Alla vigilia dei probabili accordi fra Comune e Difesa, una riflessione alta sul ruolo di un patrimonio pubblico, che a uso pubblico dovrebbe sostanzialmente servire, in tutte le città. La Repubblica Milano, 19 agosto 2013 (f.b.)
Le caserme abbandonate non sono come le aree industriali dismesse. Sono spazi pubblici destinati alla servitù militare che ora tornano nella disponibilità dei cittadini. Non è una differenza da poco. Prima di tutto perché il loro futuro può essere deciso con una libertà molto maggiore, non essendoci in gioco interessi privati e quindi, giocoforza, la necessità di mediarli con l’interesse pubblico. In secondo luogo perché, a differenza che per le vecchie fabbriche, le vecchie caserme sono un territorio vergine, tutto da esplorare per la comunità civica. Chi ha avuto la fortuna di partecipare, nell’inverno 2011, all’anteprima di Piano city alla caserma di via Mascheroni sa a cosa si allude: un momento magico, una piccola città nella città dove il tempo si è fermato, spazi immensi e carichi di suggestione, infiniti sotterranei con gli archivi di generazioni di reclute.
Un ambiente nascosto alla città per decenni che ritrova una vita nuova attraverso la musica, che per una sera diventa padrona di un campo una volta occupato da ordini, divise, armi, sofferenze. Leggendo i nomi sconosciuti di questi luoghi risalta ancora di più questa distanza: Milano ha tollerato la presenza di infrastrutture militari sul suo territorio ma, a differenza di altre città — si pensi a Torino o a La Spezia — non ne è mai rimasta condizionata o prigioniera. Sara stato per via delle cannonate di Bava Beccaris al popolo affamato, o semplicemente perché questa è la città del 25 aprile partigiano.
Ma non c’è dubbio che Milano non sia mai stata prona alle divise o incline alla retorica militare. Anche per questo l’occasione di ripensare questi luoghi, di immaginarne altri usi e destinazioni è straordinariamente importante. Per la giunta Pisapia può rappresentare una grande scommessa anche nella modalità di approccio alla loro ridestinazione. Quale occasione migliore di sperimentare la via di una progettazione condivisa e partecipata? Per esempio immaginando una raccolta pubblica di idee e proposte per la grande area verde della Piazza d’armi ex Santa Barbara. O recuperando progetti di grande impatto, come l’idea dell’orto planetario lanciata, e poi abbandonata per Expo 2015, magari coinvolgendo il forum delle culture e delle comunità straniere.
E ancora: visto che il complesso militare delle vie Monti, Mascheroni e Pagano dovrebbe diventare la nuova sede dell’Accademia di Brera, perché non testare la possibilità di destinare parte di quegli enormi spazi a un villaggio per giovani artisti? A una specie di grande atelier che richiami talenti e intelligenze creative da tutto il mondo? O destinare una di queste strutture, naturalmente trasformata, a quel grande museo del «saper fare» l’automobile di cui Milano è stata capitale con l’Alfa, la Bianchi, l’Innocenti, l’Iso Rivolta, le carrozzerie Touring, Zagato, Castagna?
La possibilità di programmare un nuovo destino per edifici, complessi e spazi di centinaia di migliaia di metri quadri in aree centrali di Milano, senza vincoli dettati da interessi immobiliari (o principalmente dettati da questi) rappresenta un’opportunità probabilmente unica. Certo, è giusto immaginare che parte di queste risorse sia destinata all’edilizia popolare. Ma sarebbe un grave errore limitarsi a questo e non cogliere la grande occasione di indicare insieme ai cittadini un percorso verso una città più creativa, più aperta, più libera. Più desiderabile.