DOPO MARGHERA
L'ambizione di un'alternativa
di Luca Casarini e Gianni Rinaldini
Dopo la straordinaria due giorni di Marghera, potremmo lasciarci cullare dalla soddisfazione collettiva che ha invaso i luoghi del meeting e che ha accompagnato ognuno nel viaggio di ritorno verso casa. Non è cosa da niente, di questi tempi, poter essere soddisfatti di una scommessa politica e culturale che per noi si chiama uniticontrolacrisi. Ma indugiare troppo non ci è concesso, sarebbe come premere il tasto della pausa e trasformare un film appena iniziato in una fotografia: bellissima, ma ferma. Sia chiaro, non foss'altro per tutti quelli che si sono dannati per far riuscire l'appuntamento al meglio, la prima cosa è essere contenti di com'è andata. l numero delle persone che sono state «attratte», e non cooptate o obbligate, a partecipare (perché la nostra pratica della democrazia non ha niente a che fare con le pratiche di Marchionne), è un fatto importante. La qualità di questa presenza, espressa non solo attraverso quasi duecento interventi, ma anche e soprattutto in un modo di stare insieme fondato più sulla pazienza che sulle pretese, animato dalla disponibilità e non sul pregiudizio, ha creato il «clima». È opera di tutti quello che è potuto succedere: di un modo di pensarla, prima, questa occasione di incontro, e di come di essa ci si è collettivamente appropriati poi. Se la pratica del comune è innanzitutto esemplarità e non linea o modello, va da sé che Marghera segna una tappa di riferimento fondamentale. La formalità rituale che queste cose si portano dietro, anche se uno non vuole, perché è difficile e complesso trovarsi in tante e tanti e discutere, prendere delle decisioni, essere aperti ma non vaghi, includenti e non ambigui, ha avuto come correttivo la fiducia reciproca.
Un'altra cosa che, come la pazienza, non assume mai la dignità di categoria della politica, restando confinata nel recinto delle cose che si dicono per intendere il contrario. A Marghera no. L'abbiamo tutti voluta usare, la fiducia, in dosi massicce, come precondizione per poterci parlare, di nuovo o per la prima volta. È l'intelligenza collettiva che ci dice di fare così. La situazione che stiamo vivendo impone di mettersi sul serio a costruire una storia nuova, e se non ne sentiamo l'urgenza, o se pensiamo che per farlo basti allargare le nostre biografie di partenza, allora non c'è nulla da fare: non incontreremo mai nessuno in mezzo alla folla, e continueremo a chiederci perché la gente non capisce e le cose non cambino mai. Abbiamo, dopo Marghera, iniziato un percorso di accumulo che deve diventare amplissimo: sensazioni, contatti, scambi, confronti, questioni, obiettivi, linguaggi. Tutto ciò che concorre a costruire un sentire condiviso dove il rapporto tra singolarità e collettivo sia non solo possibile, ma visibile. Come diavolo dovrebbe fare ad esserlo? Non c'è solo il rifiuto condiviso della privatizzazione, ma anche un'evoluzione che arricchisce il concetto di pubblico: il discorso che abbiamo cominciato è immediatamente rivolto dentro di noi, alla soggettività che contribuisce a formarlo, e fuori di noi, a una società intera.
Ha l'ambizione di essere una proposta di alternativa. A Marchionne e alla Gelmini, alla privatizzazione dell'acqua e al nucleare. Alle ingiustizie che costruiscono, tragedia dopo tragedia, la crisi e la rendono, nel suo incedere senza uscita, insopportabile. Ma anche un'alternativa a noi stessi, a come abbiamo fatto e pensato fino ad ora, a come abbiamo subito e ci siamo arresi. Sta in questo il grande interrogativo che ci siamo posti sulla democrazia, che ha attraversato ogni riflessione, ogni dibattito. E sulla politica, che come la crisi, pretenderebbe di risolvere i problemi riproponendo i meccanismi che li hanno generati, invece che tentare di superarli.
La pratica di un comune sociale che vive dentro le modificazioni epocali del lavoro, del suo divenire vita messa al lavoro, del suo essere espropriato di ogni diritto e ogni garanzia, e che vuole definire un comune politico capace di dire di no come a Mirafiori e di dire di sì come per l'acqua bene comune, di tracciare degli obiettivi che disegnino la traiettoria di un'alternativa al capitalismo della crisi e dello sfruttamento, è anche, un'alternativa al modo di rapportarci con la rappresentanza e la sua crisi. Senza delegare niente a nessuno, semplicemente perché la posta in gioco è più alta e più seria. La crisi di questo paese, la delegittimazione delle istituzioni, la crisi della politica, devono diventare l'occasione, anche qui, per costruire una nuova storia, dove il protagonismo sociale delle lotte non sia affidato a chi lo dilapida in cose già viste e già sconfitte.
Ci siamo lasciati con appuntamenti importanti: primo fra tutti il 28 gennaio, a fianco della Fiom. Non diamo per scontato che tutto sia semplice, e inventiamoci, ognuno e tutti insieme, come far sì che ogni piazza, ogni presenza a sostegno di questa battaglia, diventi anche un contributo alla costruzione di un percorso includente. Per far questo ci vuole l'umiltà di chi non ha nulla da insegnare e molto da offrire, di chi ha chiaro che parlare e farsi capire da decine di migliaia di persone in carne e ossa, non è la stessa cosa che discutere tra amici di vecchia data. Ma siamo certi che con questo atteggiamento, anche le fabbriche diverranno luoghi dove gli studenti andranno a fare assemblee, e all'università i delegati operai non saranno come gli ospiti stranieri.
Siamo convinti che di riconversione produttiva in senso ecologico cominceremo a parlare con chi lavora dentro le industrie che inquinano, come di mobilità sostenibile con gli operai dell'auto. Ma niente è facile o già fatto, e tutto dipende da noi, sia che siamo dentro la Fiom o in un centro sociale, sia che militiamo in un'associazione ambientalista o contro il razzismo. Ecco, Marghera è già passata, non abbiamo tempo. Il film riprende e nessuno ha ancora visto il finale. Dovremo scriverlo insieme.
MARGHERA
Il 28 gennaio inizia il viaggio contro la crisi
di Loris Campetti
La cosa più grave di questa stagione non è tanto la crisi globale, di sistema, quanto piuttosto la ricetta scelta dai poteri forti mondiali e dai governi per uscirne fuori. I criteri, e le persone fisiche che guidano il processo di redistribuzione dei poteri, delle regole e della ricchezza sono gli stessi, neoliberisti, che l'hanno provocata. C'è un solo pensiero - per semplicità lo chiamiamo pensiero unico - dietro l'operazione autoritaria che cancella i diritti sociali, del lavoro e di cittadinanza e al tempo stesso riprone un modello di sviluppo energivoro diventato incompatibile con l'ambiente e con la democrazia. Un modello che inquina il territorio (fino a militarizzarlo con il nucleare, a cementificarlo con Tav e ponti improbali, ad armarlo con le basi americane) e l'ambiente con il suo percolato di veleni e di mafie.
Se fosse così, e se la percezione di questo disastro fosse diffusa, sarebbe normale che alla preparazione e alla realizzazione di uno sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici a cui si vuole cancellare dignità e soggettività, partecipassero tutti i soggetti e le figure sociali colpite dalla crisi e schiaffeggiate dalle ricette autoritarie neoliberiste. Qualcosa di simile sta realmente avvenendo intorno all'appuntamento di venerdì della Fiom. Ma non è normale bensì straordinario, quasi rivoluzionario, che la Fiom partecipi alle assemblee nelle università con studenti e precari, o che indìca manifestazioni insieme ai comitati che si battono contro le discariche, o propongono diversi consumi, diversa mobilità e la salvaguardia dei beni comuni. Altrettanto straordinario è che una città, Torino o almeno la sua parte migliore, torni in sintonia con i suoi operai e prepari in grande il ringraziamento ai carrozzieri di Mirafiori che con i loro no - e persino con molti sì costretti - hanno difeso la dignità di tutti dai diktat di Marchionne. O che gli studenti romani della Sapienza si organizzino per andare a Cassino a manifestare insieme agli operai della Fiat in sciopero, o quelli partenopei a Pomigliano, o quelli siciliani a Termini Imerese. È straordinario che in tanti centri sociali, da Jesi a Palermo al Nordest, si riuniscano in affollatissime assemblee le vittime della crisi per far crescere la partecipazione alle manifestazioni della Fiom in ogni regione italiana, in ogni luogo della crisi produttiva o democratica.
Certo, non è la prima volta che gli studenti vanno a volantinare davanti alle fabbriche, o che gli operai e i sindacalisti intervengono nelle scuole e nelle università. Ma è la prima volta che questo avviene non per pura solidarietà, sentimento peraltro nobile e da valorizzare come ha precisato Maurizio Landini a Marghera, ma per condizione sociale. La distruzione del lavoro, dei diritti, del sapere, della cultura, della libera informazione, la precarizzazione di massa che impedisce a più di una generazione ormai di progettare il proprio futuro, se da un lato tenta di scatenare una guerra tra poveri, tra generi, tra lavoratori dei nord e dei sud dei mondo, dall'altro lato rende più simili figure diverse colpite allo stesso modo.
Questo piccolo miracolo sostenuto dall'esperienza di Uniti contro la crisi è solo l'inizio di un cammino che potrebbe essere lungo, sicuramente difficile e contraddittorio. A renderlo difficile è il suo pregio: non punta sulla sommatoria di culture esperienze e sigle diverse, non è l'ennesimo, stucchevole intergruppi. Come dicono oggi sul «manifesto» le due persone che più hanno lavorato alla costruzione di questo «caravanserraglio» (luogo di accoglienza di chi migra e dunque cammina), bisogna costruire una cultura, dei linguaggi e delle pratiche nuove comuni. Buon viaggio e buon 28 gennaio.
FRONTE DEL PORTO
Ora Marghera progetta futuro
di Rocco Di Michele
Il «modello Marchionne» mette in movimento anticorpi sociali imprevisti. Prende il via un percorso di unificazione delle lotte: metalmeccanici, centri sociali, No Tav, No dal Molin, precari, ambientalisti... Perché i beni sono «comuni»
Tirare le somme del meeting di Marghera può esser semplice o difficilissimo. Nel primo caso si rischia di perdere il dettaglio, nel secondo il dato unitario. Fortissimo.
Mettere insieme i metalmeccanici della Fiom, i centri sociali, gli abitanti de L'Aquila, i No Dal Molin, i No Tav, gli ambientalisti di lungo corso e i «guerrieri di Chiaiano», era una scommessa quasi azzardata. Ma un passo deciso in avanti, sulla strada del «conoscersi reciprocamente» - anche lasciandosi alle spalle pezzi di «identità», evidentemente non decisivi - è stato fatto. Due giorni di discussione hanno messo in primo piano i molti «no» che ogni soggetto sociale aveva pronunciato nella sua lotta, ricavandone però il senso di diversi «sì» che ora diventano quasi dei punti di programma.
Partendo per forza di cose dalla Fiat e dal «modello Mirafiori», tutti hanno capito che prima di poter dire qualcosa in positivo bisogna opporsi a un modello di produzione che cerca di imporsi come modello di società, di stampo apertamente autoritario. Quel «no», insomma, è «costituente». Detto in altro modo, sulla linea di demarcazione tracciata da Marchionne non c'è spazio per gli equilibrismi: si accetta in blocco o la si rifiuta. «Chi sta con lui è contro di noi», ormai è senso comune.
Quasi l'intera politica italiana non ha perciò più nulla da dire a questo popolo che fa i conti ogni giorno con la crisi: «il nostro è un percorso che non delega più nulla alla politica, vogliamo costruire un'alternativa sociale». E un progetto che sappia fare i conti con la realtà brutale di fronte a tutti. «La risposta del capitale alla crisi è un grande rilancio dello stesso modello che ha portato alla crisi», sintetizza Gianni Rinaldini. Una strada che prevede aumento della disoccupazione e - non è un paradosso - aumento dei carichi di lavoro per chi conserva il posto; generalizzazione della precarietà (a livello europeo, «non è diverso da quel che succede nell'Italia di Berlusconi»), superamento dei diritti universali con operazioni corporative (gli asili o la sanità aziendale, il collocamento privato, scuola e università a misura d'azienda, enti bilaterali impresa-sindacato che gestiscono forme di welfare). Un incubo.
Proprio sul welfare la discussione è stata complessa. Tutti d'accordo che occorre avere l'obiettivo del «reddito di cittadinanza», ma «attenti a dire che va sostituito il welfare lavorista con uno tutto diverso, perché questo lo dicono anche Boeri e Ichino». Argomento direttamente connesso alla lotta alla precarietà e che implica una «politica fiscale», non agevole in un paese dove «i padroni» le tasse quasi non le pagano. Un esempio in positivo viene dall'Ilva di Taranto, dove gli operai «stabili» si sono battuti per l'assunzione degli interinali in scadenza.
Più semplice individuare i «sì» partendo dai «beni comuni», categoria che «ha fatto accendere una lampadina nel cervello di tutti noi». Beni che non sono «cose», tantomeno merci; ma ciò che viene individuato come tale nella «pratica» dei movimenti popolari. L'acqua, certamente, su cui ci sarà necessità di organizzare la partecipazione al referendum «accompagnando la gente a votare». Ma anche il ciclo di rifiuti, che ha scosso un Mezzogiorno dalla «subalternità», senza però innescare derive «leghiste» all'incontrario. Beni che hanno e favoriscono un «linguaggio comune», permettendo di aggregare un mare di iniziative altrimenti diverse, ma che bisogna sapere spiegare in modo comprensibile «alla zia Titina». Beni che sfuggono alla trappola della «legalità formale» (a là Repubblica, insomma), «troppo spesso complice del saccheggio» delle risorse o dell'ambiente. Beni che spingono alla partecipazione perché disegna un modello decentrato, mentre - col nucleare, per esempio - il potere cerca la centralizzazione e la militarizzazione.
La formula non è nuova («agire locale, pensare globale»); è nuova la concretezza con cui viene messa in pratica. Dai beni comuni a «contro la proprietà privata» il passo è davvero breve, e si incarna in due nodi: «giustizia sostanziale» e «democrazia». Ma siccome le idee camminano sulle gambe degli uomini, le «organizzazioni politiche ed istituzionali» di questo percorso sono necessariamente diverse da sindacati e partiti per come li abbiamo conosciuti finora.
Le «cose da fare» sono un collante e un discrimine. C'è ovviamente la partecipazione allo sciopero dei metalmeccanici questo venerdì (giovedì per l'Emilia Romagna). Subito dopo la battaglia referendaria sull'acqua, una legge di iniziativa popolare per L'Aquila; e poi un momento specifico per affrontare i problemi dei migranti, l'idea di un seminario internazionale («euro-mediterraneo, visto quel che che sta montando qui vicino a noi»). Con l'orizzonte a Genova, in luglio, quando in tre diverse giornate - 22, 23 e 24 - «oltre alle manifestazioni, dovremo organizzare altri momenti di approfondimento come questo». Insieme ai tanti altri soggetti che, nel 2001, avevano dato vita a una stagione intensa ma purtroppo breve. Stavolta, però, per costruire una continuità ambiziosa: verso un nuovo modello di sviluppo sociale.