Connectography nel quale analizza il rapporto tra cooperazione e competizione nella geoeconomia». il manifesto, 17 novembre 2016 (c.m.c.)
Parag Khanna può essere considerato un enfant prodige della geoeconomia, novella disciplina che cerca di spiegare i conflitti globali a partire dalle dinamiche e dalla resistenze che incontra il neoliberismo. A questa espressione Khanna preferisce invece quella di capitalismo supply chain, cioè della centralità che hanno la distruzione delle merci a livello globale. I suoi saggi hanno fatto molto discutere.
Indiano di nascita, saggista prolifico ha pubblicato per Fazi I tre imperi. Come si governa il mondo, mentre Codice ha mandato in libreria L’età ibrida, firmato con Ayesha Khanna. Parag Khanna sarà sabato a Milano dove parteciperà a Book city, presentando il nuovo saggio Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale (Fazi editore, pp. 613, euro 26). Affabile, si è mostrato subito disponibile per un’intervista con un giornale leftwing, cioè non proprio in linea con quanto esprime nel libro.
Connectography può essere letto come un libro sulla fine della sovranità nazionale e sul declino del «sistema mondo» emerso dopo la Seconda Guerra mondiale. Concorda con questa interpretazione?
Connectography è un saggio che affronta la «rivoluzione» rappresentata dalla tendenza, in qualche misura inarrestabile, a quella che chiamo la connettività globale, intendendo con questo la stringente interdipendenza economica, politica e sociale tra gli stati. È una tendenza secolare, che ha però subito una accelerazione con la caduta del Muro di Berlino, il collasso dell’Unione Sovietica, l’affermarsi del capitalismo su scala globale. Infine sarebbe difficile parlare di Connectography senza fare riferimento a Internet, primo esempio di un dispositivo che svolge una funzione non solo di comunicazione, ma anche di coordinamento a livello internazionale.
Tutti questi elementi hanno contribuito a disegnare una nuova mappa delle connettività dove è vigente una gerarchia di potere più stringente di quella del passato nella relazione tra gli Stati. Questo non significa che finisce la sovranità nazionale. La realtà contemporanea vede semmai una maggiore competizione tra gli Stati per esercitare la loro influenza nella connettività globale a partire dalla loro «specializzazione». Così gli stati produttori di energia cercheranno di acquisire potere, facendo leva sul fatto che forniscono petrolio o gas naturale ad altri paesi. Lo stesso si può dire per chi produce manufatti tecnologici: perché il mondo della connettività globale sarebbe una suggestione se non fosse all’opera una catena globale delle merci che usa gli stati nazionali per funzionare a dovere.
I confini e le frontiere sono stati lo spazio economico e politico che ha regolato i flussi di capitale, di merci e di uomini e donne. Spesso i confini sono violati, aggirati da uomini e donne che esercitano il loro diritto a spostarsi, considerando la mobilità un diritto inalienabile. Lei che ne pensa?
Da sempre le società sono state «alterate» dalla presenza dei migranti. È un fenomeno che è sempre esistito, così come è sempre accaduto che le società ospiti siano riuscite ad assimilare gli «stranieri». Potrei citare l’esperienza della mia famiglia o di me stesso, ma non credo che questo aiuti a fornire una risposta. Quel che posso dire è che in Europa negli ultimi due anni si è parlato spesso di emergenza migranti paventando una invasione ostile alla civiltà europea. C’è stata cioè una diffusa reazione di rigetto che ha rimosso un fattore fondamentale: il ruolo importante del lavoro dei migranti nei paesi europei, Italia compresa.
Questo se ci riferiamo all’Europa. Se allarghiamo però la prospettiva dovremmo affrontare il tema di come sta cambiando la geografia sociale, le migrazioni di centinaia di milioni di persone (alcuni studi parlano di quasi due miliardi di persone in movimento) che si spostano da un paese all’altro nel Sud est asiatico e in Africa. Nessuno da quelle parti parla di invasione. Da questo punto di vista il caso europeo è quasi marginale rispetto a questo trend globale.
La libera circolazione dei capitali è spesso considerata una delle cause dell’impoverimento delle società e della crescita delle diseguaglianze sociali. Cosa ne pensa?
Preferisco parlare di cattiva allocazione di capitale per spiegare la crescita delle diseguaglianze sociali. Il commercio e gli investimenti sono essenziali per garantire la crescita economica dei paesi, sia di quelli ricchi che di quelli poveri. Il problema è dunque come governare la distribuzione e l’allocazione dei capitali. Per me, il problema non è il capitalismo, bensì la cattiva regolamentazione dell’attività economica con politiche fiscali e sociali sbagliate.
Nel nuovo ordine mondiale, i Big Data, il web, la comunicazione sono importanti settori dell’economia mondiale. Molte imprese che sviluppano software hanno base negli Stati Uniti. Lo stesso per la progettazione dei microprocessori: sono cioè espressione di una perdurante egemonia statunitense?
Le maggiori imprese sono certo americane, ma ci sono anche società coreane, cinesi, giapponesi. Tra esse la competizione è massima. Poi ci sono imprese come Google, che offrono gratuitamente i loro servizi, consentendo così una riduzione dei costi di altre attività economiche e lo sviluppo di prodotti innovativi. Più che parlare di egemonia statunitense, preferisco parlare della tecnologia made in Usa come un’utility.
Nel suo libro, lei scrive della diffusione delle zone economiche speciali: esempi di una ridefinizione della sovranità nazionale?
Le zone economiche speciali sono il risultato di scelte politiche nazionali. Vengono scelti dei partner interni e «stranieri» per favorire investimenti nel paese. Tutto ciò è finalizzato alla crescita economica interna e allo sviluppo di infrastrutture che possono rendere il paese ulteriormente attrattivo per investimenti di capitale. Questo favorisce anche l’aumento di lavoratori qualificati, facendo diventare quel paese un nodo delle catene globali del valore. Non sono quindi d’accordo con chi parla delle zone economiche speciali come esempi di sfruttamento dei paesi ricchi verso i paesi poveri o emergenti, bensì come un esempio di quella connettività globale alla quale facevo riferimento.
Cina, Brasile, India, Russia, Sud Africa sono stati indicati come paesi emergenti nella nuova geografia economica. La crisi del 2008 ha però cambiato le carte in tavola. Non possiamo dunque considerare la «Connectography» come la mappa di una sovranità imperiale in formazione?
Preferisco parlare di una mappa delle connessioni che legano le metropoli e le città del mondo. I Brics non sono una categoria importante. È più importante capire quali siano i link tra New York, Londra, Singapore, Dubai, Lagos, Hong Kong che non sapere se uno dei paesi dei Brics è emergente o meno. Le mappe del potere futuro o di quello contemporaneo possono emergere da come saranno strutturati questi legami, quali le gerarchie metropolitane che emergeranno, quali funzioni svolgeranno nel flusso globale di capitali e merci. E di come queste città distribuiranno la ricchezza accumulata nel resto dei paesi dove sono collocate.