E meno male che c'è il calendario. Lì, almeno, il tempo che scorre ci segnala le date, le ricorrenze, gli anniversari, ci richiama al dovere della memoria ed anche a quello dell'impegno. Il caso dell'Aquila e del terremoto che l'ha sbriciolata due anni fa è esemplare. Ci impone di tornare con lo sguardo su quella terribile ferita aperta e mai rimarginata. Il centro storico dell'Aquila, due anni dopo, è immoto: del suo passato si rivedono intatte, come apparvero all'alba del aprile 2009, solo macerie; nel suo futuro dilaga un deserto di impegni disattesi, di promesse non mantenute, di progetti lasciati sulla carta e di sogni di rinascita raggelati da una lunga stagione di inadempienze. Un terremoto (in questo caso, ricordate? 308 morti e 1.600 feriti) per sua stessa natura travolge, distrugge, azzera. Si porta via cose e case e con queste, affetti, ricordi, strumenti di vita e di sopravvivenza. Si può inveire contro la malasorte ma anche contro la poca previdenza, la micragnosa miopia delle istituzioni, il vezzo di affidarsi sempre allo stellone che tutto protegge, là dove il rischio sismico si sapeva altissimo e dove, nel costruire, non se ne era tenuto affatto conto. O come nel caso della casa dello studente, un concentrato di dolore e di morte, di giovani vite spezzate per l'insipienza e per biechi interessi di risparmio sui materiali. O come ad Onna, rasa al suolo due volte nella sua tragica storia, prima dai nazisti in ritirata e poi dalle scosse. Rivisitati oggi quei luoghi, attirati dal dovere imposto dalla ricorrenza, constatiamo che la composta sopportazione degli abruzzesi e degli aquilani, i più colpiti, ci aveva commossi nel profondo. Era una dimostrazione palpabile di una dignità che la magnitudo non era riuscita a scalfire. Ma poi il fronte della ricostruzione, esauriti i lampi mediatici dell'emergenza delle prime settimane, ha sparpagliato la popolazione rimasta senza tetto e senza sostanze con un impegno, in verità, non riscontrato altrove, in precedenti catastrofi. Ma poi, il fronte della ricostruzione, esauriti i lampi mediatici dell'emergenza delle prime settimane, ha sparpagliato la popolazione rimasta senza tetto e senza sostanze con un impegno, in verità, non riscontrato altrove, in precedenti catastrofi. C'è ancora gente del Belice, nelle Marche, nell'Irpinia che si deve adattare a rinchiudersi nei containers! Ma l'Aquila, città d'arte e di monumenti alla storia e della storia, il suo centro, sono rimasti intatti nella loro quasi totale distruzione: il confronto tra le immagini di ieri e di oggi propone plasticamente tutto il non fatto, il lasciato stare, il caduto e il lasciato cadere. Questa ferita aperta non è stata richiusa, non è stata rimarginata. Attorno ad essa sono prosperate polemiche politiche, sindaci ondivaghi nelle minacce di dimissioni, fronti della protesta che portavano carriole vuote, simboleggianti il vuoto delle promesse mancate. Dai primi aiuti, dal pronto soccorso nazionale ed europeo dagli stanziamenti dai fondi per l'emergenza (1,2 miliardi), e da quelli della Ue (494 milioni) tutto si è dissolto in un secondo sisma, stavolta silenzioso ma non meno terrificante. Dei tanti paesi che a telecamere accese avevano promesso di inviare fondi per ricostruire monumenti frantumati dalle onde della terra solo il Kazakistan ha mantenuto l'impegno. E chi se lo sarebbe aspettato. Ciò che a due anni da quel 6 aprile dovrebbe muovere tutti a un nuovo slancio è proprio la constatazione che il molto detto e il poco fatto lasciano la ferita dell'Aquila aperta e sanguinante: una città meravigliosa destinata a soccombere per sempre sotto le proprie macerie non è un destino accettabile. E gli aquilani, è vero, possono e debbono fare da sé, ma non da soli: debbono poter pretendere senza sbandierare la loro delusa indignazione che gli aiuti promessi diventino beni utilizzabili. Altrimenti la pratica degli annunci roboanti, delle false promesse, della generosità pelosa si iscriveranno in una tutt'affatto ingloriosa tradizione italiana. E per fortuna che a distrarci dalla nostra colpevole noncuranza ci pensa una generosa (come il compenso ricevuto) comparsa, finta abruzzese, che in una trasmissione dove si simulano controversie giudiziarie si è sbracciata, sotto copione per strillare a tutti che in Abruzzo il terremoto è un lontano ricordo, che non ci sono problemi, che la gente è felice. Anche questo è un piccolo, avvelenato spaccato, di una simulazione propagandistica della realtà che ritroviamo, quasi fosse una metafora in tanti altri luoghi, in tante altre piaghe di cui il paese soffre. I rifiuti a Napoli, che ciclicamente ricoprono la città e la stringono in un assedio insopportabile, il problema degli emigranti sempre a un attimo dall'essere definitivamente risolto via via che Lampedusa viene sottoposta ad uno stress che non sarà cancellato dall'acquisto di una villa e di due palme. Dunque è il bisogno di verità che urge. E la dimostrazione che i guai si possono davvero sanare. Che le ferite si possono rimarginare. Sennò il Paese appare ed è come uno specchio rotto, del quale diviene impossibile ricomporre i pezzi per riavere una immagine limpida del vero e del falso. E da lì, ricominciare.