Post-sisma. Cinque anni dopo il terremoto, la città ancora aspetta una rinascita che tarda ad arrivare. Chi può va via: nel 2013 duemila iscrizioni in meno nelle scuole. E la ricostruzione non è più un affare vantaggioso neanche per la criminalità organizzata. Il manifesto, 5 aprile 2014
E’ un non luogo, questo. E la sua anima d’un tempo, il centro storico, è un marasma di puntellamenti, operai con la mascherina, ventate di polvere, caterve di calcinacci, di muri ancora sbrindellati dal sisma, di pareti demolite, di crepe, crolli e transenne, divieti, un andirivieni di carrelli elevatori e camion. E’ così L’Aquila: metà rovine, metà attesa. Sono trascorsi cinque anni dal terremoto che causò 309 morti. E le impronte di quel 6 aprile 2009 sono impresse su passi, volti, case e strade. «La ricostruzione — spiega Enrico De Pietra, giornalista — sembra essere finalmente avviata, anche se sarà lunga e sempre legata all’incognita dei finanziamenti. Ma il problema è il vuoto devastante». Palpabile tra piazze esageratamente silenziose, viuzze sbarrate, lucchetti arrugginiti, catene che serrano edifici lacerati. «I pochi esercizi commerciali rimasti — aggiunge — hanno chiuso. A parte alcuni locali, che resistono su sparute strade, non c’è nulla. Neppure gli edifici resi agibili e disponibili hanno ripreso vita: sono rimasti sfitti, forse anche perché i proprietari pretendono somme spropositate. Nella zona della Fontana luminosa, ad esempio, c’era un negozio di abbigliamento che è stato smantellato: per la locazione di quei vani sono stati chiesti 6 mila euro al mese E’ ripartita la prefettura, va bene, ma non ha prodotto alcun movimento. E’ una realtà da rinvigorire: bisogna convincere le persone a riappropriarsi di questi luoghi. Che, altrimenti — evidenzia De Pietra — diventeranno un museo a cielo aperto».
Una città surreale
Difficile tornare a far rivivere L’Aquila. Difficile tornare all’Aquila. Difficile… L’Aquila. «E surreale», come la definisce il Comitato 3e32 che per quest’anniversario – in cui vuole stigmatizzare «turisti che partecipano alle commemorazioni e passerelle di una classe politica nazionale e locale che ha evidentemente fallito» — ha organizzato una mostra fotografica, che campeggia sui principali muri, per narrare la precarietà, per «denunciare le reiterate promesse mancate, l’abbandono delle frazioni e dei piccoli centri del cratere, la totale assenza di politiche sociali e per il lavoro, il folle scempio del territorio, la mancanza di una visione comune per il futuro di una città che continua irrimediabilmente a spopolarsi».
«L’Aquila — viene fatto presente — è diventata una dispersa e disagiata periferia, dove le fasce sociali più deboli soffrono maggiormente una quotidianità difficile». Una periferia carica di problemi nascosti dentro le infinite schiere di anonime palazzine erette dopo il disastro. Erano le nuove «C.A.S.E» (Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili). «Sistemazioni provvisorie…, questo ci avevano assicurato, che sarebbero state sistemazioni provvisorie… — ricorda Marcella Dal Vecchio -. Invece, benvenuti tra le nostre pareti di cartongesso… Che, in più zone, stanno andando a pezzi. Con tubature logore che gocciolano anche liquami, con i servizi che non ci sono, le mattonelle rotte, i sistemi antisismici non brevettati, con la manutenzione inesistente, con funghi ed erba che spuntano all’interno per l’umidità, con i disagi che aumentano prepotenti».
«Un recente sondaggio del Pd — sottolinea il sindaco Massimo Cialente — riferisce che il 78% degli aquilani vive male e che per il 65% la situazione è gradualmente peggiorata. Solo il 37% pensa che nei prossimi anni, forse, potrebbe andare meglio». Perciò c’è la fuga dall’Aquila, soprattutto dei giovani. Ma anche delle famiglie: lo scorso anno, rispetto al 2009, sono state registrate 2 mila iscrizioni scolastiche in meno. Una città di emergenze, soprattutto sociali, che si nascondono timide, quasi impacciate dietro ai vicoli blindati e nei cortili inermi, stracciati, che giacciono aspettando.
Cresce la disoccupazione
Manca il lavoro. «La disoccupazione, in Abruzzo — dichiara il segretario generale della Cgil L’Aquila, Umberto Trasatti — dall’8.6% del 2008 è passata al 12.5% del 2013. In tutta la provincia nel 2008 si registravano 118.300 occupati, siamo scesi a 111.800. Bisogna creare opportunità: la sola ricostruzione materiale non è sufficiente a dare prospettive». A proposito, la ricostruzione? «Il centro storico dell’Aquila sarà rimesso in sesto in 5 anni», ha detto in una sua recente visita il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini. Mah, certo, tutti lo sperano ma nessuno ci crede.
In prima linea, ora, c’è il sottosegretario all’Economia, Giovanni Legnini, al quale il premier Renzi ha affidato la delega alla Ricostruzione. Il parlamentare, originario di Roccamontepiano (Chieti), si è impegnato a trovare i 700 milioni di euro che ancora occorrono per il 2014. «Dobbiamo giungere ad una condizione di stabilità collocata in un punto da individuare con precisione tra Roma e Bruxelles. Pervenire a un pacchetto di disposizioni normative che — spiega — eviti di continuare lo stress che da anni riversiamo sul parlamento sull’onda dell’emergenza continua. Occorre una ricognizione precisa di tutto ciò che serve, con tutti gli attori del territorio e dello Stato, per modificare e integrare la legislazione vigente».
Sciorina, invece, cifre il presidente Ance, Giovanni Frattale: «C’è una marea di gru in azione — afferma — e sono circa 1.400 le imprese impegnate in interventi edilizi, di cui 800 di fuori regione. Solo la ricostruzione privata coinvolge oltre un migliaio di aziende di 90 province italiane. Centocinquanta i cantieri attivi nel centro storico, 1.500 in periferia; 11.500 gli addetti in campo. Siamo indietro? E’ stato perso tempo? In Friuli, dopo il terremoto del ’76, la prima pietra fu posata nel ’79. In Umbria e Marche si sta ancora lavorando…». Ma quello dell’Aquila, non avrebbe dovuto essere il cantiere più grande d’Europa? «Gli sforzi sono immani — puntualizza Cialente — e, conclusa la fase di commissariamento, c’è stata un’accelerazione delle procedure». «Ci devono spiegare — tuona Pio Rapagnà ex parlamentare e portavoce della associazione Mia casa d’Abruzzo — perché non è ancora stata avviato il rifacimento delle case popolari classificate E, cioè semidistrutte». La sua protesta va avanti da un pezzo: ha anche attuato lo sciopero della fame. «Ci sono — prosegue — 78 milioni di euro ancora inutilizzati per riparare 1.750 appartamenti inagibili in cui attendono di rientrare cinquemila persone. La non ricostruzione lede un diritto soggettivo e causa un danno erariale. Anche perché i costi della ricostruzione, con il progressivo degrado degli stabili, sono aumentati, e con essi i costi dell’assistenza, visto che sono ancora molti i cittadini che beneficiano di assegni di autonoma sistemazione o dell’affitto concordato».
Vivere con dignità
Attualmente nelle dimore del progetto Case stanno in 11.670, mentre sono 2.461 quelli che alloggiano nei Map (Moduli abitativi provvisori) e 189 negli appartamenti del Fondo immobiliare. Percepiscono il contributo di autonoma sistemazione in 4.054. «Si tira avanti cercando di farlo in maniera dignitosa — commenta Sara Vegni, di Action Aid — ma le ferite inferte sono state profonde e sono tuttora aperte. Domina un sentimento di lacerante precarietà, che attanaglia tutti. Basti considerare il fatto che ci sono 6 mila ragazzi costretti ancora a studiare nei container. Finora è mancata una seria programmazione e c’è la questione fondi. Ogni tanto bisogna recarsi a Roma, col piattino in mano, a chiedere l’elemosina».
Un territorio dissestato e in parte abbandonato — quello dell’Aquila e degli altri 56 comuni del cratere — e che, dopo il dramma, ha dovuto fare i conti pure con la criminalità organizzata. C’è stato «quasi un assalto alla diligenza per arrivare ad accaparrarsi gli appalti più lucrosi da parte della camorra, della ‘ndrangheta e di cosa nostra (particolarmente quella gelese)», scrive infatti, nella relazione annuale, riferita al 2013, il sostituto procuratore nazionale antimafia Olga Capasso, applicata per un periodo al Tribunale delll’Aquila. «L’unica vera intrusione della ‘ndrangheta e della camorra — rileva — si è avuta in seguito al terremoto. Si è trattato di società saldamente impiantate nell’Italia settentrionale, attirate dagli appalti e dunque presenti in Abruzzo solo fino a quando erano prospettabili lucrosi guadagni. E’ stato documentato il dinamismo di esponenti delle cosche Borghetto-Caridi-Zindato, Serraiano e Rosmini di Reggio Calabria nell’accaparramento di appalti connessi alle opere di ricostruzione, consentendo il sequestro preventivo di beni mobili e partecipazioni societarie per un valore complessivo di circa 50 milioni di euro. E’ stato altresì accertato l’interesse di alcuni grossi esponenti della ‘ndrangheta — condannati per associazione mafiosa facente capo al clan Grande Aracri con una recentissima sentenza del 2013 del tribunale di Reggio Emilia — per gli appalti dell’Aquila.…
Intanto per la ricostruzione vera e propria della città, con i suoi palazzi antichi, i monumenti e gli edifici pubblici, tutto si è involuto verso la stasi più completa ed oggi il capoluogo sembra dormire tra le sue macerie». «La ricostruzione è ferma — dice Capasso — e i cantieri esistenti sono quelli destinati al risanamento dei condomini privati, che pure prestano il fianco allo svilupparsi della microcriminalità, essendosi verificati casi di ingiustificata estensione dei lavori pagati con soldi pubblici a danni non causati direttamente dal sisma, oppure di gonfiamento abnorme dei prezzi. Di qui diversi procedimenti penali». Adesso «l’affare ricostruzione» non è più vantaggioso, e dove «non c’è profitto la mafia lascia campo libero». E domani è lutto cittadino
Riferimenti
Al terremoto dell'Aquila è dedicata un'intera cartella ne vecchio archivio di eddyburg. Precisamente qui. Si veda inoltre qui l'opinione di Vezio De Lucia