Ilvo Diamanti nel numero di domenica 24 agosto di Repubblica ha restituito un quadro disastrosamente efficace dell´estraneità dei cittadini nel contesto della situazione insediativa che si è verificata negli ultimi anni, descrivendo la colossale espansione delle costruzioni per abitazioni in Italia: con scarsissimo riguardo per quelle dei meno abbienti ovviamente. Il consumo sistematico (ma senza regole) del bene finito del territorio e la distruzione del paesaggio urbano e naturale si accompagna alla scomparsa delle relazioni sociali e dello spazio pubblico a cui fanno riscontro, come egli scrive, «le notti bianche e gli eventi di massa». Tutto questo assume poi il carattere fisico di quella che gli urbanisti chiamano la città diffusa, una sorta di periferia infinita a media densità servita da abbandonanti infrastrutture di trasporto e tecnologiche.
Dentro alla città diffusa, poi, gli spazi aperti come spazi pubblici di relazione, sono considerati in generale luoghi inospitali e sovente pericolosi, tanto che ad essi va sostituendosi il grande interno privatizzato e sorvegliato, luogo di incontro motivato dallo «shopping» sociale: il centro commerciale, lo stadio di calcio, ed in generale i luoghi dove si celebra la competizione o di divertimento.
Qualche architetto ha teorizzato sciaguratamente (ma anche con cinico realismo) che non resta più «nessun qualcosa» di collettivo nella città, anzi che va teorizzata una «città generica» rappresentazione del nuovo populismo mercantile della condizione debole del consumatore e della finanza globale forte. Come è giusto dal punto di vista dello studioso di sociologia, Ilvo Diamanti ci restituisce un ritratto preciso della nostra condizione post-sociale; ma sarebbe giusto che invece, dal mio punto di vista di architetto, si tentasse di individuare anche qualche altra responsabilità: istituzionale (cioè politica) e disciplinare (cioè dei progettisti), oltre a quelle ovvie degli interessi dei proprietari dei terreni, degli immobiliaristi e delle banche alle loro spalle.
La prima di queste responsabilità riguarda l´ideologia della deregolazione che coinvolge insieme, in modi diversi, istituzioni e progettisti da più di una ventina di anni. I modi sono diversi anche nelle relazioni tra i due aspetti, relazioni spesso gestite da chi ha l´effettivo potere economico sulle realizzazioni. Basterebbe osservare lo sviluppo delle periferie delle città grandi e piccole che, al di là di qualche rara eccezione, muovono perfino con entusiasmo verso lo «sprawl». Si tratta di una iniziativa molecolare rapidamente organizzata e sospinta dall´ossessione della casa singola in proprietà non meno che dagli alti costi dell´abitazione nei centri urbani. Ma si tratta anche della ideologia del privato e dello sviluppo senza pianificazione e ragionevolezza collettiva. È questo ciò che sembra aver spento ogni senso del dovere dei gestori delle comunità, di formulare ipotesi (sia pure flessibili) sul futuro dei propri territori soprattutto nella scala vasta, al di là dei divergenti e soventi astratti confini comunali. L´insensato consumo del ben finito dei suoli, che quando sono rimasti liberi divengono solo resti in attesa di occupazione, è anche colpevole degli altissimi costi di infrastrutturazione a causa dei contraddittori indirizzi delle amministrazioni territoriali e della distruzione per inglobamento di quella straordinaria ricchezza (specie nel caso della tradizione europea), che è la fittezza dei piccoli insediamenti storicamente dotati di identità urbana, saggiamente distanziati e che proprio le tecniche delle comunicazioni immateriali potrebbero rendere altamente produttivi nella rete delle loro singolarità.
Tutto questo non assolve naturalmente le colpe numerose che possono essere attribuite ad una pianificazione che a sua volta è stata sovente ideologica e progressivamente sempre più burocratica, che ha mostrato gravi difficoltà a divenire flessibile ai mutamenti delle condizioni pur tenendo saldi principi ed obiettivi (i principi dell´urbanistica contrattata richiedono un´alta consapevolezza sociale del bene collettivo che è andata, come scrive giustamente Diamanti, del tutto smarrita o puramente condominiale) costruendo sempre più forti cesure nei confronti dei problemi del disegno dell´architettura della città.
E qui si rileva l´altro aspetto delle responsabilità degli architetti, concentrati sugli aspetti di novità formale del singolo prodotto molto sovente alla ricerca della novità come bizzarria, che hanno dimostrato un progressivo disinteresse per il disegno dello spazio abitabile tra le cose, sospinti anche dalla esasperante lentezza burocratica e dalla cesura in uso tra piani (quando ci sono) e progetti, e premiati invece dal valore di immagini di marca (politiche o private) rappresentate dallo spettacolo dell´architettura trasformata in oggetto ingrandito.
Ma qui, per capirne le ragioni, è necessario tornare alle riflessioni di Diamanti sullo stato di omogeneità disgregante che le nostre società stanno attraversando.