La lotta dell'Innse è un'anomalia. Dice che esistono ancora degli operai che amerebbero continuare a fare gli operai, non sognano di aprire un bar o di farsi scritturare dal grande fratello. Rimette in discussione il nostro sguardo sugli operai. Il professor Ichino, invece, resta catafratto nelle sue certezze. Giuslavorista di vaglia, docente stimolante, uomo coraggioso, senatore non assenteista. Anche chi non condivide le sue idee e le sue ricette - e noi siamo tra questi - riconosce delle qualità a Pietro Ichino.
Ma della vicenda Innse, sia detto fuori dai denti, il professore non ha capito un tubo. Il suo commento, pubblicato ieri sul Corriere , brilla per ottusa insensibilità. Ichino riduce la lotta dei 49 operai dell'Innse a caso qualsiasi tra altri mille. L'interpreta come mera (e pigra, ai suoi occhi) lotta per non perdere il salario e un posto di lavoro qualsiasi. Gli sfugge che i 49 non resistono da 14 mesi perché vogliono assicurarsi un «posto» purchessia. Vogliono mantenere il loro di lavoro, quello che per anni hanno dimostrato di saper fare bene, in quella fabbrica lì, a Lambrate. Una fabbrica che, nonostante la ruggine sul cancello, potrebbe ancora avere commesse, se solo si trovasse un padrone un gradino sopra il livello di rottamaio. I tre mesi di autogestione gli operai di via Rubattino non li hanno fatti per tenersi in allenamento, ma per dimostrare la loro professionalità e il loro attaccamento a impianti da cui sono usciti pezzi che hanno portato il marchio Innse nel mondo. Per bloccare lo smontaggio di quegli impianti, e non per sport, in cinque sono saliti martedì sul carroponte.
Gronda di soggettività operaia e di storia industriale il caso Innse. Il senatore del Pd non vede né l'una, né l'altra. Lui vede solo «riti stanchi», lo «stesso logoro schema», un sindacato che spinge i lavoratori in «un vicolo cieco», costringendoli a «rimanere attaccati a tutti i costi a un padrone» incapace e inaffidabile. Perché tanto accanimento, argomenta Ichino, quando sarebbe facilissimo, persino in condizioni di crisi, «ricollocare altrove» quei 49 lavoratori? Basterebbe che il sindacato invece di mettersi di traverso, accettasse i licenziamenti, subordinandoli però a serie politiche di outplacement a carico dell'imprenditore che chiude un'azienda o la ristruttura. La parola inglese, che significa «ricollocazione», è un prezzemolo che non manca mai negli accordi di ristrutturazione. Anni dopo, quando si fanno i bilanci, si scopre che i «ricollocati» si contano sulle dita di una mano. E che nei rari casi in cui avviene, la ricollocazione si fa sempre al ribasso: chi era un operaio provetto finisce a mettere le scatole di biscotti sugli scaffali di un supermercato.
I 49 dell'Innse rifiutano questa prospettiva. Rifiutano un «altrove» dove la loro professionalità sarà inutile e «rottamata». Stupisce in questa epoca di operai senza identità il loro orgoglio e la loro cocciutaggine. Ma è tutta farina del loro sacco. Non è stato il sindacato, come a Ichino fa comodo credere trattandosi della Fiom, a fargli il lavaggio del cervello. Sfugge qualcosa anche ad alcuni lettori intervenuti sul nostro sito a proposito del caso Innse. Chi suggerisce ai 49 di Lambrate di «fare come in Francia», di ricorrere a metodi di lotta più «incisivi» e «violenti» dimentica una differenza sostanziale. L'obiettivo di quasi tutti i sequestri di manager in Francia è stato quello di spuntare più consistenti buone uscite, non di evitare la chiusura delle fabbriche. In via Rubattino non si lotta per ottenere qualche migliaia di euro per rimpolpare il magro assegno di mobilità. Si lotta per tenere in vita la fabbrica. Sempre sul nostro sito, qualcuno ha il dente avvelenato con gli operai diventati in massa berlusconiani o leghisti. «Vadano a farsi difendere da loro». Detto che anche gli operai leghisti meritano di essere difesi, se hanno ragione, la contumelia non si attaglia ai 49 dell'Innse. Di leghisti tra loro non ce ne sono, sono mosche bianche (o meglio rosse) anche in questo. Nel loro presidio gli zingari e i migranti sono sempre stati sempre benvenuti. Nell'Italia del rancore, della paura, dell'egoismo via Rubattino è uno dei rari luoghi in cui ultimi e penultimi si sono trovati dalla stessa parte della barricata.