La Repubblica Milano, 27 marzo 2014, postilla (f.b.)
Il cemento avanza, sfonda la seconda cintura dell’hinterland e ormai invade persino la terza. È come se i confini fossero quasi scomparsi e Milano e i Comuni limitrofi quasi un tutt’uno. E l’area metropolitana satura di asfalto e cemento. Il capoluogo lombardo — con solo Napoli che di un soffio riesce a far peggio — primeggia nella gara tra le città che consumano più suolo. Una sfida senza medaglie. E con la Lombardia che è una grande macchia nera che in questo primato, tutto negativo, sbaraglia tutte le altre regioni.
Ci pensa l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, a fotografare l’andamento dal 1956 al 2012 del consumo di suolo. Sotto la Madonnina, la scomparsa di suolo libero è un fenomeno in crescita dagli anni Settanta: dal 42,8 per cento di terre mangiate nel ‘73, si passa al 58,3 per cento nel 1997 fino al 61,2 nel 2007. Per arrivare al 61,7 a fine 2012, ultimo dato ufficiale disponibile. E tra i peggiori, con la Lombardia che ha il 10 per cento di territorio irreversibilmente occupato da strade, capannoni, case. Che, contando montagne, laghi e dove non si può cementificare, non è poco, 261 i metri quadri di suolo consumato da ciascun abitante. Macome si è arrivati qui, a Milano? «La percentuale, inquietante, deriva da un’espansione urbana mal regolata o deregolata che avanza — spiega il ricercatore Ispra e responsabile del Rapporto, Michele Munafò — oltre che da una mancanza di programmazione strategica che non ha dato importanza alle funzioni del suolo anche per l’ecosistema.
E dietro, c’è la crisi di Milano città con la gente che tende a uscire, verso l’hinterland, e porta con sé l’infrastrutturazione del territorio». Per l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris è vero che Milano è stata cementificata nei decenni «ma nel Pgt abbiamo ridotto le volumetrie in un’ottica di conservazione». L’80 per cento dei Comuni lombardi ha in pancia 41mila ettari,oggi aree agricole, da urbanizzare. Una cifra enorme, se si pensa che in Lombardia negli ultimi dieci anni si sono mangiati 10mila ettari. Il primo colpevole è meno scontato del previsto: divorano più suolo le strade rispetto alle case. «Pedemontana, BreBeMi e Tem hanno provveduto a dare una botta, peraltro quando fai le strade è il prodromo di nuove urbanizzazioni — osserva il docente di Programmazione ambientale al Politecnico, Paolo Pileri — .
La crisi si pensa abbia messo in ginocchio l’edilizia ma in realtà questo non ha voluto dire un calo del consumo di suolo. Questo perché i Comuni continuano a mettere nei loro piani nuove aree da urbanizzare, Milano compresa: da Moratti a Pisapia il Piano di governo del territorio è stato asciugato, ma non ci sono dispositivi di legge e nemmeno la volontà che obblighino i sindaci a riutilizzare prima le aree dismesse ». Per invertire la tendenza, difatti, le ricette ci sarebbero. Senza toccare i livelli della Gran Bretagna, dove non si costruisce su nuovi terreni fintanto che i due terzi di aree abbandonate non vengano rimessi sul mercato, le chiavi sono diverse. Anche perché l’Europa impone di azzerare il consumo di suolo entro il 2050.
«Anzitutto il riuso di aree dismesse — dice Munafò — prima di costruire sul nuovo, si riqualifichi il vecchio che non si usa più. E poi il regolamento edilizio, nelle mani del Comune che ha il pallino della tutela del territorio. E, se proprio si deve cementificare, non si tocchino le aree agricole». Da tempo gli ambientalisti denunciano che la Lombardia sia «la cattedrale del cemento». E oggi esortano la Regione: «Siamo in emergenza — denuncia il presidente lombardo di Legambiente, Damiano Di Simine — il consiglio regionale ha in mano una proposta di legge di iniziativa della giunta che non è così male, va nella direzione giusta. La approvino presto».
postilla
A quanto pare, amministrazioni locali escluse (ed è qui il guaio), tutti concordano nel ritenere allarmante la continua e allegra espansione dell'urbanizzato metropolitano e regionale, anche in un'area ormai ampiamente satura come quella padana centrale. La vera questione però, indipendentemente dall'approvare o meno in tempi rapidi una legge che magari adotti virtuosamente il principio dell'approccio sequenziale di matrice britannica, è di definire qualche modello di sviluppo alternativo all'attuale. Non solo per le costruzioni, ma per l'idea di città società e attività economica oggi ancora legate mani e piedi al modello sviluppato dalle amministrazioni, di centrodestra e non, ad ogni livello. In altre aree sviluppate (ad esempio la spesso citata Silicon Valley) si è deciso di puntare sull'innovazione vera, quella di ricerca tecnologica e produttiva, lanciando politiche di polarizzazione urbana che si sostituiscano, anche nel modello industriale, allo sprawl novecentesco. Nella padania felix invece procede, come qualcuno osservava casualmente nell'articolo, il modello autostradale e disperso, salvo inventarsi proprio su quelle stesse nuove e micidiali autostrade le stazioni di rifornimento per auto elettriche. La sostenibilità retorica per gonzi insomma, e sotto il business as usual, con l'innovazione altrettanto ideologica della nuova trovata, che si chiama "Smart Land". Proprio così, lo slogan della smart city, già scivoloso di sé, traslato sui territori della dispersione, e guarda caso promosso dai medesimi interessi, a ben vedere dalle medesime persone, che si sono inventate la mitica città infinita. Andiamo proprio bene, con questa versione italiana del destrorso "new suburbanism" d'oltre oceano, e discutere di un ettaro in più o meno di prati di periferia destinati a trasformazioni urbane, ottime intenzioni a parte, scusate ma sembra l'ennesima presa in giro (f.b.)