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Carla Ravaioli
Le lagrime del Sud non fanno notizia
12 Settembre 2008
Articoli del 2008
Le castrofi nel Sud del mondo fanno notizia solo se colpiscono occidentali. E di frnte alla crisi del globo la sinistra è rassegnata. Il manifesto, 12 settembre 2008

“Piove sul bagnato”, era il titolo d’apertura del “manifesto” di domenica scorsa. A illustrarlo, la foto di una cordata di persone con l’acqua alla cintola. A spiegarlo, il sommario che diceva di 530 vittime ufficiali (ma certamente molte di più) nella poverissima Haiti, ripetutamente colpita da violente tempeste tropicali. Commento: “Ma nel mondo non fa notizia”.

Ch’io sappia è la prima volta che un giornale, con tanta evidenza e così decisa condanna (all’interno suffragata poi dall’ampia descrizione di un paese afflitto anche in condizioni “normali” da miseria e sfruttamenti inauditi), sottolinea il fatto che le catastrofi ambientali (quelle stesse che trovano vastissimo spazio e sensazionale risonanza se lo tsunami si abbatte su riviere fitte di turisti occidentali, o Katrina colpisce un simbolo della mitologia americana come New Orleans, o Gustav mette a rischio la convention repubblicana) vengono di fatto ignorate quando offendono paesi del sud del mondo, esclusi dal novero di quelli che contano, estranei al circuito dei mercati forti, privi di risorse pregiate che gli consentano di “emergere”, da sempre soggetti a tutte le maledizioni. Basta buttare un occhio su “Il diario della terra”, rubrica per cui mezzo ogni settimana meritoriamente “L’Internazionale” dà notizia di questi eventi: sempre sono decine, ma spesso centinaia o migliaia di morti, e centinaia di migliaia di profughi, senza tetto, senza cibo, senza meta. Ma tutto questo appunto non fa notizia. Venti righe nelle pagine interne di qualche quotidiano, quindici secondi in coda a un telegiornale, è il massimo che ne segue. Quando va bene.

Nulla di che stupirsi, si dirà: da sempre morti e calamità “valgono” di più o di meno a seconda di chi ne soffre. Ma la cosa non appare più così semplice, se si confronta con una serie di altri fatti o comportamenti collettivi riguardanti il rischio ecologico. I poli si sciolgono, ma di che mai lamentarsi: li si potrà circumnavigare con ampie prospettive di un nuovo boom turistico, e sarà finalmente facile l’accesso ai sottostanti preziosi giacimenti di gas, petrolio, uranio; peccato certo per i poveri orsi che da mesi continuano a nuotare senza trovare approdo, ma dopotutto anche una lacrima serve a coronare teneramente la narrazione dei fatti. E se i mari inquinati e supersfruttati non hanno più pesce, in compenso prosperano le acquaculture; se poi il loro livello continua a innalzarsi, l’Olanda già va progettando coste artificiali e case galleggianti; alcuni arcipelaghi in Oceania sono già sommersi, ma nessuno ci fa caso. L’automobile ancora e sempre insostituibile simbolo del nostro tempo, rimane protagonista nei mercati come nell’immaginario collettivo, benché notoriamente tra le cause prime di ciò che i giornali annunciano, vistosamente titolando “Il pianeta ha la febbre”. D’altronde tutto questo significa tanto buon Pil, che (mentre le borse crollano, i consumi ristagnano, la benzina è alle stelle, potenti banche falliscono e - udite udite! - tocca allo stato salvarle, e insomma la crisi a lungo negata è ormai tra noi) scalda i cuori di economisti e politici e riaccende le speranze. Come sciuparle, soffermandosi sulle sciagure di Haiti e altre terre iellate? Bush, che censura i più allarmati rapporti del Pentagono sulla crisi ecologica, fa scuola. “La crescita innanzitutto”, è l’articolo di fede che tutti fanno proprio e con stentorea certezza rilanciano. Da destra come da sinistra.

Ed è questo che mi è difficile capire. Se il capitale insiste nelle politiche che l’hanno portato a conquistare il mondo, e con pertinacia e disperazione ad esse si aggrappa anche quando sempre meno si rivelano paganti, sempre più contrastate come sono nel loro obiettivo primario e imprescindibile (la crescita appunto, l’accumulazione) dai confini stessi del mondo che dominano: tutto ciò appartiene a una “necessità” difficile da negare, anche se sempre meno pagante. Ma le sinistre? Anche tra loro, fatta eccezione per piccoli gruppi ambientalisti, la crescita è una indiscutibile, perfino ovvia necessità. E su questo spesso mi trovo a scontrarmi di brutto anche con amici, ai quali porto stima e affetto.

Penso ad esempio a Galapagos, un amico appunto, che in un recente fondo (“Sotto i debiti”, 3 settembre) dopo un ampio giro d’orizzonte sul calo dei consumi che tocca più o meno tutti i paesi e sulla conseguente generale contrazione della crescita, si sofferma a considerare che “fra i lettori del manifesto ci sono molti sostenitori della ‘non crescita’, fautori della qualità della vita più che dell’ espansione illimitata del Pil”. “E di ragioni ne hanno,” ammette. Ma, aggiunge, “in un paese come l’Italia ci sono macro aree che necessitano di crescita quantitativa per colmare gap storici di redito e sviluppo”. Ora, a parte che tra i fautori della qualità della vita più che della crescita ci sono non solo lettori ma anche redattori e collaboratori del manifesto (basti pensare alla eccellente rubrica “Terra-terra”, firmata per lo più da donne, la bravissima Marina Forti in testa) davvero è plausibile sperare che l’insistenza nella medesima logica economica fin qui osservata possa sanare il guasto da essa prodotto? Se lo sfruttamento più che mai esoso del lavoro caratterizza lo strenuo tentativo del capitalismo neoliberistico di rimettersi in equilibrio? Se negli ultimi decenni, mentre il Pil poco o tanto continuava a salire, aumentavano precarietà e disoccupazione, gli orari di lavoro si allungavano, crescevano le distanze tra ricchi e poveri, non solo a livello internazionale ma anche all’interno dei paesi più affluenti? E oggi l’1% degli abitanti del mondo ne possiede il 50% della ricchezza?

Ma (sapendo di rischiare impopolarità e forse reazioni negative tra persone sinceramente impegnate per “un mondo migliore”) credo si debbano considerare anche altre posizioni. Un esempio. Non ho seguito personalmente il forum torinese di “Sbilanciamoci!”, ma ne ho letto ampie cronache e dettagliati compendi delle “Cento proposte per il bene comune”, cioè della “Controfinanziaria” come ogni anno elaborata dal gruppo, e in sostanza (quasi) tutta condivisibile. Come non essere d’accordo con chi auspica migliori scuole, sanità, trasporti pubblici, case popolari, tasse sulle emissioni inquinanti, e dichiara di volere “equità sociale, sostenibilità ambientale, pace e solidarietà internazionale”?

Rimane tuttavia difficile capire come si pensi di realizzare tutto ciò in un solo paese, prescindendo - parrebbe - dal fatto che questo paese, come l’intero pianeta, è governato dal neoliberismo (mentre mostrano di saperlo benissimo gli operai che in Italia, in Polonia, in Serbia, in Bangladesh, lavorano per la Fiat, e proprio al Forum di Torino ne discutono concludendo: “I problemi sono uguali in tutto il mondo”). Senza dunque rimettere apertamente in causa un modello economico che, in tutto il mondo appunto, sempre più brutalmente va depredando la natura e sfruttando il lavoro, e ormai solo nella guerra vede lo strumento per rilanciare la crescita e mantenersi vincente. Che è quanto, sempre a Torino, hanno denunciato uno scienziato dell’ambiente, Luca Mercalli, e uno scienziato della politica, Marco Revelli: chiedendo il primo la fine della crescita, il secondo un netto cambio di paradigma.

Questo oggi a me pare l’handicap più grave di tutte le sinistre (quelle che restano e ancora hanno il coraggio di chiamarsi così). Una sorta di rassegnazione che sembra dare ormai il capitale come un fenomeno metastorico, una realtà immodificabile quindi, un destino ineluttabile. Cui segue il ripiegamento su una politica piccola, frantumata, operante per singoli temi, incapace di confrontarsi con i problemi che (come ha detto la piccola internazionale di operai Fiat allo stesso Forum Sbilanciamoci) sono di tutto il mondo.

Conseguenza inevitabile della sconfitta? Certo, le botte pesano. Ma a volte possono servire a ripensare le linee guida seguite finora, e magari rimetterle in causa, a confronto con una realtà sociale economica culturale ambientale clamorosamente trasformata e in continua trasformazione, su tutto il pianeta.

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