loader
menu
© 2024 Eddyburg
Paolo Leon
L'arte della manutenzione
9 Agosto 2008
Scritti 2007
Un po’ di chiarezza sul tema preferito dai riformisti: le pensioni e l’INPS. Da l’Unità del 6 gennaio 2007

Sul sistema previdenziale, esistono, purtroppo, due diversi livelli di discussione. Se si parla di riforme, nel senso dell´Ocse - attento solo alla riduzione dell´intervento pubblico in ogni sua forma - allora non siamo veramente nella sfera di competenza del ministro del Lavoro. Se si vogliono ridurre le spese previdenziali allo scopo di risanare il disavanzo pubblico, si fa un´operazione che riguarda piuttosto il ministro dell´Economia, che dovrebbe però spiegare qual è il nesso forte che lega le pensioni ai parametri di Maastricht.

Non si vedono nessi, se non nel fatto che la spesa previdenziale è una componente molto grande della spesa pubblica totale, per di più perfettamente visibile e ben organizzata nel settore pubblico. Succede che l´osservatore esterno, guardando a un riassunto della spesa pubblica italiana, individua le voci più grosse e chiede che vengano ridotte: un esercizio di modesta intelligenza. Appena lo sguardo si fa più analitico, si noteranno alcuni fenomeni.

Il primo riguarda l´imperfetta separazione della spesa previdenziale da quella per l´assistenza pubblica - una vecchia rivendicazione Uil, mai sufficientemente presa in conto. Si tratta di trasferire al bilancio dello Stato la spesa Inps per una varietà di scopi assistenziali che non riguardano i lavoratori dipendenti: fatta questa operazione, il bilancio dell´Inps migliora grandemente e la quota della spesa previdenziale effettiva diminuisce rispetto al Pil. Un analogo effetto si ottiene se si escludono dalla spesa previdenziale i trattamenti Tfr, che non sono un istituto previdenziale (lo saranno, nel futuro, ma faranno aumentare più le risorse che le spese del sistema previdenziale). Tra l´altro, questi aggiustamenti attenuerebbero un´antica critica al sistema sociale italiano, accusato di dedicare troppe risorse alle pensioni e poche all´assistenza. Questo aspetto è diventato particolarmente antipatico, da quando il sistema pensionistico è passato dal metodo retributivo (nel quale la futura pensione non è strettamente legata ai contributi pagati dai lavoratori) a quello contributivo (nel quale sono i contributi che finanziano le pensioni): poiché è stato detto ai lavoratori che debbono pagarsi le pensioni, come giustificare che essi sussidiano il bilancio dello Stato nelle sue funzioni assistenziali?

La seconda osservazione consiste nel chiedersi perché si dovrebbe ridurre la spesa previdenziale. La risposta è nota. Si dice, infatti, che è necessario aumentare l´età pensionabile in quanto la vita si è molto allungata: se si allunga la vita al lavoro, si riduce l´effetto dell´invecchiamento sui conti della previdenza. L´invecchiamento equivale a una riduzione nel numero assoluto di lavoratori, e questa riduzione fa diminuire i contributi necessari per pagare le pensioni. Ma, allora, il tema non è quello di ridurre la spesa pensionistica, ma di aumentare l´occupazione - ad esempio dei giovani e delle donne, magari in forme non precarie, perché così contribuirebbero pienamente alla stabilità del sistema pensionistico.

Queste brevi osservazioni servono soltanto a chiarire che una vera riforma pensionistica viene dopo una vera azione di politica del lavoro (per un´occupazione piena e "buona"). È allora logico e formalmente più corretto lasciare da parte le raccomandazioni dell´Ocse e non fissarsi sul rapporto tra spesa previdenziale e deficit pubblico.

Per questo, credo, ha fatto bene Damiano a ridurre l´enfasi intorno a questo tema e a elencare elementi di «manutenzione» - dall´aumento dei contributi figurativi, alla rivalutazione delle pensioni, al finanziamento degli ammortizzatori sociali (per il mercato del lavoro com´è oggi, non per quello di domani), fino al finanziamento per la revisione dello scalone.

Quest´ultimo è il punto dolente nel rapporto con il sindacato, e riguarda precisamente l´età pensionabile, cioè uno degli elementi che va visto nel quadro di una politica generale dell´occupazione, non in quello della previdenza. Alcuni sindacalisti non vorrebbero toccare nulla dell´età pensionabile, qualche che sia il quadro del mercato del lavoro. Qualche esponente politico immagina, al contrario, una lotta tra giovani e vecchi e che occorrerebbe togliere a questi e dare a quelli - senza capire che al termine di una politica siffatta, né gli uni né gli altri voterebbero mai più il centro sinistra.

Se non si è ancora in grado di proporre un vero piano per l´occupazione e una riforma della normativa che si è accumulata negli ultimi dieci anni, se il conflitto tra giovani e vecchi è più un´astuzia che una dimensione della realtà, allora le ragioni che militano per non aumentare l´età pensionabile riposano tutte sulla "usura" che il lavoro determina nelle capacità delle persone. Per alcuni, l´usura è solo fisica e si applica ai lavori veramente pesanti - che oggi fanno gli immigrati - e dunque la riduzione dovrebbe applicarsi a piccoli numeri di lavoratori (i minatori, ad esempio). Per altri, l´usura è fenomeno più complesso e può riguardare invece grandi numeri (agricoltori, edili, colf, impiegati esecutivi, ecc.). Questo aspetto, già citato da Damiano in altre occasioni, non ha nulla a che vedere né con il sistema previdenziale né con il mercato del lavoro: è un elemento di civiltà, e ha lo stesso rango del divieto del lavoro minorile.

ARTICOLI CORRELATI
4 Maggio 2017
22 Novembre 2008
9 Agosto 2008

© 2024 Eddyburg