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La penisola che si agita
28 Novembre 2010
L'Italia è grande
Emergenza ecologica nel Bel Paese: il neoambientalismo discute come organizzare la Rete. Articoli di Alberto Asor Rosa, Piero Bevilacqua, Paolo Baldeschi, Pierluigi Sullo, Roberto Barocci. il manifesto, 28 novembre 2010

Alberto Asor Rosa, Disastro Italia, ma l’alternativa è possibile

Piero Bevilacqua, Saperi e politica per il bene comune del territorio

Paolo Baldeschi, L'infrastruttura della democrazia partecipata

Pierluigi Sullo, Autonomie locali nella corrente

Roberto Barocci, Poteri forti e «nemici occasionali»

Disastro Italia, ma l'alternativa è possibile

di Alberto Asor Rosa



Se un semplice articolo è in grado di scatenare una risposta così ricca e articolata, vuol dire che i temi in esso sollevati dovevano avere qualche rilevanza (desidero ricordare che, prima di queste quattro risposte, c'erano state quelle di Enzo Scandurra il 20 novembre, e di Paolo Berdini, il 21 novembre, da rileggere insieme con queste; e prima ancora c'erano stati gli interventi di Guido Viale, ai quali mi richiamo nel mio articolo, che anch'essi andrebbero riletti all'interno della medesima sequenza logica e politica). È troppo presto per tirare conclusioni, e anche un bilancio provvisorio sarebbe prematuro. Mi preme invece fissare un paio di punti, affinché il dibattito vada avanti, ma insieme con esso anche un'agenda preparatoria.

1. Tutti sono d'accordo nel segnalare la profonda novità partecipativa e democratica rappresentata in tutta Italia (ripeto: in tutta Italia) dall'esperienza dei Comitati. È bello e importante quel che scrive al proposito Pierluigi Sullo. Affinché le lotte dei Comitati non restino isolate o incomunicabili fra loro, la Rete dei Comitati per la difesa del territorio propone di indire nei prossimi mesi una Conferenza nazionale dei Comitati, con l'obiettivo eventuale, oltre all'interesse estremo di un confronto più ravvicinato e diretto, di mettere in piedi una Rete di Reti. Ci è del tutto evidente al tempo stesso che tale obiettivo potrà essere il frutto solo di una concertazione e preparazione comuni, alle quali ci dichiariamo fin d'ora totalmente disponibili.

2. Le analisi presentate in questa occasione (Scandurra, Berdini, Bevilacqua, Baldeschi) confermano la gravità della situazione ambientale italiana, più esattamente gravità estrema, che può portare al disastro vero e proprio; e al tempo stesso confermano che esistono ingenti forze intellettuali in grado di supportare e integrare efficacemente una risposta che nasca dal basso e si ramifichi ampiamente e con caratteri unitari sull'intero territorio nazionale. A convogliare insieme la ricca esperienza intellettuale dei Comitati e quella degli specialismi «militanti» dovrebbe servire il Convegno nazionale sul «Disastro Italia», che in questi anni stiamo vivendo. Ma, con un occhio ben aperto sul disastro generale, intendiamo sollevare ovunque e con chiunque i temi e gli obiettivi propri del «disastro ecologico e ambientale», ben persuasi che senza di questi neanche il più generale «Disastro Italia» potrà essere opportunamente affrontato e risolto.

Se c'è accordo su questi due punti, non c'è che da mettersi seduti allo stesso tavolo e parlarne. I soggetti ci sono, e quanto mai autorevoli, sia dal punto di vista della presenza e dell'azione sul territorio, sia dal punto di vista delle competenze dispiegate. Da questo punto di vista mi sembra un po' sfalsato l'intervento di Roberto Barocci. Se le cose stessero come dice lui, sarebbe inutile il nostro agitarsi: avrebbero già vinto gli altri. Invece non è vero: bisogna picchiare sodo perché le cose cambino. Ma le cose possono cambiare, e forse stanno già cambiando.

RISORGIMENTO VERDE

Saperi e politica per il bene comune del territorio

di Piero Bevilacqua



Un nuovo ambientalismo è l'arcipelago frastagliato dei comitati e movimenti che in tutti questi anni sono nati a livello locale per contrastare iniziative, centralistiche per lo più (ma non solo) mirate, ad esempio, alla privatizzazione dell'acqua, o destinate a sconvolgere gli assetti ambientali di vaste aree, o a minacciare la salute degli abitanti.

Di queste centinaia di esperienze - che qui non si possono enumerare - credo che il nuovo evocato da Asor Rosa consista essenzialmente in due fenomeni tra loro intrecciati. Il primo attiene alla modalità delle lotte e alla loro organizzazione. In quasi tutti i comitati di cui parliamo - da quello contro la centrale a carbone di Civitavecchia alla «comunità» No-Tav della Val di Susa, per intenderci - il movimento, nato dal basso, da gruppi di cittadini e associazioni, si è organizzato in forme di democrazia deliberativa che hanno inaugurato un modo originale di fare politica. Presidi territoriali in cui i cittadini sono diventati attori autonomi di una prolungata resistenza. La seconda novità consiste nel ruolo che competenze scientifiche, spesso di alto livello, hanno svolto nell'individuare le minacce ambientali ed anche, spesso, nell'indicare soluzioni alternative possibili.

Queste competenze, che si sono messe al servizio dei cittadini organizzati, rappresentano una forma nuova di rapporto tra sapere e politica, tra professioni e democrazia, che meriterebbero una focalizzazione meno occasionale di quanto non si sia fatto. Ma il nuovo ambientalismo, dovrebbe anche caratterizzarsi per qualcos'altro. A mio avviso, dovrebbe oggi fornire una dimensione nazionale alle esperienze e modalità locali e al tempo stesso farsi promotore di un progetto generale di un nuovo modo di utilizzare e vivere nel territorio italiano.

Partiamo dalla configurazione fisica della nostra Penisola. Se noi escludiamo le Alpi, possiamo osservare che la gran parte del territorio abitato è costituito da aree altamente instabili. La Pianura padana è l'enorme catino in cui confluisce la moltitudine dei fiumi alpini, formando il più complesso e intricato sistema idrografico d'Europa. L'ordine di questa pianura è il risultato di opere secolari di bonifiche e regimazioni delle acque da parte delle popolazioni. , la definiva Cattaneo, ora densamente abitata e gremita di costruzioni. Quest'area, dove è insediata tanta parte della nostra economia, non è assolutamente al sicuro dai fenomeni atmosferici estremi che ci attendono nei prossimi anni. Com'è noto, stagioni di grande caldo e siccità e altre fredde o intensamente piovose sono destinate a scandire l'ordine metereologico del nostro incerto avvenire. In Pianura padana ci sono vaste aree sotto il livello del mare, che vengono tenute artificialmente asciutte grazie all'opera di gigantesche macchine idrovore. Il Po, nonostante il saccheggio delle sue acque, ha mostrato negli ultimi anni le esondazioni di cui è capace sotto l'azione di piogge intense. E abbiamo appena visto di che cosa sono capaci anche fiumi minori, come il Bacchiglione.

Ma se noi osserviamo l'intero stivale cogliamo un' altra caratteristica saliente del nostro paesaggio fisico. Una ininterrotta dorsale montuosa, l'Appennino, attraversa l'Italia e continua anche in Sicilia. Come ben sapevano già ingegneri idraulici dell'800, l'Appennino è la chiave di volta dell'equilibrio dell'Italia peninsulare. Le acque e i potenti fenomeni che modellano continuamente i due versanti, tendono a trascinare materiali a valle e ad interrare le aree sottostanti. In una parola, l'Appennino e le alture pedemontane tendono a franare per necessità naturale. Non a caso almeno il 45% dei comuni italiani risulta interessato da fenomeni franosi di varia gravità. Orbene, tale discesa verso valle è stata per secoli controllata e filtrata dall'opera delle popolazioni contadine. Queste oggi sono scomparse. Ma nel frattempo ben oltre il 66% della popolazione italiana si è insediata lungo la fascia costiera dello stivale. E qui si concentrano non solo gli abitati, ma le attività produttive, le infrastrutture, i servizi.

Ebbene, è evidente che all'interno di un territorio di così singolare e complessa fragilità, negli ultimi decenni gli italiani hanno operato - con le loro scelte localizzative, con le loro costruzioni, con gli abbandoni delle aree interne - per creare una condizione futura di altissimo rischio e di certissimo danno. Tutto è stato fatto in modo che in condizione di prolungata piovosità, nel catino della Valle padana o ai margini collinari e pianeggianti dell'Appennino, l'acqua possa produrre alluvioni e frane di eccezionale gravità. Si è operato cioè perché la ricchezza accumulata in decenni di fatica e di investimenti possa essere distrutta in pochi giorni per effetto di eventi eccezionali che si prevedono sempre più frequenti. Così, anche nell'impronta antropica sul nostro territorio, è possibile vedere gli esiti che la libertà sbandierata da un ceto politico famelico e privo di qualunque cultura hanno predisposto per il presente e per l'avvenire dei nostri figli.

Ora, solo avendo bene in mente questo quadro, si può comprendere come, in Italia, la cementificazione di un solo metro quadrato costituisca oggi la sottrazione di un bene comune raro e rappresenti la predisposizione di un danno certo. Il territorio verde, capace di assorbire l'acqua meteorica, dovrebbe costituire agli occhi di tutti gli italiani una risorsa preziosa, da difendere con ogni mezzo, per conservare la ricchezza nazionale storicamente insediata nel territorio. Ma sappiamo che tali perorazioni, sempre necessarie, sortiscono, tuttavia, flebili effetti.

Ciò che oggi il nuovo ambientalismo dovrebbe mostrare è che i territori interni oggi abbandonati, costituiscono aree per la diffusione di nuove economie. Non sono una diseconomia nell'età trionfante dello sviluppo. Nelle colline interne possono risorgere le agricolture tradizionali, le policolture di un tempo, che vantavano una biodiversità agricola (soprattutto di frutta) senza pari in Europa e forse nel mondo. Oggi potrebbero dar vita a produzioni di altissima qualità. Qui è possibile riprendere o sviluppare la selvicultura, producendo legname di pregio, utilizzare in modi ecologiamente compatibili, quantità immense di biomassa. Chi si ricorda, poi, che queste aree sono ricche di acqua, che possono dar luogo a svariate forme d'uso? E quanti allevamenti, ad esempio avicoli, si possono realizzare, bandendo le forme intensive convenzionali? Non dimentichiamo che il paesaggio ereditato dal passato, e che vogliamo difendere, è stato creato esattamente da forme consimili di attività produttive e uso del territorio. I bassi valori fondiari di queste aree consentono inoltre la possibilità di rimettere in sesto grandi dimore padronali, spesso in abbandono, e farne sedi di ricerca scientifica, ostelli per la nostra gioventù. E ovviamente un diverso e meno consumistico turismo potrebbe fare scoprire i mille «tesori sconosciuti» del nostro Appennino.

Io credo che occorrerebbe lavorare con i sindaci, le comunità montane, il sindacato, i nostri giovani, le associazioni di extracomunitari per ricreare queste nuove economie. Gli extracomunitari che oggi vengono cacciati e perseguitati potrebbero fornire un contributo prezioso alla rinascita di queste terre. E il movimento dei comitati potrebbe più operosamente cooperare con altre forze oggi in campo, da Slow Food alla Coldiretti. A tale scopo, ovviamente, è necessario intervenire tanto a livello locale quanto nazionale ed europeo. È ora di finirla, e per sempre, con la teoria neoliberista, finita nell'ignominia di una crisi senza sbocchi, secondo cui lo stato deve limitarsi ad arbitrare le regole del gioco. Lo stato, parte del gioco, deve piegare le regole a vantaggio del bene comune. Il libero mercato porta a rendere convenientissimo trasformare i terreni agricoli in abitazioni o centri commerciali. Ma per per la generalità dei cittadini italiani tale convenienza costituisce una perdita netta e drammatica, opera per il danno certo della presente e delle prossime generazioni. Qui si vede come il mercato è vantaggio immediato e provvisorio per pochi e danno futuro e durevole per tutti. Se lo lasciamo alla sua «libertà» nel giro di un ventennio non avremo più suoli agricoli. E qui si dovrà combattere una battaglia di valore universale, di cui l'Italia, il Bel Paese, può costituire l'avanguardia.

Occorrono nuove leggi, imposte dai cittadini, all'Italia e all'Europa, che rappresentino finalmente di nuovo l'interesse generale, che seppelliscano per sempre l'infausta stagione di un diritto pensato per la libertà delle merci e per gli appetiti disordinati e devastatori dei poteri dominanti.

L’articolo di Piero Bevilacqua è stato postato in eddyburg.it nelle “Opinioni” il 25 novembre 2010



STATUTI E MOVIMENTI

L'infrastruttura della democrazia partecipata

di Paolo Baldeschi



Ovunque in Italia, in molteplici circostanze urbane e territoriali, per motivi simili, fioriscono e sono attivi comitati, a volte effimeri, a volte consolidati localmente come quasi mini-partiti politici. Questa Italia migliore - perché più altruista - esprime quanto esiste nel nostro paese in tema di democrazia partecipata. Dall'altra parte, da parte delle forze politiche, tutte, stanno risposte negative, l'indifferenza o l'ostilità, un comportamento che deriva prima di tutto dall'interesse di una classe ad auto perpetuarsi.

Veniamo alla parte propositiva. È essenziale l'idea che il passaggio sia considerato «bene comune», già lo è secondo la Costituzione. Per questo, una delle proposte cardine della Rete dei comitati per la difesa del territorio è di amministrare questo bene comune sulla base di una carta statutaria, uno «statuto», appunto, fatto delle regole di uso e trasformazione del paesaggio e dei «paesaggi».

Statuto del territorio a livello regionale, perciò, da articolare in tanti statuti locali, a livello di «ambiti», distinti e sovraordinati ai piani, da cui discendano politiche urbanistiche comunali coerenti. Questa potrebbe essere una proposta unificante per la costellazione neo-ambientalista. Una proposta da praticare in forme di democrazia diretta - un esempio in Toscana è lo statuto partecipato di Montespertoli coordinato da Alberto Magnaghi - e da adattare a seconda delle realtà regionali, delle leggi, della qualità delle rappresentanze politiche.

Statuti e movimenti, termini apparentemente contraddittori, ma in realtà i primi possono prefigurare lo sfondo politico, unificante dei secondi, non fosse altro per un conseguente spostamento di potere decisionale verso il basso. Tenendo conto che i secondi, i comitati, ma anche movimenti, associazioni, costituiscono nel complesso una cittadinanza politicamente delusa, propensa ad astenersi dal voto perché non rappresenta se non combattuta dalle forze politiche di destra e di sinistra.

Ma le forze politiche perché sono così sorde? Alla base - come sottolinea Asor Rosa - c'è un capitalismo oligopolistico, colluso con il potere politico, che in Italia si esprime nei grandi gruppi di costruzione e si sostanzia negli appalti, nei sub appalti, nelle ditte mafiose, nelle amministrazioni conniventi, nelle valutazioni ambientali fasulle, nei mancati controlli ... tutte cose note, a su cui è necessario insistere. E alla base della base ci sono le banche che finanziano le grandi opere, le Tav, le autostrade, le ferrovie, i trafori; tanto più costano meglio è, più corrono interessi: rendite sicure perché tutte le perdite sono a carico dello Stato. Business che deve andare avanti, mal che vada a spesa del contribuente.

Ma allora, ci si può chiedere, di fronte a questo moloch cosa possono fare i comitati? In realtà quello che possono fare non è poco, prima di tutto resistere come fece il popolo vietnamita, che conosceva il suo territorio, di fronte allo strapotere militare americano. Poi, come dice Asor Rosa «allargare attorno a sé il consenso popolare». Aggiungo, da professore universitario, svegliando la coscienza dei giovani, non con la propaganda ma mostrando la bellezza (nel senso più pieno del termine), la profondità identitaria del paesaggio, l'unico vero bene non esclusivo, non riservato, aperto all'esperienza di tutti, bene comune appunto.

Tuttavia non si possono omettere i punti deboli della proposta federativa dei comitati. Il fatto è che qualsiasi federazione, qualsiasi coordinamento con finalità in qualche modo politiche richiede un'infrastruttura. E questa infrastruttura suppone ruoli, organizzazione, risorse finanziarie, tutto ciò che in realtà i comitati non possiedono e che è, oltretutto, lontano dal loro modo di essere. Il volontarismo è una fiammata, non un fuoco continuo. Si capisce perciò la decisione (nel convegno tenuto a settembre a Sarzana) del movimento «no consumo di territorio» di rimanere allo stato di movimento - una decisione accompagnata, però, dalla dichiarazione della stanchezza per un lavoro volontario alla lunga insostenibile.

Qui, a mio avviso, potrebbero entrare in gioco le amministrazioni di sinistra, se sono tali non solo a parole e se capiscono che dare ascolto e supporto a movimenti e comitati è l'unica o quasi chance di rinnovamento. Iniziando da fatti semplici: rendere gli atti urbanistici trasparenti e accessibili, in particolare le «conferenze di servizi» dove si consumano i peggiori crimini contro il territorio, sostenere processi partecipativi non istituzionali, rivedere le leggi e i piani - la Rete toscana ha fatto molte proposte circostanziate in proposito, come d'altronde le associazioni ambientaliste tradizionali. In Toscana, l'assessore al territorio, Anna Marson, si sta muovendo in questa direzione e ora la questione fondamentale è se la giunta regionale le darà quel supporto politico che nasce da una condivisione di valori.

Su un piano più generale ognuno può fare le considerazioni che crede. Certo sarebbe interessante se almeno un partito di sinistra non marginale fosse capace di rappresentare questa cittadinanza non rappresentata - diciamo il 10% degli elettori, ma forse sottostimo. Non per tatticismo o per opportunità locale, ma per reale adesione al principio che paesaggio e territorio sono beni comuni. Quindi con un conseguente cambiamento di programmi e di uomini.



DAL BASSO

Autonomie locali nella corrente

di Pierluigi Sullo



La frase chiave dell'articolo sul neoambientalismo italiano è: «... i comitati per la difesa del territorio, variamente organizzati e coordinati, sono una forma nuova di concepire e vivere la democrazia italiana». Finalmente si parla di politica. Già, perché quel che ostinatamente, a sinistra, si connota con il termine di «politica», appartiene sostanzialmente a un altro circuito, separato e superiore a quello dell'azione reale dei cittadini nel paese reale: è il circuito, o circo, della «democrazia dello spettacolo», come dice Mario Pezzella. O, per dirla con Alberto Magnaghi (in Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, importante saggio ripubblicato dopo dieci anni in una versione aggiornata da Bollati Boringhieri), «l'agorà e la politica si allontanano vertiginosamente dalla vita quotidiana, agiscono in un iperspazio globalizzato sempre più inaccessibile, fortificato, un altrove in cui non sono più riconoscibili le forme del comando sul lavoro, le decisioni sui consumi, sulle informazioni, sulle forme riproduttive della vita». A questo comando separato, opaco, corrisponde la politica-marketing affetta, scrive Asor Rosa, da «pressoché totale sordità» nei confronti delle istanze dei cittadini organizzati e, aggiungerei, pressoché totale complicità nei confronti dei «poteri forti dell'economia». Ed è da questo fossato tra vita quotidiana e democrazia dello spettacolo che nasce la resistenza capillare, tenace, paziente (che sa cioè costruire se stessa scartando dai tempi nevrotici della politica politicante) e sapiente (proprio nel senso indicato da Asor Rosa, ossia la raccolta e la creazione di una intellettualità del bene comune) di cittadini, di comunità, che si organizzano e che infine - cito sempre l'articolo di Asor Rosa - decidono di «crescere dal basso» per creare «una nuova cultura e una nuova politica ».

Si può non essere d'accordo con Magnaghi, quando nel suo libro scrive che «il conflitto, nel contesto dell'Occidente postfordista, riguarda solo parzialmente la relazione tra capitale e lavoro, incentrandosi maggiormente sulla contraddizione tra le forme crescenti di eterodirezione della vita e istanze locali di autonomia e autogoverno del proprio futuro» (la «coscienza di luogo», appunto, invece che la «coscienza di classe»), ma non si può ormai non vedere, come suggerisce Asor Rosa, che quella del «salto di scala», cioè della connessione delle reti di comitati in una «rete di reti», «potrebbe essere una delle strade più serie e responsabili per garantire, insieme alla salvezza imprescindibile del territorio italiano, anche un salto in avanti di tutta la nostra democrazia». Lo dico, questo, perché anche l'alleanza tra diverse aggregazioni sociali - dalla Fiom agli studenti, ai centri sociali - nata dopo la manifestazione del 16 ottobre, che giustamente mette il fuoco sulla democrazia e dignità del lavoro, sul precariato e sulla spesa sociale, dovrebbe prestare attenzione a quest'altro, parallelo fenomeno di ri-democratizzazione dal basso che si basa sulla tutela del bene comune. Una alchimia - complicata - tra queste correnti potrebbe dare ancor più sostanza alla ricerca di una nuova politica.

A Grottammare, nelle Marche, il 6 novembre, un paio di centinaia di persone provenienti da molte regioni italiane partecipava al secondo incontro della rete «Democrazia chilometro zero», nata un anno fa alle Piagge di Firenze. Persone e comitati per i quali - detto in estrema sintesi - un «cambiamento dal basso» - come auspicano Asor Rosa e Guido Viale, che per altro era a Grottammare - comporti prima di tutto non solo ristabilire, ma creare ex novo un modo di restaurare la sovranità dei cittadini sui loro luoghi. Infatti, all'incontro hanno partecipato persone che questo tentativo hanno cominciato a farlo creando liste di cittadinanza (le chiamiamo così per non confonderle con le «liste civiche»), fenomeno in forte crescita e che ha già fatto le sue prove positive: a Firenze, ad esempio, nella Vicenza che resiste alla base militare, in Valle di Susa e così via. Non che la via elettorale sia la sola possibile: esistono molte altre forme di pressione, o di decisione, extra-istituzionali, forum e movimenti, «parlamenti dei cittadini» paralleli, ecc. Quel che accomuna tutte queste forme è la percezione di come una democrazia effettiva la si possa ricreare nei luoghi dove i cittadini vivono, dove possono incontrarsi, conoscersi, praticare la democrazia del consenso invece che quella delle maggioranze: questi luoghi sono il comune, il municipio, la comunità. Insisto a scanso di equivoci: la democrazia cittadina locale forse non è sufficiente, esistono i «salti di scala» necessari e bisogna trovare il modo di confliggere con l'«iperspazio» di cui parla Magnaghi (ciò che il movimento per l'acqua sta facendo efficacemente, ad esempio), ma di sicuro è indispensabile, è il fondamento su cui tutto il resto - che si scoprirà via via - deve poter basarsi.

Ad ogni modo, credo di poter proporre alla rete Democrazia chilometro zero di partecipare alla costruzione della «rete di reti» di cui parla Asor Rosa (oltre tutto, i confini di una rete con l'altra sono assai mobili e molte persone e gruppi partecipano a diverse esperienze di questo tipo). Mi azzarderei anche di suggerire che ai due incontri che il Consiglio scientifico della Rete dei comitati ha deciso - una Conferenza nazionale dei comitati e un convegno sul «disastro Italia» - si potrebbero aggiungere o mischiare quelli che a Grottammare abbiamo individuato: seminari sul tema della democrazia, dei beni comuni, della protezione sociale, e un convegno sul municipalismo e il federalismo nella storia italiana. Quest'ultimo per far notare, nell'anniversario dell'unità italiana, come dai liberi comuni del Medioevo a Pisacane e Cattaneo, al Gramsci della «repubblica soviettista federativa» delle Tesi di Lione, sia ben esistita nella storia italiana una corrente che intendeva l'autonomia locale come sostanza della democrazia: proprio l'opposto di quel che la Lega va facendo.

CONFLITTI APERTI

Poteri forti e «nemici occasionali»

di Roberto Barocci

Forum Ambientalista Toscano / Coordinamento dei comitati della provincia di Grosseto

Collaboro volentieri con Asor Rosa nell'analisi dei problemi locali e nelle iniziative della Rete dei Comitati sul territorio toscano, perché ritengo positivo il ruolo svolto dalla Rete. Tuttavia, dopo aver segnalato in tre punti gli ostacoli sempre presenti nelle attività del movimento ambientalista, egli propone le modalità per superare i conflitti.

Sintetizzo gli ostacoli indicati da Asor Rosa: il conflitto insanabile con i poteri forti; una opinione pubblica distratta; la sordità di tutte le forze politiche di governo, sia quello centrale che quelli locali. Su questi conflitti siamo tutti d'accordo. Ma mentre il primo viene ritenuto da Asor Rosa naturale per coloro che vogliono difendere i beni comuni, gli altri due protagonisti dei conflitti vengono ritenuti «nemici occasionali» del movimento ambientalista.

D'accordo per quel che riguarda l'opinione pubblica, ma non per le forze politiche ritenute «recuperabili» in questo modo: «Allargando intorno a sé (cioè intorno al movimento dei Comitati) il consenso popolare e premendo in maniera decisamente più autorevole sulle forze politiche, locali e nazionali: cambiandone anche, cammin facendo, la natura». L'esperienza concreta di questi ultimi venti anni ci ha dimostrato alcuni fatti, che elenco e che chiedo di valutare:

1- i poteri forti sono sempre più in difficoltà ad estrarre profitti in Italia dal lavoro produttivo di manufatti. Se da una parte stanno delocalizzando le industrie di manufatti, in Italia stanno sempre più concertando con i governi locali e nazionali i modi per estrarre rendite parassitarie dal reddito complessivo delle famiglie. Hanno ottenuto dai partiti, di centro destra e di centro sinistra, la gestione, in termini monopolistici, di servizi a domanda rigida alle famiglie (acqua, rifiuti, trasporti, viabilità, energia...), realizzando un accordo politico nazionale, spartitorio a livello regionale, che ha già prodotto dalla fine degli anni '90 forti cambiamenti strutturali.

2- Si sono nel paese strutturate molte decine di società miste di gestione di tali servizi «pubblici», che stanno distribuendo una parte delle rendite percepite a molte centinaia di uomini e donne in carriera politica nei partiti di governo locale, sotto forma di lauti stipendi nei consigli di amministrazione di tali società e, in modo più penetrante nella società, di stipendi garantiti ad una moltitudine di giovani «clienti politici», collocati in uffici di progettazione tecnica o di amministrazione, costituitisi in Spa di Servizio alle pubbliche amministrazioni, sempre più prive di personale e di trasferimenti finanziari dallo Stato.

3- I gruppi dirigenti nazionali dei partiti nel frattempo hanno cambiato la loro pratica, garantendo la carriera politica solo ai fedeli, scelti per cooptazione dai vertici nazionali e premiati con gli strumenti sopra rammentati. Non è un caso l'eliminazione concordata delle preferenze alle elezioni, la scelta del candidato unico nei collegi elettorali del maggioritario, la diffidenza verso le primarie ecc. ecc.

Questi tre fenomeni hanno strutturato nel paese una realtà materiale e un legame molto forte, organico, tra i partiti e il padronato finanziario. Se questi fenomeni non vengono visti, denunciati e destrutturati, quindi combattuti senza compromessi con chi li vuole invece alimentare, allora ci si può anche illudere di poter condizionare, cammin facendo, le scelte di questi partiti, di cambiarne la natura, ma credo che si rimanga nel mondo delle speranze e fuori dalla storia.

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