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Maria Pia Guermandi
L’anno che verrà. Un anno dopo.
6 Febbraio 2007
Maria Pia Guermandi
Domani è Natale. L’albero ...

Domani è Natale. L’albero di casa Guermandi troneggia già da alcuni giorni in un trionfo di addobbi, di luminarie e di colori (detesto gli alberi monocromi, inconfutabile sintomo di sciatteria spirituale ed estetica): un po’ più ricco del precedente con i decori e i ricordi derivati dai viaggi dell’anno, da Boston a Berlino, da Cipro a Parigi; fedeli ad un rito rassicurante e apotropaico nella sua intangibilità, il 13 dicembre abbiamo appeso per prima la decorazione eponima – sonora da qualche anno a questa parte – e da ultimo il puntale. Un solo rametto è stato tenuto spoglio per appendervi il ricordo del viaggio che sta per iniziare, dopodomani.

Il nostro presepe, al contrario, è opus in fieri: per alcune settimane si arricchisce e si modifica di giorno in giorno, perché la scenografia è complessa e tutt’altro che statica, i meccanismi vanno sorvegliati (fra mulini, ninfei, succedersi astrale e artigiani laboriosissimi abbiamo un ingorgo elettrico da blackout ricorrente), ciascuno di noi aderisce ad una diversa scuola di pensiero prospettica e quest'anno c’è chi si è inguaiato con piani di fuga barocchi un po’ megalomani e di periclitante solidità. E infine, come da copione, l’ultimo corteo arriverà a destinazione solo il giorno dell’Epifania, a compimento fugacissimo, ma solenne dell’opera nel momento stesso in cui sta per essere nuovamente distrutta. Metafora teatrale del destino comune a molte imprese umane.

Fra i riti immutabili e insopprimibili di stagione vi è ovviamente quello dei bilanci: anche se pochi mesi non sono una distanza sufficiente per discernere, nel magma confuso delle tante vicende che si sono sovrapposte, gli elementi di snodo da quelli di sfondo, i passaggi fondanti dalle scorie; come di consueto in questa mescolanza difficile da interpretare si accavallano, con gerarchie fallaci e ancora contraddittorie, luci e ombre, disillusioni e speranze, qualche faticosa vittoria, qualche irritazione bruciante, un po' di amarezza e alcuni episodi piacevoli. Questo tempo sospeso fra rimpianti e ricordi è comunque privilegiato per una epoché dedicata ad una prima memoria improvvisata, ma molto partecipe.

L'orizzonte mondiale non appare granchè rasserenato rispetto ad un anno fa: il fallimento della politica americana ha aperto soprattutto nel Medio Oriente una situazione di conflitto endemico da cui, a breve, non si intravedono vie d’uscita. Il mondo arabo si è radicalizzato, in Palestina, in Iran, in tutto il Medio Oriente, incapsulando lo stato d'Israele in uno spazio sempre più islamizzato e ostile. La guerra è perduta in Iraq, sta naufragando in Afghanistan dove somiglia sempre più al disastroso intervento sovietico. Tutta la politica americana appare ora, più che mai, come il risultato di scarsa conoscenza, visione strategica distorta e ricordi storici annebbiati e confusi, mentre la minaccia terroristica, lungi dall'essere compressa, si è dilatata su innumerevoli fronti. Al posto dello state-building, obiettivo dichiarato delle azioni militari, vi sono ora una serie di Stati disastrati. Comincia a farsi strada, a più livelli, l’idea che la soluzione a questa empasse lacerante potrà venire solo attraverso un ribaltamento delle modalità politiche di gestione della crisi post 11 settembre: sarebbe allora il caso di ripensare agli appelli, fra gli altri, di Judith Butler che invitava ad elaborare quel passaggio cruciale in termini di fragilità e di interdipendenza piuttosto che di forza e di vendetta.

La crisi attuale ci ribadisce, una volta di più, che il modello occidentale che sembrava essere universale, appare sempre meno capace di governare il mondo.

Fra le contraddizioni di questo modello, assieme all’America, si dibatte l’Europa, chiamata a confrontarsi con sfide simili, ma non uguali: a partire da una identità definita ancora solo da frontiere e confini, in cui è ambigua l'affermazione dei diritti fondamentali, e che si mostra incerta nel fronteggiare le decisive questioni della guerra globale permanente e il perdurante deficit di partecipazione democratica. Un’Europa che rimuove il convitato di pietra di un processo costituente interrotto e nella quale le forze politiche, di qualunque schieramento, sembrano rincorrersi sul terreno della paranoia securitaria e sullo sperimentalismo ondivago nelle politiche sociali.

Per uscire da queste secche, molto è il cammino da compiere, a partire dalla definizione di una politica dell'immigrazione non più asservita all'utilizzo dei flussi migratori per flessibilizzare e precarizzare l'economia e quindi della costruzione di uno spazio in cui possa essere possibile aumentare il tasso di civilizzazione dell'economia.

Il compito che attende gli europei è quello di reinventare la democrazia e i diritti delle persone e dei popoli dopo lo Stato nazionale. E di fondare l'interdipendenza derivata dalla globalizzazione sull'etica del limite delle risorse, allargando il campo dei diritti non solo alle attuali, ma anche alle future generazioni.

E ancora, l'Europa come attore politico dello scenario mondiale potrà avere un ruolo decisivo solo se riuscirà a superare un concetto di multiculturalismo che si risolve in un pluralismo delle identità e che riproduce e alimenta la fissazione identitaria. Come ci ha insegnato Amartya Sen, il mondo globalizzato non è una federazione di religioni e civiltà e non è vero che le culture si muovano compattamente l'una contro l'altra: lo spazio culturale e sociale in cui agiamo è molto più complesso e ognuno di noi avrà sempre più patrie mentali e spirituali.

A partire da questo, sarà possibile creare legami e alleanze trasversali su battaglie che siamo chiamati a combattere con il numero più ampio di compagni di strada: la questione energetica, quella ecologica, la povertà del mondo che ci entra in casa, i sistemi di welfare spiazzati, l'insicurezza del reddito, il futuro incerto delle giovani generazioni, il ritorno della guerra come risposta a ciò che viene visto come il caos post guerra-fredda.

L’Europa potrà operare un duraturo ed efficace contrasto contro i modelli oggi imperanti di potenza e di forza economica solo se fondata sui pilastri dello stato di diritto e dello stato sociale, della cultura e della memoria.

Senza dimenticarsi mai, che, come ci ricordava George Steiner, ci sono solo duecento metri tra il giardino di Goethe e la porta di Buchenwald.

In quest'anno che declina i temi della biopolitica hanno conosciuto momenti di scontro asprissimo e mai come adesso abbiamo riconosciuto la lezione di Michel Foucault che già trent'anni fa asseriva come la vita sia divenuta, nel mondo moderno, un oggetto di potere determinato dal passaggio dal potere di dare la morte e lasciar vivere, al potere di far vivere e lasciare morire. Fra le ultime angoscianti immagini dell'anno, quelle dello sguardo severo di Welby ci hanno costretto a prendere atto del corto circuito palese nelle prerogative costituzionali dei nostri stati di diritto occidentali che impongono la protezione della vita anche contro il diritto del vivente, della sua volontà, della sua dignità. In questo scontro la Chiesa cattolica, attribuendosi un ruolo di legislatore etico universale, pretende di fatto un'esclusiva, quasi che l'etica del vivere e del morire (ma anche del convivere e della famiglia) appartenesse di diritto alla gerarchie ecclesiastiche. L'ingerenza religiosa sempre più massiccia, che tende a trasformare il messaggio cristiano in un prontuario di comportamenti politici, si inserisce nei vuoti della prassi democratica, soprattutto in Italia, dove il potere temporale del Vaticano e quello politico dello Stato non fanno che annodarsi sempre più, lontani ancora dal comprendere che è solo la laicità che può presiedere anche le ragioni del sacro.

Tale interferenza, d'altro canto, è conseguenza anch'essa di quell'arroccamento che già temevano un anno fa e che si è fatto via via più tangibile, più asfissiante: papa Ratzinger, in questa preoccupante ostilità al mondo contemporaneo e alla modernità, sta perseguendo una chiusura del cattolicesimo in un orizzonte culturale e sociale sempre più limitato. A partire dal discorso di Ratisbona, il dialogo fra religioni è ammesso solo se concepite come due integralismi che si fronteggiano e non si contaminano. Nell'attuale visione vaticana il dialogo appare quindi possibile solo a partire da una identità rafforzata, quando è invece sempre più chiaro che solo mettendo in discussione le proprie certezze identitarie si può avere un reale scambio.

Le grandi domande sulla vita e sulla morte richiedono nuove risposte o meglio di saper imparare da chi queste risposte le ha date e le dà nella pratica quotidiana della solidarietà e della pietas. Come le donne ribelli e autonome di Volver, il film dell'anno che ci è rimasto nel cuore, che vivono la loro vita complicata e faticosa, attraversata da eventi terribili, ma sanno trovare le risposte ai grandi problemi della vita: la malattia e il dolore, la morte, la violenza. E al male di vivere che sono costrette a subire, ma da cui non rimangono schiacciate, trovano una via d'uscita nella solidarietà complice e affettuosa con cui si muovono nei cortili interni delle loro case, ombrosi e quieti, dai giardinaggi asimmetrici e casuali, dove non entrano né gli uomini, marginali e inutili, nè il vento della Mancha, invadente e ossessivo, e dove la disarmonia esterna trova una sua ricomposizione.

Quanto al quadro politico italiano, esso ci appare a sua volta non privo di elementi di perplessità: la vittoria di aprile è stata presto assorbita da comportamenti che non abbiamo sempre condiviso. Le avvisaglie già c'erano, a partire dai meccanismi di utilizzo della legge elettorale usata per assecondare le profonde pulsioni conservatrici e autoreferenziali degli apparati di governo dei partiti e sono state spesso confermate da decisioni e iniziative seguite in apertura di legislatura.

Il senso di delusione nei confronti del governo attuale è tema di sondaggi e analisi quotidiane e si sintetizza nell'assioma del ‘cambiamento senza svolte’. E’ stato sottolineato da più voci che se Berlusconi è stato sconfitto, non altrettanto appare il berlusconismo inteso come degenerazione della democrazia, primato degli interessi privati, disprezzo delle norme e delle regole. Il populismo solleticato dal passato governo che adotta i codici dei media, semplifica i temi e banalizza il messaggio, non è svanito, ma anzi appare come un sottofondo ricorrente, come una minaccia che serpeggia nel profondo della nostra società, pronta a riapparire in maniera dirompente. Esso va di pari passo con l'essiccamento degli spazi della rappresentanza, di un sempre debole civismo democratico e del declino dell'etica della responsabilità politica.

Il corpo sociale italiano appare suddiviso secondo un modello familistico-corporativo in lobby, comitati, gruppi di interesse, associazioni, ognuna delle quali spasmodicamente presa dai suoi interessi settoriali e dal mantenimento di una rendita di posizione ed indifferente ai problemi della corruzione, della trasparenza e della fine dello stato. Le tasse continuano ad essere percepite non come il prezzo della cittadinanza, necessario a garantire servizi e tutele, ma come un vessatorio balzello. Zagrebelsky ha parlato di un paese diviso non fra destra e sinistra, tra laici e credenti, ma piuttosto tra coloro che sanno interessarsi solo al presente e coloro che sanno concepirlo come premessa di un avvenire comune. Il paese appare bloccato non tanto sul piano economico, quanto su quello sociale: blocco della mobilità di classe, inefficienza della formazione scolastica e universitaria, ricambio generazionale lentissimo, autoriproduzione delle élites: fenomeni tutti che rimandano ad un deficit politico. E' quindi soprattutto la politica, la nostra politica a dover proporre quelle mediazioni capaci di diffondere un senso del generale nei soggetti sociali, trasformandoli da soggetti passivi ed indifferenti ai problemi comuni, in soggetti attivi e dissenzienti, a far riemergere, in contrapposizione all'interesse esclusivo nel particulare che esclude e non include e che si traduce pressochè sempre nell'interesse del più forte, la necessità di tutelare il bene pubblico, cioè di tutto quello che il singolo non può tutelare da solo e diviene quindi compito della res publica salvaguardare. E assieme combattere la precarietà, la nuova precarietà che genera nuove paure e insicurezze e si traduce spesso, troppo spesso, in egoismo sociale e xenofobia. Come scrive Baumann: “Le persone spaventate a morte da una misteriosa, inesplicabile precarietà dei loro destini e dalle nebbie globali che nascondono alla vista la loro prospettiva, cercano disperatamente i colpevoli delle loro tribolazioni e delle prove cui sono sottoposti. Le trovano, non sorprende, sotto il lampione più vicino, nel solo punto obbligatoriamente illuminato dalle forze della legge e dell'ordine”.

Per lasciarci alle spalle questa opaca sensazione mista di delusione e smarrimento, abbiamo bisogno di nuove idee e di nuove armi culturali e di tutte le risorse del nostro campo: anche per questo dobbiamo reagire ad una logica di contrapposizione fra riformisti e radicali che non può che condurre ad un sistema di veti reciproci fra blocchi contrapposti e dobbiamo piuttosto tendere ad una radicalità di obiettivi perseguita con riformismo di metodi. E anche la discussione sul futuro partito democratico ci piacerebbe che ci dicesse qualcosa non su problemi di ingegneria partitica, ma sulle scelte fondanti, a partire da quella fra l'accettazione dell'egemonia del mercato, calmierata da un risarcimento dei danni sociali più macroscopici o il ristabilimento, in qualche modo, dell'egemonia della politica sull'economia.

Le scelte da compiere nei prossimi anni, nei prossimi mesi, nell'anno che verrà, sono di grande portata: investono le tematiche genetiche, le fonti di energia, la tutela dei beni comuni, la ridefinizione del concetto di cittadinanza e riguardano non più solo noi, ma per la prima volta con questa urgenza, le generazioni future: si tratta di un percorso difficilissimo, che al momento attuale appare addirittura improbo.

Però ieri, ascoltando qui a Bologna il nostro premier attorniato, per i tradizionali auguri natalizi, dagli amici e concittadini, il suo discorso, così scopertamente non mediatico, dall'oratoria così poco carismatica, ci è apparso però così pacatamente intriso di passione civile e di una visione sociale così onesta e condivisibile da rinnovargli, lì per lì, la fiducia e il consenso. Almeno fino al prossimo anno.

Forse non è molto più che una sensazione coadiuvata da un pignoletto birichino, ma va comunque rinforzata con un’analisi non prevenuta dell'attuale contesto politico e sociale, di rara difficoltà, come anche degli elementi positivi che pure esistono: fra gli auguri più belli di ieri, quelli di una giovane meridionale, da anni a Bologna per impieghi precari che, grazie alle disposizioni della vituperatissima finanziaria, avrà fra pochi mesi un lavoro a tempo indeterminato: “Grazie, presidente, di avermi regalato il futuro”.

Non è pochissimo, e su questo si può costruire.

Per quanto ci riguarda più direttamente, all'affossamento della legge Lupi registrato come un'indubitabile vittoria ad inizio d'anno, fa da corona la recentissima presentazione, in Parlamento, della legge di eddyburg sul governo del territorio che rappresenta il contributo collettivo di eddyburg alla discussione per una nuova normativa in materia urbanistica; discussione che si sta aprendo in queste settimane e nella quale si percepisce, da parte di esponenti del centrosinistra, qualche elemento di continuità con le politiche della precedente legislatura sul quale occorrerà vigilare. Ancora fra i segnali positivi di questa seconda parte dell'anno, potremmo riconoscere un'indubitabile ripresa del dibattito su questi argomenti che si accompagna ad un aumento progressivo della partecipazione sui temi urbani e del territorio registrata anche a livello demoscopico. E la così detta battaglia di Monticchiello, pur con qualche distorsione mediatica, ha avuto il pregio di focalizzare l'attenzione su aree del nostro territorio, quelle rurali, sulle quali si stanno concentrando operazioni speculative di ampiezza tale da sconvolgere, nel loro assieme e in breve tempo, assetti territoriali dati per scontati.

Ulteriore sintomo di una ripresa di interesse anche a livello non solo nazionale, può essere riconosciuto nella Biennale veneziana di Architettura che pur con qualche svarione, non poche dimenticanze e qualche semplificazione, ha indagato, con questa edizione, il tema della città e i suoi paradossi fra coesione sociale ed esclusione, ricchezza urbana e intensa miseria, luogo dell’interazione per eccellenza e, storicamente, del rinnovamento politico. L'indagine del gruppo di lavoro, coordinato da Richard Burdett, ha sottolineato la necessità di concentrare l'azione politica sulla costruzione di città socialmente più compromesse e morfologicamente più leggibili, città,

per dirla con Benjamin, 'porose', nelle quali le comunità si intersechino, anche nel conflitto. Va detto che questa lettura ci pare però insufficiente se applicata alle grandi megalopoli terzomondiali, ormai vicine ad un punto di rottura del rapporto tra urbanizzazione e possibilità di sviluppo: per le masse di inurbati diseredati, di cui ci parla, ad esempio, Mike Davis, le città rischiano di essere solo enormi bacini di raccolta di una povertà globale in espansione.

A ribadire la complessità del fenomeno urbano, nella Biennale ha trovato invece posto la ricerca di Philipp Oswalt sulle shrinking cities, le città in contrazione che stanno cioè subendo un drenaggio di popolazione. Fra queste, molte quelle segnalate sul nostro territorio, caratterizzate da fenomeni di spopolamento e dismissioni prodotti da un'accelerazione del processo di rifunzionalizzazione economica, per affrontare i quali occorrerà adottare strategie non solo urbanistiche, ma soprattutto politiche, nuove.

E infine noi di eddyburg: siamo qui, pur con qualche acciacco dovuto ad un anno vissuto pericolosamente – comme d'habitude – ma con qualche risultato raggiunto, a partire, come ricordato, dalla legge di eddyburg: solo l'inizio di un cammino che prevediamo assai complesso e non privo di insidie e che ci vedrà, come al solito, in prima linea. Per noi, in realtà, discussione e analisi sono gli strumenti quotidiani con i quali interveniamo, spesso suscitandolo, nel dibattito nazionale sulle vicende urbanistiche, sulla tutela del paesaggio e dei beni culturali, a partire dalla difesa del nuovo Codice che, pur certamente perfettibile, appare però uno strumento da sostenere soprattutto in rapporto alla montante marea di normative regionali lacunose quando non decisamente discutibili. Ci sono valide eccezioni: il piano paesaggistico della Sardegna, fortemente voluto da Renato Soru, che si colloca sulla linea interpretativa del Codice.

Assieme alle analisi, agli appelli, alle iniziative sul territorio fra le quali la scuola estiva, consolidatasi con successo in questo secondo anno di attività, questo è stato anche un anno di memorie di eventi e persone. A partire dal decimo anniversario della scomparsa di Antonio Cederna che eddyburg ha affettuosamente ricordato attraverso i suoi scritti e molti interventi di compagni di viaggio reali e ideali: a ribadire il filo di continuità che, come ho scritto in questa sede, vorremmo che ci legasse a questa figura, alle sue idee, alle sue battaglie, molte delle quali ancora da combattere. In quest'anno di ricordi ci siamo molto interrogati sulla sua attualità, da taluni sprezzantemente negata anche in recenti occasioni commemorative. E certo il 'metodo Cederna', questa sua reiterazione documentatissima e quasi ossessiva su alcune grandi questioni, sempre quelle, non appare poi molto 'attuale' in tempi di disinvolto assorbimento e rapida digestione di temi e problemi, di svagata memoria e di postmodernità liquida e flessibile che tutto rimescola e annulla. E però quei temi non sono scomparsi perchè non più attuali, ma sono stati semplicemente rimossi, occultati perchè ingombanti dal punto di vista politico e culturale. Per riemergere, in tempi recenti e recentissimi, nella loro urgenza irrisolta: il consumo di suolo, lo sprawl urbano, le periferie, la tutela delle coste. O ipocritamente travestiti: la risistemazione dell'area archeologica centrale a Roma come riproposizione edulcorata del progetto Fori, o nell'emergenza delle infinite battaglie tuttora in atto: la tutela dell'Appia Antica per la quale eddyburg, nelle scorse settimane, ha speso la sua voce.

Il 20 settembre a eddyburg è stato assegnato, dalla provincia di Roma, uno dei premi Cederna 2006; ripercorrendo a ritroso le pagine del sito di questo anno che si conclude tra poco, ci sembra proprio di essercelo meritato: l'azione di documentazione, di denuncia, di segnalazione, di analisi è stata costante, anche se a volte in affanno. Lacune, omissioni, forse qualche forzatura la mettiamo in conto, ma già si annunciano mutamenti, evoluzioni, ampliamenti, pur nelle renitenze di chi scrive. Adesso, comunque, è tempo di pensare al molto che si è fatto al meglio che si poteva, e di guardare avanti, al moltissimo che si potrà fare.

O meglio in alto, come questo pastore della meraviglia, ultimo recentissimo acquisto napoletano per il mio presepe, che, allargando le braccia, guarda in su, estatico, verso la cometa e rapito dall'incanto di tanta bellezza, vi si abbandona.

“Chi non si aspetta l'inaspettato non troverà la verità”. Eraclito

Buon Natale.

Bologna, 24 dicembre 2006

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