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Andrea Bajani
Laggiù nel Far East, dove i selvaggi lavorano in fabbrica
2 Aprile 2007
Articoli del 2007
Uno scrittore in viaggio attraverso le nuove geografie della colonizzazione che depreda ed omologa. Da l’Unità, 2 aprile 2007 (m.p.g.)

La prima volta che sono atterrato in Romania è stato un anno fa, aeroporto Otopeni di Bucarest, all’una e mezza del pomeriggio. Sono partito da Torino una mattina all’alba, senza sapere che cosa avrei trovato, con troppi pochi preparativi per avere delle aspettative da collaudare e troppi pochi pensieri pregressi per avere delle domande alle quali cercare risposta dall’altra parte dell’Europa. Sono partito con l’unica sensazione che quello che stavo facendo mi riguardava nel profondo. Quando sono salito sull’aereo avevo in tasca un paio di indirizzi, un numero di telefono romeno e sei o sette nominativi di aziende italiane da cercare e a cui chiedere udienza. Il motivo concreto per cui avevo deciso di partire era proprio quello: volevo incontrare e parlare con gli imprenditori italiani che avevano spostato la produzione (e in molti casi la residenza, la vita, gli affetti) in Romania. Perché la Romania? Perché la Romania era stato tra i primi paesi ad assistere alla delocalizzazione italiana, perché c’erano quasi ventimila aziende italiane che avevano piantato le tende là, e poi anche perché avevo quel numero di telefono in tasca, che rendeva più semplici tutte le cose. Questo mi sembrava un motivo sufficiente per fare questo viaggio, e per avere l’impressione che questo viaggio mi riguardasse profondamente, come italiano e come europeo dell’Europa dell’ovest, se ha qualche senso questa distinzione cardinale. Per quasi un mese, quindi, ho girato la Romania, salendo e scendendo da macchine, salendo e scendendo da autobus, salendo e scendendo da metropolitane, e soprattutto dondolando lentamente sui treni romeni. Da Bucarest sono passato in Transilvania, poi dalla Transilvania a Timisoara, dove negli anni è sorto un autentico distretto industriale italiano. Il mese che ho passato là l’ho trascorso a fare domande, registratore alla mano, agli imprenditori italiani, e poi ai loro dipendenti romeni e poi via via ad altre persone romene finite sulla mia strada in quell’arco di tempo.

Ma ora facciamo un passo indietro, torniamo indietro di 500 anni. Parliamo di Antonio Pigafetta. Antonio Pigafetta Patrizio, «vicentino e cavalier de Rodi», ci ha lasciato come testamento la testimonianza più sapida ed efficace di un esploratore in azione. Partito dalla Spagna al seguito di Ferdinando Magellano, «nell’anno della natività del Nostro Salvatore 1519», Pigafetta segue fedelmente Magellano nel suo giro del mondo. Ha tempo da perdere, soldi da spendere, e si imbarca pagando la sua quota, come un miliardario intubato dentro una navicella spaziale. Sono gli anni delle prime colonizzazioni: le potenze europee hanno bisogno, per portare avanti i loro traffici, che esista un mondo tutto nuovo da sfruttare. E per sfruttarlo hanno necessità di comprovarne l’esistenza: è per questo che le potenze mandano in avanscoperta, con budget adeguati, ciascuna i propri esploratori. Ferdinando Magellano (e prima di lui Cristoforo Colombo) è tra questi. Il miliardario Antonio Pigafetta assiste, trascrive tutto nella sua Relazione del primo viaggio intorno al mondo, e consegna ai posteri lo sguardo del colonizzatore sul mondo nuovo che si appresta ad essere colonizzato. Attraccati, tutti quanti, nella terra di Verzin, Magellano e compagni incontrano gli indigeni («vivono secondo lo uso della natura e vivono centovincinque anni e cento quaranta») e interagiscono con loro. Ecco la descrizione che di questa interazione fornisce Pigafetta di ritorno dal viaggio intorno al mondo: «Per un amo da pescare o uno cortello davano 5, o 6 galline: per uno pettine uno paro de occati; per uno specchio o una forbice, tanto pesce che avrebbe bastato a X uomini; per uno sonaglio o una stringa, uno cesto de batate; queste batate sono al mangiare come castagne e longhe come napi; e per uno re de danari, che è una carta da giocare, ne detteno 6 galline e pensavano ancora averne ingannati». La storia della colonizzazione sta scritta tutta in queste righe, in cui c’è tutta la postura che nasce dalla percezione di una superiorità in qualche modo evolutiva del colonizzatore sul colonizzato. Ma né Magellano (che non sopravviverà al suo giro del mondo, anche se lascerà sugli atlanti traccia imperitura del proprio passaggio) né il miliardario Pigafetta saranno i primi né gli ultimi. Si andrà avanti per secoli, di colonizzazione in colonizzazione, di selvaggi in selvaggi.

E si passerà per la grande epopea del Far west, la colonizzazione più mitizzata della storia, più travisata dalle narrazione epiche che l’hanno traghettata fin qui. I pionieri che alzano la polvere sulle strade, andando a ovest, incolonnati per vie non ancora calpestate dalla civilità, e poi gli indiani, afasici e zotici (Pigafetta docet) accucciati dietro i cespugli con le penne infilate sulla testa, anelli metallici inseriti in tutte le parti del corpo, la bocca in grado soltanto di dire Augh, e le mani buone solo a lanciare frecce con l’arco o a modulare i suoni davanti alla bocca.

Ecco, io quando ho preso l’aereo di ritorno da Bucarest, un anno fa, mentre sorvolavo la Romania per tornare in Italia, ho pensato di essere stato nel Far west. Nel Far east, per l’esattezza, dall’altra parte dell’ovest. Dall’alto ripassavo la sterminata campagna romena, campi su campi, e poi quelle infilate di capannoni messi l’uno accanto all’altro come Lego di colori diversi. E pensavo a quello che avevo visto, ai quei pionieri scesi lungo strade meno polverose di quelle del west, con ruote gommate e non con carrozze. E ho pensato che erano loro per primi, a raccontarsi come pionieri, seduti al sole a seccarsi la pelle davanti ai loro capannoni, nelle rare pause del lavoro. Erano loro per primi a raccontare i romeni come fossero indiani dietro i cespugli, a pagarli con poche centinaia di euro ogni mese, un pettinino, qualche sonaglio e qualche carta da gioco, magari un re di denari. Quante volte avevo sentito dire in quel mese, a noi italiani, che gli avevamo tolto il Medioevo dalla testa? Troppe per non pensare agli indiani dietro i cespugli, e agli anelli infilati in tutte le parti del corpo.

Caduto Ceausescu, nel 1989, i pionieri erano venuti giù lungo le strade, con gli specchietti e i sonagli dentro le borse. Gli specchietti erano i centri commerciali, gli americanissimi Mall tirati su con la stessa megalomania del palazzo eretto da Ceausescu nel centro di Bucarest. Gli specchietti, le vetrine, i vestiti firmati, i cellulari, le cose che luccicano. Dall’altra le piume sui cappelli, i vampiri e gli animali. Mentre l’aereo saliva su in alto, sopra i cieli di Bucarest, pensavo ai romeni che avevo conosciuto in quel mese, che guardavano con fierezza quei Mall e quelle vetrine, e a una ragazza che mi aveva confessato di avere usato lo stipendio di un mese per un paio di Nike. E pensavo alla differenza tra colonialismo di un tempo, che in qualche modo lasciava che i selvaggi vivessero da selvaggi, e quello che avevo sotto gli occhi, che aveva bisogno di omologare i conquistati ai propri consumi. Mi venivano in mente le vecchie Dacie ferme al semaforo accanto ai fuoristrada, le insegne pubblicitarie su tutti palazzi, e contemporaneamente la povertà dilagante, il traffico delle donne, e tutti quegli esodi di gente che se ne andava da lì, perché con lo specchietto, il pettine e i sonagli ci si faceva ben poco. Mi veniva in mente mentre tornavo a casa. Mi veniva in mente anche che non avrei pensato di sentirmi dare alcune risposte, come che quando c’era Ceausescu si pativa di gran lunga di meno la fame. Quando si prende in mano uno specchietto, la prima cosa che colpisce è quanto luccica quando un raggio di sole ci finisce contro. La seconda cosa è la faccia che ci si vede dentro, guardandosi. Solo così ci si può rendere conto di quando la propria faccia è diventata identica a quella di un altro.

Il testo di Andrea Bajani è parte di una relazione che lo scrittore torinese terrà il 3 aprile prossimo a Milano a un incontro su Le nuove città globali, insieme a Suketu Mehta (Maximum City. Bombay città degli eccessi, Einaudi) e l’architetto Cameron Sinclair.

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