il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2017
I naufraghi che arrivano morti a Lampedusa sono nudi. I lampedusani li vestono coi propri abiti e danno loro una tomba. Lo ius soli che tutti cercano è qui, nel cimitero dell’isola dove questi scappati per mare trovano una zolla e qualcuno anche un nome. Il naufrago che arriva a Lampedusa quando sta per annegare urla il proprio nome per sapersi presentare perché solo in questo modo, galleggiando – pur sbocconcellato dalle spigole – riafferma l’essere lui una persona e non lo “zero, virgola” di un calcolo.
Il naufrago è recuperato in acqua dalla Guardia Costiera e da lì, insaccato, approda allo stanzone dei morti nudi di tutto, pure di bara, con il custode che corre portando pantaloncini, magliette e legname, tanto legno con cui chiuderli – i morti, i naufraghi – per sorvegliarli nella pietà della terra che tutti ci fa uguali.
La Guardia costiera “che esce quando tutti rientrano” trova al largo una barca. Vi dondola dentro un liquame ustionante di benzina, urina e acqua di mare: una catasta di cadaveri putrefatti.
Solo il custode del cimitero sa come metterci mano, e quindi Compassione, su quella pappa informe. Il fetore della carne squagliata artiglia il blu incantevole del mare e del cielo.
Il custode, allora, alza l’ingegno: strappa dall’orto di casa sua le foglie d’alloro, le raduna in un fazzolettone che s’annoda in faccia al modo dei banditi del West e così coperto – proteggendo il proprio respiro – procede col da fare. Dal suo fagotto prende gli abiti asciutti con cui vestire i profughi, quindi scava, li seppellisce e poi vi mette sopra la croce.
“Come, la croce?” gli dicono tutti. “Non sono cristiani come noi, saranno di certo musulmani, dovevi metterci una cosa loro in segno di rispetto, una Mezzaluna”.
Ma solo il custode del cimitero, con l’alloro in faccia, conosce la parola giusta: “Se li avessi seppelliti sotto un altro segno li avrei fatti diversi da noi, il vero rispetto è farli uguali a noi”.
È come attraversare una dolorosa canzone a due voci trovarsi qua, a Lampedusa, e leggere Appunti per un naufragio di Davide Enia (edizioni Sellerio). Questo è lo scoglio dove si registra il numero più alto di riconoscimenti di cadaveri in una zona non di guerra. E così, sfogliare quelle pagine di realtà e camminarci dentro – con la cautela propria dello stare in un camposanto, tra le tombe – fa scoppiare in petto la verità.
Una granata che scoppia nel cuore è Lampedusa. I lampedusani si fanno in quattro per capire come aiutarli, i naufraghi – i sopravvisuti, e le salme – e il medico, presente da sempre, non ha certo fatto il callo alla fatica dei mangiamorte.
Ed è sempre come la prima volta. Poco prima di aprire il sacco necroforo supplica Dio mormorando “fa che non sia un bambino” – fa-che-non-sia-un-bambino! – poi va a spalancare quella borsa e vi trova proprio un bambino: “Era”, scrive Enia, “una cosuzza così.”
Enia nel suo libro descrive Pietro Bartolo – lui è il medico – mentre rivive lo sconforto di quella autopsia: “Le mani del dottore erano ferme nell’indicarne la statura. Non più di quaranta centimetri. Il bambino poteva avere un paio d’anni.”
E chissà adesso – in quale fossa, sotto quale lastra – è finito questo piccolino. Chiunque arrivi qui, tra le tombe di questo cimitero, scruta ogni placca – ogni buca – e s’interroga: “Dove l’avranno messo quel pesciolino?”
Chi legge Enia non può che andare a vedere e capire. Ecco qua, dunque, il pezzo di terra dove il mare, la benzina e l’urina hanno trovato tomba. Eccolo: un cespuglio fiorito, i lumini e “l’arriverò” di Cesare Pavese tra le croci. Così si legge: “Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva e arriverò”.
Tra le cale ricche di memoria, come nella grotta dedicata alla Madonna di Porto Salvo, c’è il segnale che da secoli, ormai, marchia l’isola. Al tempo in cui parlavano le armi dell’Orlando Furioso, come nella battaglia di Lampedusa – tre cavalieri mori e tre crociati – descritta da Ludovico Ariosto, coi cristiani hanno trovato sosta anche i musulmani fino a farne un porto franco.
Un segnale che fa stare insieme tutti, oggi, comunque c’è: un timone conficcato sul terreno. Lo stesso legno delle barche usate nelle traversate indica il luogo del qui riposano “musulmani e cattolici, vecchi e giovani, neri e bianchi…”
Un altro segnale scavato nella viva carne dei popoli è nella tela nella grotta che raffigura la Madonna, il Bambino e Santa Caterina. Il quadro, oggetto di infiammata devozione, nell’incastro dei dettagli e delle affinità svela un’intimità con il Monastero di Santa Caterina di Alessandria, in Egitto, da sempre collegato con questa isola che è ancora Africa quando Linosa, invece, è già Europa.
È il monastero dove Muhammad il Profeta accordò la sua protezione e dove i cristiani vollero erigere una moschea che purtroppo non poté mai accogliere la preghiera per via di un errore di costruzione: non era orientata a Mecca.
Ogni indizio rivela l’imprinting.
Una tomba antica e senza nome, addobbata di piastrelle color turchese, svela all’occhio una suggestione più che una data: quell’anno Mille in cui erano appunto solo mille gli abitanti dell’isola di Lampedusa e tutt’e mille saraceni.
La prova Qibla con l’i-phone, l’applicazione dello smartphone che indica la direzione di Mecca, conferma: l’elegante fossa è correttamente rivolta verso la preghiera. Tutto il resto, no. Tutto è confusione nel segno di fare presto e fare al meglio.
I fiori sono scelti finti apposta per restare lungo a sulle pietre, ancora più duraturi delle lapidi di plexiglass del “Qui riposa”.
Ecco, se non un nome, la storia: “Il corpo di una donna di età compresa tra i 30 e i 40 anni viene rinvenuto dagli uomini della Guardia di Finanza a circa 5 miglia da Capo Ponente” La data, quindi: il 7 giugno 2008.
Ancora una data: 26/02/1973 –21/01/2009. Èla tomba di Eze Chidi: “Nato in Nigeria è stato ritrovato senza vita in un’imbarcazione a bordo della quale tentava di raggiungere l’Europa”.
Sono più di vent’anni che dura, la storia. Paola e Melo dicono che è la tomba a segnare l’appartenenza. È la tesi dell’antropologo Marco Aime, loro amico, un tema fatto proprio dal Forum Lampedusa Solidale che non è un’associazione, ma solo un gruppo di persone che in questo punto sul mare – il più vicino all’altro oceano, quello di sabbia – trova un bandolo alle esistenze venute a morire nel Mediterraneo dopo essersi lasciate alle spalle il Sahara.
Un ragazzo somalo che muore e fa sapere chi è – racconta Paola – rinuncia allo ius soli di qua perché la famiglia, nell’urgente richiamo dello ius sanguinis di là, in Somalia, viene a Lampedusa e se lo riporta a casa.
Per marocchini, tunisini, eritrei e nigeriani capitati qui è il tumulo a stabilire il domicilio. E mentre i sopravvissuti – indiscutibilmente vivi – diventano cifre di statistiche, i morti sono uomini e donne anche a dispetto del “pare che…”
Ed ecco il sepolcro di Yassin: “Pare che si chiamasse Yassin. Pare che Yassin venisse dall’Eritrea, che fosse stato arrestato senza motivo e chiuso in uno dei tanti lager libici. Pare che avesse un bimbo e una moglie in un centro di accoglienza in Svezia e che volesse raggiungerli. Quello che è certo, è che è arrivato a senza vita a Lampedusa.”
Paola e Melo gestiscono un B&b sull’isola che è come una camera di compensazione tra l’incontrovertibile fatto della bellezza assoluta e l’epica di Lampedusa.
Enia vi ha scorto il genius loci in quella residenza e sono loro, personaggi della realtà trasferiti nella verità di sguardo e parola, a dare testimonianza. Nel libro, e poi ancora dopo, quando le pagine sono state chiuse: “I veri soggetti di questa storia, quelli che andrebbero ascoltati per comprendere i tanti perché di questo esodo di massa vengono rinchiusi nei Centri e zittiti nei loro diritti e nelle loro ragioni.”
Un libro che si legge coi piedi, questo di Enia detto Davidù nella realtà eclatante di una storia – quella del confine estremo d’Italia – diventata epica. Un libro da inghiottire trovando nomi. E tombe.