La Repubblica, 26 marzo 2015
Proprio contro questa visione, sulla base di studi antropologici, storici, sociologici e filosofici, alcune studiose femministe hanno proposto il concetto di genere, per indicare quanto di costruzione sociale — per lo più entro rapporti di potere asimmetrici — ci fosse e ci sia tuttora in ciò che viene definito maschile e femminile: nelle caratteristiche, capacità e possibilità attribuite all’uno e all’altro sesso e alle regole che dovrebbero governare i rapporti tra i due. Sono costrutti sociali così potenti da essere diventati, direbbe Durkheim, “fatti sociali”, dati per scontati e utilizzati sia come modelli organizzativi in società e in famiglia, sia come mappe mentali che guidano le scelte soggettive e danno perfino forma ai desideri. Per questo può apparire “innaturale” che una donna non desideri avere figli o che voglia avere sia figli che una carriera professionale, o che un uomo si dedichi più alla cura dei figli che alla propria carriera, che uomini e donne vogliano scegliere le proprie mete e avere identità meno rigide e polarizzate lungo il crinale della differenza sessuale. È a motivo della potenza di quella visione pseudo-naturale che in alcune società le donne sono considerate “naturalmente” esseri inferiori agli uomini, che questi possono usare e controllare a piacimento.
Se nelle società democratiche si è raggiunta una qualche misura di uguaglianza tra uomini e donne è perché si è permesso a uomini e donne di sviluppare le proprie capacità e interessi senza essere confinati nella propria, pur importante, reciproca differenza sessuale ed insieme essere più liberi di vivere quella differenza. La cultura, l’incessante opera di costruzione sociale che è la caratteristica del vivere umano, è diventata più riflessiva anche su questo fondamentale aspetto dell’umanità, la differenza sessuale, come univoco e immodificabile destino. Una conquista, non uno «sbaglio della mente umana», secondo le parole di papa Bergoglio riprese da Bagnasco.
Anche l’orrore per l’omosessualità e l’assimilazione di questa al rifiuto della differenza sessuale nascono da quella visione di una umanità stereotipicamente dicotomizzata. A chi riduce l’identità delle persone prevalentemente, se non esclusivamente, al loro corpo sessuato, l’omosessualità non appare solo una devianza sessuale che rompe la norma dell’eterosessualità complementare. Appare anche un “innaturale” ibrido umano, in cui si confondono maschile e femminile. Tutto sommato, è la vecchia concezione della omosessualità come inversione sessuale, come il fare l’uomo in un corpo di donna e viceversa.
Per chi appiattisce le potenzialità e varietà degli esseri umani alla dicotomia della differenza degli organi sessuali e dell’apparato genitale, l’omosessualità appare mostruosa, letteralmente, sia sul piano della natura sia su quello sociale, come un ippogrifo, o un uomo-cavallo. Ma altrettanto, se non mostruoso, pericoloso appare ogni comportamento di uomini e donne che smentisce l’ovvietà degli stereotipi. Mentre agitano lo spettro della «colonizzazione da parte di una teoria del genere che mira alla creazione di un transumano», le parole di Bagnasco testimoniano il persistere di teorie e pratiche che, in nome della natura, vogliono costringere uomini e donne nella corazza di ruoli e destini rigidi e asimmetrici, riduttivi della ricchezza, varietà e potenzialità degli esseri umani. Non è questo che vogliamo per noi stesse e per i nostri figli e figlie.