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L’America alla svolta
22 Gennaio 2009
Articoli del 2009
Con le sue liturgie simboliche è iniziata la presidenza sulla quale si addensano le speranze – tante, forse troppe – del mondo. Ciotta e Dominijanni su il manifesto, 21 gennaio 2009 (m.p.g.)

Rifare l’America

di Mariuccia Ciotta

«Sappiate che l'America è amica di ciascun uomo donna bambino che cerchi un futuro di pace», in questa frase sta il senso del discorso di insediamento del 44mo presidente degli Stati uniti, Barack Hussein Obama, ieri davanti a due milioni americani al National Mall di Washington e a una platea mondiale partecipe perché non è la potenza a fare grande un paese - «la potenza da sola non dà sicurezza» - ma «l'uguaglianza e la libertà» di «ciascuno e di tutti».

Diciotto minuti che segnano il passaggio all'«era della responsabilità», quella del rifiuto della guerra e dell'apertura al dialogo, a partire da un nuovo rapporto col mondo musulmano «basato sul rispetto». Le false promesse, ha detto, sono finite. «Il mondo è cambiato, dobbiamo cambiare anche noi». Obama ha parlato con le parole di Franklin Delano Roosevelt: «dobbiamo rifare l'America» e il riferimento non è solo alla crisi economica, ma a una rivoluzione culturale che salvi il paese, non più desiderante, sprofondato nella depressione materiale e immateriale. Ed è la memoria dei padri fondatori, il ritorno agli ideali perduti, il leit motiv del suo discorso, così come le parole «umiltà», «fiducia», «solidarietà» e il primato della speranza sulla paura.

Le energie da mettere in moto non sono solo quelle rinnovabili - contro il surriscaldamento del pianeta - ma quelle di una mobilitazione collettiva che guardi a chi ha perso il lavoro, la casa, la vita stessa, ancora echi rooseveltiani per indicare il «bene pubblico», la scuola, la salute. Un altro sguardo non indifferente ai sud del mondo, l'ospitalità verso gli immigrati e gli uomini di ogni religione ed etnia, «unire l'immaginazione per fare delle cose buone»... non è un «messia» che parla ma il catalizzatore di una attesa comune, perché non «dobbiamo chiederci se il nostro paese è grande o piccolo ma se la gente può vivere».

Un'attesa che non è andata delusa. I fan incantati davanti al palco di Capitol Hill, hanno tifato per loro stessi, per l'esodo dalla stagione del lutto. Ma oltre a rievocare per tutti «il diritto a perseguire la felicità», Obama ha toccato un punto che sarà centrale nella sua presidenza. La sua grande sfida sarà quella di infrangere il tabù del «cambio di sistema», che dal dopoguerra ha condizionato la politica americana. Il mercato non è di per sé «buono», non si autoregolamenta, il crack che porta alle perdita di mezzo milione di posti di lavoro al mese non si supererà solo con l'aiuto di denaro pubblico alle imprese. Obama è obbligato a un «new deal», a prendere atto che la crisi non è una malattia transitoria e ricorrente del liberismo, e rischierà come gli scrive Paul Krugman, premio Nobel per l'economia, di sentirsi chiamare «marxista», un presidente che nazionalizza e che minaccia l'american dream. Ma il «sogno» è già cambiato, non è più un sogno solitario, e si accompagna a un «declino» inteso come futuro migliore.

Ieri l'evento all'insegna del «we», noi, «tutti e ciascuno», ha una portata simbolica che va al di là del primo presidente afro-americano della storia, sta nella vittoria degli uguali e diversi, uniti da quell'«emotional intelligence» che ha conquistato il pianeta, sintonia di razionalità ed emozione, un'opera d'arte collettiva che è già un formidabile «change».

L'eredità ritrovata all'uscita dall'infanzia

di Ida Dominijanni

Non è da dio che ci viene la chiamata né dal futuro, diceva Walter Benjamin, ma da chi ci ha preceduto su questa terra. Sono loro, le generazioni passate, che ci chiamano a ereditare e completare la loro opera, a riscattare le ingiustizie che hanno patito, a onorare le promesse che non hanno avuto il tempo di mantenere. Investito di attese messianiche e di transfert salvifici, Barack Hussein Obama manca sapientemente l'investitura dell'onnipotenza divina e parla da umano ad altri umani, indicando nei comuni antenati la stella della via da percorrere e del lavoro da fare. Sta lì, nelle radici e nell'origine, nella memoria e nell'eredità, nei «sacrifici dei nostri predecessori» e nelle parole dei «nostri documenti fondativi», il futuro dell'America. E' da lì, più precisamente, che bisogna «cominciare di nuovo il lavoro di rifare l'America».

Lavoro simbolico e materialissimo insieme. Scarno di retorica - assai più scarno di quello della notte della vittoria a Chicago - eppure poetico nella scelta di ogni aggettivo e ogni sostantivo, il discorso inaugurale non evoca solo valori - libertà e uguaglianza, coraggio e fair play, tolleranza e curiosità, lealtà e patriottismo - ma è popolato di immigrati, di pionieri, di lavoratori con le mani callose, di madri che sanno nutrire i figli, di tutto ciò che materialmente ha fatto e deve rifare l'America e che simbolicamente l'ha resa grande, prima che venisse, in tempi più vicini a noi, disfatta. Da che cosa? Dall'irresponsabilità economica. Dalla retorica della grandezza, che invece «non è data ma va conquistata». Da «le piccole lagnanze e le false promesse, le recriminazioni e i dogmi scaduti, che per troppo tempo hanno soffocato la nostra politica». Cambio di retorica, cambio di stagione: «Restiamo una nazione giovane, ma è giunto il tempo di lasciare da parte le cose infantili». Uscire dall'infanzia, per l'America, significa abbandonare il falso mito dei primati garantiti e muscolarmente esibiti, e ritrovare la misura. La misura di un paese che rischia il declino ma resta purtuttavia «il più prosperoso e potente della terra», e da questa posizione deve parlare al resto del mondo, ritrovando «la forza delle convinzioni e delle alleanze e non solo delle armi», riaprendo il dialogo con altre culture, offrendo amicizia ai più deboli, mostrando alla minaccia terroristica «che il nostro spirito è più forte», imparando a giocare il proprio ruolo «in una nuova era di pace». Uscire dall'infanzia significa, in una parola, entrare nell'età della responsabilità.

E' una svolta di centottanta gradi dalla retorica del dopo-11 settembre, una data che Obama non cita, dichiarando così implicitamente finita la stagione della grandezza ferita, della revanche, del contrattacco, della rivendicazione identitaria militarmente presidiata. Adesso, bisogna «tirarsi su, togliersi di dosso la polvere», e ricominciare a tessere con il filo «della nostra storia migliore». E se c'è qualcosa da rivendicare non è l'identità monolitica e aggressiva di un primato occidentale, ma l'eredità «patchwork», differenziata e plurale, di «una nazione di cristiani e musulmani, giudaici e indu e non credenti», di una comunità di lingue e culture diverse, che ha assaggiato «l'amaro pasto» della guerra civile e della segregazione, e proprio per averlo assaggiato sa e crede che «gli antichi odi devono passare e le linee tribali devono dissolversi». Il nuovo leader, l'afroamericano che ha giurato sulla bibbia col suo nome musulmano è lì per questo, per mostrare che «il mondo è cambiato e l'America deve cambiare», che la segregazione razziale è alle spalle e le guerre di civiltà sono sospese, che una nuova generazione sa rispondere alla chiamata di chi l'ha preceduta sulla terra, raccoglierne e rilanciarne l'eredità. L'incubo è finito, l'America può ricominciare a vivere.

Qui il video del discorso con i sottotitoli

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