senso pauroso di desolazione proverei, forse il mio cuore sarebbe infranto».