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Andrea Villani
L'ardua speranza di una magnificenza civile
23 Dicembre 2017
Libri da leggere
casadellacultura, 15 dicembre 2017.«Se l’urbanità è illuminata dalla bellezza, senza l’urbanità la bellezza civile è impossibile». (c.m.c)

casadellacultura, 15 dicembre 2017.«Se l’urbanità è illuminata dalla bellezza, senza l’urbanità la bellezza civile è impossibile». (c.m.c)

Giancarlo Consonni, Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà, Solfanelli, 2016

Il libro Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016) esprime, in modo lucido e con lo stile proprio dell'Autore, la posizione di Giancarlo Consonni sulle trasformazioni della città - specie italiana - nell'ultima fase della storia, sulle cause e le conseguenze di questa trasformazione, mettendo in evidenza quanto di positivo ha caratterizzato - e oggi drammaticamente perduto - la città, con accenni di limitata speranza. Il punto di partenza è un'osservazione del passaggio da una realtà fisica e sociale che era appropriato chiamare 'città', a una realtà di dispersione urbana, senza più nulla di connotabile in modo corrispondente alla struttura fisica della città giunta a noi dalla tradizione di secoli. Con lo stimolo del pensiero di Consonni, riteniamo di esprimere il nostro pensiero sia sulla dispersione urbana e le sue prospettive, sia - in termini ovviamente di estrema sintesi - sulla qualità della città, sul suo divenire e il suo possibile futuro, oltre ad alcune idee per politiche urbane forse perseguibili.

Dalla seconda metà degli anni Cinquanta - a partire dall'immediato Sud Milano e poi verso Nord, nella Brianza, a Ovest, nel Magentino, Abbiatense, Castanese, e a Est, verso Bergamo, nell'area della Martesana - iniziò un grande sviluppo residenziale e industriale. Non tra centri chiusi in se stessi, ma con fortissime interrelazioni. Questa vicenda della trasformazione urbana, economica, umana e sociale della Provincia di Milano in quella che in modo immediato e continuo nel tempo è stata definita "area metropolitana milanese" è stata descritta - anche col mio personale contributo - tantissime volte. Ritengo qui di enfatizzare che non abbiamo mai usato la parola 'metropoli' per indicare quella realtà. Quello che avevamo visto e di cui - studiosi e amministratori uniti insieme - eravamo consapevoli, era di essere di fronte a una realtà di insediamento umano in cui rimanevano presenti strutture e modi di vita ereditati dal passato, mentre ne sorgevano altri del tutto nuovi. E cito, come esempio di rotonda evidenza - la fine dell'agricoltura praticata fin all'interno dei borghi; il nascere e svilupparsi di attività produttive micro-industriali, talune delle quali poi venivano a estendersi nell'ambito urbano, dando luogo a problemi per la compresenza di funzioni che la cittadinanza - cui peraltro dava vita e dalla cui presenza traeva vantaggi - riteneva inaccettabili, incompatibili con le condizioni di vita considerate appropriate.

In quella realtà, in connessione con quelle modalità di crescita, e insieme al diffondersi di una cultura e consapevolezza urbanistica, vennero avviate pratiche di pianificazione, man mano sempre più diffuse. Vale a dire l'avvio di piani urbanistici che prevedevano la specializzazione territoriale per funzioni, ovvero l'azzonamento funzionale. Con l'avvento di un diffuso benessere, si ebbe la realizzazione di nuove residenze e di strutture per funzioni certo non nuove in assoluto, ma con la novità di una diffusione su grandi numeri: per lo sport, il divertimento, la cultura, l'istruzione superiore fino al livello dell'università. Con queste si ebbe anche la diffusione dell'automobile, sempre a livello di massa. Potrei fermarmi qui, prima della fase post-industriale in quest'area metropolitana, dove il dato più evidente è costituito dall'enormità dei flussi di persone, di merci, e di ogni altro bene.

Ora, quella che a suo tempo abbiamo definito, con comune diffuso consenso, "area metropolitana milanese" non è una realtà analoga a quella di Londra, né a quella di New York, e meno che mai a quella di metropoli come Città del Messico, Mumbai o anche solo Cape Town. Non lo è per dimensioni e nemmeno per assenza di polarità alternative al centro principale: la città per molti aspetti dominante da secoli. Infatti, se si passa da un riferimento generico a enormi insediamenti umani quali quelli citati alla realtà di aree metropolitane come quella di Milano - cui va il nostro preciso, puntuale riferimento - ci si può immediatamente rendere conto che, quanto meno per il momento, il confronto è improponibile. In quelle metropoli di varie decine di milioni di abitanti esiste un centro con valori estetici e architettonici significativi, conservati anche con cura dai governi locali. Questo centro, che in taluni casi è 'storico', in altri è la 'down-town' - tipica espressione dell'urbanistica contemporanea - che costituisce una piccola o piccolissima parte dell'agglomerato metropolitano.

Il resto, l'insediamento di decine di milioni di persone, è costituito da 'informal settlements', 'shanty towns' o 'bidonvilles', nelle denominazione dei diversi paesi. È mia precisa opinione e previsione che il fenomeno di espansione delle 'million cities' sopra indicate, come di molte altre nel mondo, continuerà nel tempo. Quali politiche razionali o quanto meno ragionevoli possano venire pensate in termini economici, sociali e anche urbanistici, per affrontare una situazione - che rispetto ai nostri standard di vita è considerabile semplicemente disastrosa - è un argomento che non intendo affrontare qui. Per quanto riguarda l'area metropolitana milanese si può certamente sottolineare che questa è assai più ampia di quella inclusa nel perimetro della ex-Provincia di Milano e che, se si vuole chiamarla 'città', credo proprio sia corretto e accettabile definirla 'città di città'. Possiamo cioè affermare che quella che è stata definita e posta come 'Città Metropolitana di Milano' sia da considerare - con una intuizione interpretativa che deriva da esperienze catalane e sudamericane - una 'città di città'.

Di fatto quest'area - che va da Novara a Bergamo, da Lodi al confine con la Svizzera - è formata da un insieme di diverse centinaia di insediamenti, ovvero: dai 'poli esterni' a Milano che sono appunto le città di Novara, Pavia, Lodi, Varese, Lecco, Como, Bergamo, Monza; da numerosi centri di medie e anche piuttosto piccole dimensioni; e da un cospicuo numero di paesi, anche rurali, ognuno con la sua storia, la sua cultura, le sue tradizioni. Per taluni aspetti conservate gelosamente. Certo, esistono forti relazioni tra questi centri e un'alta mobilità, specie per lavoro e funzioni eccezionali, o comunque di scala non banale e non risolubile alla scala di ogni singolo comune. E comunque, nonostante la complessità della rete dei flussi di persone e di merci, se osserviamo questa realtà, e cerchiamo di comprenderla, credo tutto sommato possibile adottare un modello gerarchico-gravitazionale. Questo per una pur controvertibile visione interpretativa complessiva. Ma se veniamo a osservare fisicamente la qualità di questi centri sul territorio, possiamo e dobbiamo riscontrare una significativa dispersione delle strutture fisiche, che - specie in determinate parti del territorio - impedisce di distinguere l'uno dall'altro centro urbano. Come si può vedere dall'aereo, o - su carta - nei fotopiani, o sullo schermo del computer. Dispersione causata dallo sviluppo economico e demografico e dalla diffusione di massa e totale del mezzo di trasporto su gomma - tanto per la mobilità personale, quanto per il trasporto delle merci - e resa possibile dalla politica urbanistica seguita dai Comuni e dai livelli superiori di governo territorio nel corso di decenni.

Abbiamo detto del fenomeno dell'urban sprawl che negli Stati Uniti, dalla seconda metà degli anni Cinquanta, caratterizza il territorio da Boston a New York a Washington dando vita a un'unica megalopoli. Questo sprawl - ovvero questa dispersione dell'edificato sul territorio - è venuto a caratterizzare quanto meno una parte dell'Italia del Nord. E Milano e il Milanese, nel cuore della Lombardia, ne costituiscono un esempio significativo, sotto i nostri occhi. Di fronte a una simile realtà territoriale e urbana di cui abbiamo definito taluni elementi essenziali di natura geografica e macro-urbanistica, si può tentare anche una lettura di altri aspetti peculiari. Vale a dire una lettura che vada al di là dell'idea che i territori caratterizzati dal fenomeno dello sprawl siano una marmellata urbana di bassa qualità, proprio perchè i centri esistenti, i comuni storici, non hanno più la forma compatta tradizionale. Sottolineiamo subito che gli elementi della grande trasformazione del territorio lombardo sono culturali oltre che fisici; politici, oltre che economici. Noi qui, in prima istanza, intendiamo considerarne soltanto alcuni, legati all'aspetto urbanistico e architettonico. Anche perchè lo stimolo di Consonni è soprattutto in questo senso. E la nostra attenzione e riflessione vanno a un tentativo di spiegazione di ciò che è accaduto e ancora accade nella realtà fisica della città e delle prospettive, sia neutrali, sia ipotizzando azioni politico-amministrative volte a guidare e indirizzare la trasformazione. Perchè la grande trasformazione avviata a fine anni Cinquanta al tempo del cosiddetto 'miracolo economico italiano' non è finita. Anzi ritengo, motivatamente, che ora più che mai ci troviamo nell'occhio del ciclone.

Nella mia, ovviamente opinabile, lettura del libro di Giancarlo Consonni, vedo: a) un giudizio negativo sullo sprawl in quanto tale; b) l'assenza di capacità e volontà da parte dell'amministrazione pubblica di governare urbanisticamente l'insieme delle strutture fisiche che nascono in connessione con le iniziative individuali; c) l'incapacità, da parte di architetti, urbanisti, imprenditori, insieme con politici e amministratori, di elaborare un linguaggio unitario, che riesca a esprimere anche nel nuovo un'alta qualità complessiva dell'habitat. Qualcosa insomma corrispondente a quella che è stata e potrebbe ancora costituire un'espressione di 'magnificenza civile'. Su queste posizioni e tesi, elaborate ed espresse con finezza letteraria e appassionato sentimento da Consonni, mi trovo in sintonia. E intendo dire: sono del tutto d'accordo. Il problema che ho posto nel passato all'Autore, e che ripropongo ora, riguarda da una parte il modo che noi meno giovani abbiamo di guardare il mondo. Vale a dire la validità o meno del nostro modo di giudicare le trasformazioni avvenute e che man mano avvengono. Da un'altra parte, il problema è anche quello di comprendere questo mondo; di capire qual è la sua cultura, che si esprime in vari ambiti e forme; che indirizza le azioni, i tempi, le scelte individuali e collettive, e che porta a un certo modo di realizzare la città, e di viverla. E intendo: di modellare e realizzare l'urbs, e insieme la civitas.

Ora, è di tutta evidenza che ciò che si e verificato su questo territorio nell'arco di mezzo secolo ha determinato una realtà fisica, un territorio, un'immagine dell'habitat profondamente diversa da quella del passato. Quello che, anche mio parere, appare più evidente è che non esiste più, nelle strutture edilizie individuali e collettive, un linguaggio comune. Non solo perché gli edifici di ciascun decennio hanno caratterizzazioni linguistico-stilistiche differenti uno dall'altro, ma proprio per il fatto che oggi ogni soggetto - singolo promotore immobiliare o singolo proprietario di un lotto di terreno che desideri costruirsi la sua abitazione - la vuole non dico uguale, ma nemmeno analoga a quella del vicino. La vuole invece diversa, diversa il più possibile, per lo stesso motivo per cui desidera una peculiare pettinatura, un peculiare abbigliamento, così come i particolari (quanto meno i particolari!) della propria auto. Questo modo di procedere ha portato a una realtà dove in generale - vale a dire probabilmente nella maggior parte dei casi - l'insieme delle strutture, cioè la realtà fisica complessiva del territorio, presenta - agli occhi di chi è adusato a vedere, gustare, apprezzare la città tradizionale e il borgo tradizionale - una visione di disordine e di confusione. Che cosa è accaduto e accade nella società è stato studiato attraverso una grande quantità di ricerche da sociologi e psicologi e, in generale, da studiosi delle trasformazioni culturali, politiche, religiose e di ogni manifestazione di comportamento umano. Secondo molte interpretazioni questa società è caratterizzata da un diffuso individualismo.

Questo significherebbe che la nostra società ha visto la caduta dei valori comunitari. Dove la presenza, l'assunzione dei valori comunitari si traduceva nel cercare di agire come singoli individui, singole persone, singoli cittadini, tenendo conto degli altri, dell'effetto sugli altri, avendo in mente quelli che Consonni chiama 'valori dell'insieme'; definibili, in termini ancor più nobilitanti, 'bene comune'. Ora, anch'io ho visto nel tempo, nell'arco dei decenni, nel nostro paese, questa grande trasformazione antropologica, con le conseguenze e le implicazioni anche sul modo di essere della città. Nell'ambito della grande trasformazione antropologica, culturale, politica, uno degli elementi significativi emersi è stata la scomparsa alla scala individuale - e di conseguenza a una scala collettiva - dei valori etici tradizionali e, accanto a questi, anche dei valori estetici. L'idea di 'buono', 'vero' e 'bello' che si fondono insieme non è che non abbia più senso. Solo ha il senso che ognuno si costruisce, alla scala individuale. E la concezione prevalente è proprio che in una simile società, dove l'unico valore condiviso è quello della libertà, una tale concezione, un tale modo di essere molto diffuso, è che tutte le concezioni del 'vero' del 'bello' e del 'buono' abbiano (e debbano avere) il medesimo valore e la medesima dignità.

Un simile relativismo non appartiene a Giancarlo Consonni e neppure a me. Però una cosa è giudicare che, in base alla nostra formazione estetica, culturale e anche politica, certe espressioni formali - dalle opere pittoriche a quelle architettoniche, dagli assetti urbanistici al paesaggio - sono preferibili ad altre, o magari esaltanti a fronte di molte altre quanto meno insignificanti se non deprimenti. Altro è pensare di riuscire - intervenendo nel dibattito pubblico con le proprie posizioni - a modificare il corso degli eventi. Pensiamo a un fatto sul quale Consonni insiste non poco. Nei centri principali - che comunque si espandono nell'area metropolitana milanese fino a raggiungere grandi dimensioni - ciò che viene realizzato in concreto, pur implicando rilevanti, magari giganteschi investimenti, non riesce - quanto meno nella stragrande maggioranza dei casi, pur in presenza di capacità e disponibilità tecniche, economiche, finanziarie enormemente superiori a quelle del passato - a realizzare qualcosa interpretabile come espressione di 'magnificenza civile'. Quale - per intendersi - quella presente nel cuore di importanti città del passato, a partire programmaticamente dall'iniziativa dei sovrani illuminati del Settecento, per giungere in pratica fino a quanto realizzato in Italia, e anche nel Milanese, fino alla Seconda Guerra Mondiale.

Questo è un punto o elemento cruciale nella riflessione di Consonni. Davvero è molto difficile (o forse impossibile) trovare in Italia, e non solo nel Milanese, espressioni di 'magnificenza civile' negli sviluppi urbani che si sono realizzati nell'ultimo mezzo secolo. Ricordo di aver scritto un saggio mentre ero nel cuore della città di Feltre (Su un'idea di verità nell'arte, nell'architettura, nella città, pubblicato poi nel volume curato da Valerio Corradi e Enrico Maria Tacchi, Nuove società urbane, Franco Angeli, Milano 2013, pp. 183 - 203). Mi domandavo, in quello scritto, perché mai in quel centro, come in molti altri del Veneto, i turisti - in conformità d'altronde a quanto presentato ed esaltato nella pubblicità delle città d'arte - mirassero soltanto al centro storico, al cuore della città ereditata dal passato o a singoli elementi esterni al tessuto urbano ritenuti, soprattutto per motivi estetici, di significativa importanza. Mentre nessuno andava, né va, in quella città, o altre analoghe, a visitare nuovi quartieri residenziali, ancorchè decorosi, bene ordinati, dotati di tutti i servizi individuali e collettivi e con elevata accessibilità anche alle funzioni rare, necessariamente uniche, ubicate nel cuore del centro urbano. La risposta che ho dato e che ritengo di poter immediatamente confermare, è che non basta il decoro e un alto livello qualitativo delle singole strutture e anche del loro insieme a rendere attraente, affascinante, meritevole di attenzione e magari ammirazione una città. È necessario qualcosa di eccezionale. Ora, per realizzare qualcosa di eccezionale significato e qualità, e non meramente il decoro urbano, devono essere presenti alcuni elementi fondamentali. Vale a dire il potere di decisione e le risorse.

Non è un caso che a Milano come a Roma talune decisioni che si inseriscono nell'ambito della 'magnificenza civile' si siano potute realizzare nel periodo fascista, mentre non si sono realizzate nella più lunga era democristiana, nè in quella successiva, dagli anni 1990 a oggi. Certo, in talune realtà - come in Francia, Gran Bretagna e Paesi Bassi - si sono potute realizzare strutture che ritengo possano essere considerate di 'magnificenza civile' anche nell'ultimo mezzo secolo, in contesti politici democratici e liberali. Ma in quelle realtà, quel tipo di democrazia consente a chi governa una dimensione di potere molto superiore alla nostra. Questo per quanto riguarda la 'magnificenza civile'. Ma Consonni non si limita a sottolineare la carenza (o la perdita) di questo modello di riferimento culturale di eccezionale livello nello sviluppo della città contemporanea. Consonni osserva anche la miriade di centri urbani minori, a iniziare da quelli diffusi sul territorio milanese e lombardo, centri che nella loro caratterizzazione, nel loro modo di essere, appaiono disordinati, sciatti e banali nel loro complesso e in generale senza qualità anche nei singoli elementi componenti.

Un ulteriore elemento non irrilevante su cui riflettere è che non è affatto detto che la popolazione che abita il territorio italiano - a iniziare da quello lombardo o milanese - abbia la medesima considerazione, i medesimi orientamenti estetici e in generale culturali di Giancarlo Consonni. L'Autore sottolinea nel modo più forte il fatto della 'crisi di civiltà' che è anche il sottotitolo del suo libro. Su questo non ho il minimo dubbio: siamo certamente in un drammatico tornante della storia; siamo certamente in una crisi di civiltà. E questo è verificabile anche - pur se non solo - per i valori estetici, siano essi riferiti alla città nel suo insieme, piuttosto che agli elementi che la compongono. Mentre scrivo, nel luogo pubblico in cui mi trovo, vedo su un gigantesco schermo televisivo l'immagine della Trinità dei Monti e di Piazza di Spagna. Rimango un attimo in contemplazione. Ma subito mi viene da pensare che non credo affatto che in quella Roma che fece nascere quelle realtà architettoniche la maggior parte della popolazione avesse un senso artistico e una formazione culturale superiore a quella della popolazione - romana o milanese - del nostro tempo. Come ho già enfatizzato, la 'magnificenza civile' nella città era determinata, stabilita, realizzata dai potenti: pontefici, sovrani, nobili; e poi, nell'Ottocento, dai grandi imprenditori delle varie iniziative industriali e finanziarie. E tradotta in concreto da architetti-artisti valenti che possedevano ed esprimevano un sentire condiviso con i loro mecenati e governanti promotori, finanziatori, autorizzatori e guide nella realizzazione dei loro progetti.

Qui emerge l'idea che la realizzazione della città e delle scelte relative che ci concernono oggi non sono state espressione nell'ultimo mezzo secolo di una plebe ignorante come quella di Roma o Milano parecchi secoli fa. Oggi il grande numero dei cittadini è composto di persone molto più istruite che nel passato, anche solo rispetto alla prima metà del XX secolo. L'elemento che mi pare dominante nella nostra società occidentale - con un tendenza a diffondersi in tutto il mondo - è che tutto sommato alla maniera del passato vi è un ethos dominante. Per molto tempo l'ethos dominante è consistito nel rifiuto dell'eredità del passato. Vale a dire le tesi espresse dal Futurismo e dal Razionalismo, di cui le generazioni nate nella prima metà del Ventesimo secolo si sono nutrite e hanno poi tradotto in concreto, con la distruzione di molta parte di quell'eredità culturale che stava nella fisicità delle nostre città. E come conseguenza di quel modello culturale si sono avute realizzazioni che non tenevano assolutamente conto del legame del passato, tranne casi veramente eccezionali, considerato irrilevante. Si pensi al caso delle ville venete, e di molte altri siti e realtà, per lungo tempo volutamente trascurati perché considerati insignificanti.

Oggi siamo in un sistema democratico e liberale in cui le decisioni collettive sull'insieme - piaccia o non piaccia - non consistono nell'imposizione di forme prestabilite in ogni aspetto della realtà, ma essenzialmente nella fissazione di regole di comportamento in vista di esiti generali: tutela della salute; tutela dell'ambiente naturale e storico; conservazione dell'eredità culturale; risparmio di suolo; tutela della biodiversità; diffusione della possibilità di accesso alle funzioni collettive nel modo più ugualitario possibile; 'sostenibilità' in ogni tipo di intervento pubblico o privato modificatore dell'esistente; massima mobilità possibile per tutti i cittadini. Non siamo più, cioè, alla ricerca di una forma prestabilita dello sviluppo urbano; di ciò che risulta o potrebbe risultare dall'insieme di azioni individuali.

Tra i fatti che mi vengono da rimarcare con forza, in questa riflessione stimolata (anzi: determinata) dagli scritti di Giancarlo Consonni, a partire da quest'ultimo, vi è che ci troviamo a vivere e operare in una società disgregata, che ha rotto ampiamente i legami culturali e quindi di ogni tipo coi valori del passato, e che d'altronde è soggetta a una gigantesca trasformazione anche per l'enorme movimento demografico alla scala mondiale. Una società dove - accanto alle conseguenze comportamentali degli autoctoni individualisti alla scala di massa - si uniscono le conseguenze già in atto di questa sorta di pacifica invasione di milioni, diecine di milioni, centinaia di milioni di persone provenienti da tutti i continenti e da centinaia di città del mondo. In tutta Europa, ma già nell'area metropolitana milanese, il recupero dei valori tradizionali, in una fusione unitaria come Consonni auspica e spera, ritengo sia un sogno, o - se vogliamo - un'ardua la speranza. E mi viene in mente qui la conclusione di La chiesa di Polenta di Carducci. Il risorgere di un ruolo unificante della Chiesa, che porta alla realizzazione del Comune, fondendo invasori e vinti, come al tempo della vendemmia, disfacendosi nei tini le uve pigiate, 'il forte e redolente vino matura'. Certo che maturerà, ma penso sia necessario un po' di tempo, e non so assolutamente prevedere che vino sarà.

Questo nel lungo periodo. Qui e ora - e intendo nel breve e medio periodo - mi viene da pensare che rimarrà, alla scala territoriale, una distinzione tra città e campagna; che nei centri minori, nelle aree non-metropolitane italiane che persisteranno, continuerà il modo di procedere oggi presente, con il mantenimento di qualcosa storicamente rilevante alla scala locale, e lo sviluppo senza qualità sperimentato dagli anni dello sviluppo economico dagli anni 1950 fino a oggi. Nelle aree metropolitane - e in quella milanese in particolare - continuerà il modo di procedere in atto oggi, con interventi urbanistici e architettonici del tipo dominante alla scala mondiale. Vale a dire in un contesto in cui si sperimenteranno le più varie, fantasiose e appariscenti modalità espressive, senza alcun nesso l'una con l'altra. Esattamente come gli abiti in una sfilata di moda; come le opere dei creativi nelle grandi exhibitions collettive alla Biennale di Venezia o nei palazzi di esposizione d'arte contemporanea.

N.d.C. - Laureato in scienze economiche, filosofia e architettura, Andrea Villani ha diretto il Centro Studi Piano Intercomunale Milanese. Ha insegnato Economia urbana all'Università Cattolica di Milano ed è stato coordinatore del programma Sulla città, oggi. Ha inoltre diretto "Città e Società", è stato condirettore di "Edilizia Popolare" e attualmente è tra gli animatori e coordinatori di ULTRA (Urban Life and Territorial Research Agency) del Dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

Tra i suoi libri editi da ISU Universita Cattolica: La pianificazione della città e del territorio (1986); La pianificazione urbanistica nella società liberale (1993); La gestione del territorio, gli attori, le regole (2002); Scelte per la città. La politica urbanistica (2002); La decisione di Ulisse (2000); La città del buongoverno (2003).

Per Città Bene Comune ha scritto: Disegnare, prevedere, organizzare le citta? (28 aprile 2016); Progettare il futuro o gestire gli eventi? (21 luglio 2016); Arte e bellezza delle città: chi decide? (9 dicembre 2016); Pianificazione antifragile, una teoria fragile (10 novembre 2017).

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche i contributi di: Pierluigi Panza, Se etica ed estetica non si incontrano più (16 dicembre 2016); Paolo Pileri, Se la bellezza delle città ci interpella (10 febbraio 2017); Vezio De Lucia, Crisi dell'urbanistica, crisi di civiltà (18 maggio 2017).

Del libro di Giancarlo Consonni si è discusso alla Casa della Cultura - nell'ambito della V edizione di Città Bene Comune - martedì 23 maggio 2017, alla presenza dell'autore, con Elio Franzini, Gabriele Pasqui, Enzo Scandurra.

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