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Che cos’è la “società civile”?
9 Agosto 2008
Scritti 2007
Dialogo a distanza tra Paul Ginsborg e Valentino Parlato (e Lucio Colletti ed. 1969) su ciò che si chiama “società civile”. Da la Repubblica, 27 settembre 2007 e il manifesto, 28 settembre 2007 (e giugno 1969)

Paul Ginsborg

È davvero migliore del Palazzo?

Una geniale vignetta di Altan di qualche settimana fa (la Repubblica, 4 settembre) raffigura un signore di mezz’età, in giacca e cravatta, chiaramente appartenente ai ceti medi italiani, che annuncia solenne alla moglie: «Dobbiamo aprirci alla società civile». E lei, forse maestra o impiegata, certamente casalinga, gli chiede, tra il perplesso e il titubante: «Vengono loro da noi, o andiamo noi da loro?».

Effettivamente, non è facile capire dov’è la società civile e neanche cos’è. Le definizioni abbondano e con esse le dispute accademiche. Suggerisco una prima distinzione operativa, molto anglosassone, fra società e società civile. La società è un contenitore vasto in cui si può trovare di tutto, dal cittadino onesto alla criminalità organizzata. La società civile, invece, è uno spazio più ristretto che si distingue sia per la sua forma organizzativa sia per il suo sistema valoriale.

Società civile vuol dire in primo luogo una vasta rete di associazioni, circoli, club - alcuni molto grandi e di forte impatto internazionale come Amnesty International, altri più modesti e meno stabili che operano soprattutto a livello locale, ad esempio un circolo di giovani auto-organizzati contro la mafia o un laboratorio per la democrazia. Ma società civile vuol dire anche determinati valori e ambizioni, che sono variati attraverso le epoche della storia contemporanea ma hanno un ceppo comune nell’Illuminismo.

Oggi in Europa si possono attribuire alla società civile ambizioni specifiche: promuovere la diffusione piuttosto che la concentrazione del potere, indicare mezzi pacifici anziché violenti, agire per la parità di genere e l’equità sociale, costruire solidarietà orizzontali piuttosto che verticali, incoraggiare la tolleranza e il dibattito anziché il conformismo e l’obbedienza. La società civile è lontana dall’essere una sfera perfetta, di rapporti idilliaci e armoniosi. Riflette fortemente la società di cui fa parte, il modo in cui le persone sono già state formate dalle loro esperienze familiari. Nondimeno costituisce una risorsa preziosissima per la democrazia e rispecchia l’impegno, profuso di solito a titolo gratuito, di una minoranza di cittadini per migliorare sia la società che le istituzioni.

Casa prediletta della società civile europea sono i paesi nordici – Olanda e Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia. Sono loro che hanno il numero più alto di cittadini iscritti ad almeno una associazione di qualsiasi tipo – Svezia 53,4 per cento, Regno Unito 41,8 per cento, Italia 24,3 per cento. Ma sono anche i paesi con la più alta percentuale di cittadini iscritti alle associazioni che si riconoscono nel sistema valoriale della società civile appena descritta.

L’esperienza storica italiana della società civile durante i decenni della Repubblica è piuttosto eterogenea . Alcuni elementi sono fortemente positivi. In Italia la longevità democratica della Repubblica ha garantito le condizioni strutturali per il fiorire della società civile – la libertà di opinione, la stampa libera, il diritto di associazione. L’Italia è un paese in cui il funzionamento delle istituzioni lascia molto a desiderare, ma è anche un paese, sotto il profilo storico, molto libero, perfino iperdemocratico, ricco di iniziative e discussioni. Forse – ed è una triste constatazione – è proprio il mancato funzionamento delle istituzioni che produce questa vivacità di reazione, questa micro-democrazia che non dà segnali di placarsi.

In secondo luogo, la società civile italiana è come un fiume carsico. Non si distingue per il suo alto numero di associazioni ma per la sua capacità di irrompere improvvisamente sulla scena nazionale con grandissima forza e altissimi numeri. L’enorme raduno della Cgil del marzo 2002 al Circo Massimo, contro l’abolizione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori del 1970, ne è un esempio eclatante.

Per contrasto, l’organizzazione territoriale della società civile italiana è più squilibrata rispetto agli altri paesi europei, con una grande concentrazione dell’associazionismo civico nel centro e nord del paese. Fu in queste regioni, nella seconda metà dell’Ottocento, che nacque la rete delle associazioni di mutuo soccorso, una rete che fece molta fatica a estendersi al Mezzogiorno. Ci sono stati momenti nella storia del Sud in cui questo quadro si è modificato, soprattutto negli ultimi decenni del Novecento, ma oggi la situazione è di nuovo molto incerta, con la forte ripresa dell’immigrazione delle forze giovanili dal Sud.

L’Italia dunque è un paese cui le pre-condizioni per la società civile sono ben radicate, dove esiste una tradizione, come in Francia, di movimenti di cittadini che irrompono periodicamente con grande forza sulla scena politica, ma dove l’associazionismo è squilibrato in termini geografici. A queste caratteristiche di fondo, bisogna aggiungerne altre, purtroppo tutte negative. Manca in Italia una vera tradizione di autonomia della società civile. Quest’assenza, legata alla debolezza della tradizione liberale, ha permesso ai partiti di occupare i posti di comando delle istituzioni e della società, mossi non dal desiderio di democratizzare stato e società, come vorrebbe la società civile, ma con l’intento di imporre un modello ferreo di auto-perpetuazione, di origine democristiana.

Un ultimo e decisivo punto. Ho sempre avuto l’impressione che in Italia, a differenza dei paesi nordici europei, le famiglie contassero troppo e la sfera pubblica troppo poco. In questo campo l’insegnamento del Vaticano non è mai stato di grande aiuto. Era Pio XII che nel settembre del 1951 disse: «La famiglia non è per la società; è la società che è per la famiglia». Il messaggio che filtra dopo ventiquattro anni ininterrotti di televisione commerciale berlusconiana è piuttosto simile: «mettete al primo posto la vostra famiglia, i vostri interessi, i vostri consumi». Non deve sorprendere se la signora della vignetta di Altan pensa che la società civile sia un servizio a domicilio.

Chi ha in mente Repubblica quando parla di società civile?

Ieri la Repubblica nel suo nuovo R2 Diario ha pubblicato un interessante articolo di Paul Ginsborg dal titolo «Società civile. E' davvero migliore del Palazzo?» e, a seguito, due utili scritti di Filippo Ceccarelli e Carlo Galli, sempre sul valore o disvalore della «società civile». Il tutto molto interessante e stimolante. A noi del manifesto viene subito voglia di intervenire e, questa volta, con uno stralcio dell'articolo di Lucio Colletti (prima maniera) pubblicato sul primo numero della (eretica e condannata) rivista del manifesto: giugno 1969. Da allora sono passati quasi quarant'anni, ma non abbiamo cambiato parere: il Palazzo è ancora il figlio legittimo della società, che arbitrariamente si autodefinisce civile. Il passato è presente? Forse.

v.p.

Lucio Colletti *

Dizionario Politico. La società civile

Qualcosa di nuovo s'aggira nella sinistra italiana; non è lo «spettro» del comunismo: questa volta si tratta solo della riscoperta di una vecchia parola. La parola è «società civile». Nel calore della scoperta, sembra che si voglia costruirci sopra «un nuovo patto costituzionale».

La società civile. E' la società cui si accede con l'iscrizione all'anagrafe. Dal '700 in poi, ci siamo dentro tutti, quali che siano i mestieri o le professioni. Mandeville la descrive così: «milioni di esseri si sforzano d'appagare la reciproca sfrenatezza e vanità, mentre altri milioni sono intenti a consumare l'ingegnoso lavoro di quelli. Alcuni, con poca fatica e molto denaro, si lanciano in affari di gran guadagno, altri sono condannati alla falce e alla vanga e a quei duri e pesanti mestieri nei quali miserabili di buona volontà si affaticano ogni giorno e logorano forza e braccia, per mangiare». La società civile, insomma, è la società della concorrenza e dei «poveri industriosi».

In superficie, una miriade di attività, un brulicame di interessi in competizione tra loro; al di sotto di questa superficie, un'interna e più severa struttura. L'anatomia della società civile - diceva Marx - è da cercare nell'economia politica. E l'economia politica, almeno a partire da Smith, ha identificato quest'anatomia in una struttura di classe. «In una società civile, i poveri provvedono a se stessi e all'enorme lusso dei loro signori». Il lavoratore produttivo, che «sostiene sulle proprie spalle l'intero edificio della società umana», è - dice Smith - «schiacciato dal peso e tolto dalla vista altrui nelle più profonde fondamenta dell'edificio». «In una società di centomila famiglie, ve ne saranno forse cento che non lavorano affatto e che, tuttavia, o con la violenza o con la più regolare oppressione della legge, assorbono una quantità di lavoro sociale superiore a quella di diecimila famiglie. Anche la divisione di quel che rimane, dopo questa enorme defalcazione, non avviene affatto in proporzione al lavoro di ciascun individuo; al contrario, a quelli che lavorano di più tocca di meno».

Qui è già prefigurato l'essenziale. Il lavoro produttivo produce il salario e, oltre al salario, un «di più», da cui derivano profitto e rendita, entra a costituire i redditi delle classi fondamentali della società. La «società civile», in una parola, è la società borghese di classe. Perché allora si chiama così? In primo luogo, perché, a differenza di quella medievale, la società borghese è essenzialmente cittadina, urbana (civile da civis). In secondo luogo, perché il borghese è fatto così, che egli non riesce a immaginare che ci possa essere cultura, scienza e civiltà, se da una parte non c'è il profitto e dall'altra il lavoro salariato. Non che egli non veda le differenze di classe, l'ineguaglianza sociale. I grandi borghesi le vedono. Il punto è che le considerano il prezzo inevitabile da pagare alla civiltà. «L'abilità - dice Kant - non può essere bene sviluppata nella specie umana per mezzo dell'ineguaglianza tra gli uomini; perché il più gran numero di essi cura le necessità della vita quasi meccanicamente, senza aver bisogno d'un'arte particolare, e pel comodo e il divertimento degli altri, i quali lavorano per gli elementi meno necessari della cultura, la scienza e l'arte, tenendo i primi in uno stato d'oppressione, nel quale lavorano duramente e godono poco, mentre però a poco a poco si propaga tra essi parte della cultura della classe superiore. Il fine della natura stessa è raggiunto in questa maniera. La natura può raggiungere il suo scopo finale solo in quella costituzione nei rapporti degli uomini tra loro, che si chiama società civile». Per il borghese, insomma, la civiltà è impensabile senza oppressione e sfruttamento, proprio come per La Malfa è impensabile democrazia senza la FIAT e la Commerciale.

Vengo ora a Galloni e al suo articolo su Rinascita.

Dal '700 in poi, un grande sforzo d'analisi per risalire dalla superficie della «società civile» alla sua interna struttura: le classi. Oggi, un lavoro da Sisifo per ricoprire gli scavi di quell'analisi con quattro genericità liberali. Prima, uno sforzo di meningi per capire che la società civile è la società borghese; ora un articolo su Rinascita per presentare la società borghese come la società civile. La «società civile» vuole! La «società civile» comanda! Chi ha in mente Galloni così dicendo: Gianni Agnelli o l'emigrato calabrese?

* articolo tratto dal primo numero della rivista manifesto nel giugno 1969

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