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Negli ultimi due o tre anni, il tema delle esigenze nell’ambito dell’accoglienza ai migranti aveva finalmente iniziato a fare presa e a mostrare i primi risultati a macchia di leopardo, segno di una lenta eppure percettibile volontà di cercare soluzioni nuove che restituissero autonomia, prima di tutto economica ma non solo, agli ospiti delle strutture di accoglienza.
Attacco all’accoglienza
La politica migratoria italiana, specialmente da un anno e più a questa parte, mira al cuore e spezza le gambe a chi cerca di percorrere la già accidentata strada verso l’autonomia. L’inganno è sottile, ma l’obiettivo che si persegue è molto chiaro: nell’impossibilità di precludere totalmente l’accoglienza, in virtù degli obblighi legislativi e costituzionali e dei trattati europei e internazionali, “sono costretto ad accoglierti. Tuttavia, ti nego ogni possibilità. Ti tengo qui, per un tempo infinito, finché non ti sfinisco. Se prendi un’iniziativa, rendo tutto così complicato da farti mollare la presa, da scoraggiarti finché non smetterai di provarci.” Per i più caparbi e intraprendenti, c’è sempre la tagliola della risposta alla domanda di asilo: rischiano di non avere alcun permesso, se non appartengono alla famigerata lista di paesi di veri rifugiati. Dove non arrivano a fermare gli scarsi strumenti di integrazione economica e lavorativa, ci pensa, perciò, la burocrazia. È come se saltassero le maglie di quella sottile collana che dovrebbe legare insieme ogni elemento del percorso migratorio: documenti, accesso ai servizi di base, formazione scolastica e professionale, ricerca lavoro e dell’autonomia abitativa. Ogni maglia fatica a raccordarsi con la successiva; ogni processo è scollato, e quando viene anche un solo passaggio, la persona rischia di rimanervi impigliata per anni. In questo aspettare a nervi scoperti, paralizzante, si può immaginare quanto sia complesso trovare un proprio equilibrio e tenere alto il morale: c’è chi si deprime, chi si arrabbia; qualcuno perde la pazienza e la calma, assorbito dai pensieri che si accalcano nell’attesa; altri ancora, mollano la presa, e si alzano dal letto con sempre più fatica.
Finora è stato così. Adesso, ci penserà il nuovo decreto sull’immigrazione, al vaglio in questi giorni, a stringere ancor più violentemente la presa. Il nuovo piano immigrazione limiterà i servizi relativi all’inclusione e all’integrazione ai soli titolari di protezione internazionale. I tempi di attesa per i richiedenti asilo saranno, a quanto pare, più brevi, ma la loro permanenza all’interno delle strutture di accoglienza diventerà ancor più inutile, e immobile. Per loro, il decreto prevede anche il restringimento all’accesso ai servizi comunalie l’impossibilità di accedere nello SPRAR, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Tutto questo renderà il percorso dei migranti ancora più difficile ed esasperante, aumenterà la pressione sul vivere quotidiano, sulle piccole cose che peseranno e si faranno più complicate. Per molti non ci sarà altra via, una volta preclusa la formazione linguistica, l’orientamento lavorativo e ogni strumento necessario all’integrazione, che finire in strada, ai semafori e ai parcheggi dei supermercati, come già avviene.
Il tempo dell’accoglienza
Un piccolo passo indietro è, dunque, necessario per inquadrare cos’è quel tempo dell’accoglienza che si è voluto andare a colpire con la direttiva del 23 luglio e il nuovo decreto “Salvini”. Un tempo che, come abbiamo indicato, si è sempre faticato a considerare con la dovuta attenzione, sia dal punto di vista quantitativo ma, soprattutto, qualitativo. La situazione italiana prevede percorsi di istruzione e formazione che non di rado hanno inizio in fasi avanzate dell’accoglienza; non sempre riescono a svolgersi in maniera strutturata, ed il numero di coloro che vi hanno accesso non copre affatto tutta l’utenza. Non mancano ovviamente le buone pratiche e il lavoro onesto di tantissimi che operano nel settore, ma si tratta ancora di una situazione, specialmente nei CAS, dove si naviga -seppure con cuore e professionalità- a vista. La capacità di uscire indenni dal circuito dell’accoglienza ed essere autonomi rimane, di fatto, ancora in larga parte affidata alla particolare intraprendenza dei singoli ospiti, secondo le diverse situazioni di partenza e le differenti risorse interne di ciascuno. Tra lo sbarco e l’arrivo dei documenti possono trascorrere anche due anni: un pezzo di vita che si trasforma, per una parte dei migranti, in un’attesa esclusiva, nel senso di escludere ogni altro aspetto del vivere quotidiano. Diventa normalità l’assenza (o la forte riduzione) di quella parte di vita fatta di interessi personali e rapporti umani che è parte integrante del ben-essere di ciascuno; come se fosse pensabile vivere di soli bisogni senza perdere, aspettando che la burocrazia faccia il suo corso, qualcosa di sé. Si dissipano in questo tempo le energie, gli slanci, le aspirazioni che accompagnano le persone al loro arrivo: si abbatte quella capacità di reagire [1] così preziosa, che rappresenta il motore di una vita in perenne ricerca di una realtà in cui riconoscersi e ritrovarsi.
In questo contesto, è l’attenzione alle esigenze di cui parla lo psichiatra Fagioli, ossia a tutti gli aspetti legati a quel mondo personale ed altro fatto di affetti e interesse senza il quale la possibilità di raggiungere un ben-essere reale non sono pensabili, a determinare una visione diversa dell’accoglienza [2]. Sulla stessa traiettoria si colloca, tra le diverse proposte che potrebbero raccogliere la sfida di un’accoglienza che guarda alle esigenze, l’idea di un percorso di sensibilizzazione mirato ad una maggiore conoscenza della realtà sociale e culturale del nostro paese attraverso l’arte, da parte di migranti giovani e meno giovani. Un’iniziativa che risponde all’esigenza di un tempo diverso, quello per le cose apparentemente inutili o comunque non strettamente necessarie, eppure così vitali al fine di mantenere svegli, di alimentare l’interesse verso una realtà circostante non più percepita come immutabile. Le cose inutili dunque, come l’arte, il cui linguaggio universale riporta tutti, inesorabilmente, verso un’uguaglianza di nascita che non è mai abbastanza stare a ribadire. Il percorso di sensibilizzazione artistica mette sotto gli occhi dei partecipanti le cose belle, quelle che vengono fuori quando le persone stanno bene, contando sull’immediatezza delle impressioni che le opere d’arte suscitano per accorciare le distanze con una realtà a volte percepita troppo lontana. Così facendo, si restituisce una conoscenza del territorio e del suo tessuto umano e sociale oltre i luoghi del bisogno.
Le iniziative culturali sono pensate per essere uno spazio che mette momentaneamente tra parentesi le incombenze e i problemi del quotidiano, i pensieri ricorrenti in cui tante persone, durante il loro percorso nell’accoglienza, a volte si incastrano. Dicono che gli fa male la testa, altre volte il braccio, o la pancia, ma il motivo non si trova, e piano piano si fanno più assenti. Proporre l’arte può andare a rompere qualcosa, a smuovere le acque attraverso la proposizione di stimoli intelligenti e mirati. Non basta però, la semplice fruizione, bisogna sapere quali sollecitazioni offrire se si vuole far leva sulla sensibilità delle persone, quali contenuti e significati si vogliono evidenziare. Alla base, c’è il riconoscimento dell’intelligenza di ciascuno, sempre, anche quando il pensiero sembra viaggiare su due binari diversi, per esperienze di vita particolarmente lontane, o per l’assenza di un percorso scolastico – pensiamo ai migranti analfabeti – che ha reso la mente più concreta, meno abituata ad astrarre e ad esprimersi con lunghi discorsi. L’arte, tuttavia, prima ancora di rivolgersi al pensiero parlato sollecita, invece, la sensibilità, quel sentire che deriva dalla forza delle cose, dalle esperienze di vita che contraddistinguono le storie personali. “Un essere umano entra in rapporto con il mondo attraverso la pelle” dice la scrittrice marocchina Fatima Mernissi [3]. Questa intelligenza di pelle, immediata, è quella su cui fa leva l’arte, capace di dare stimoli intelligenti e provocare risposte altrettanto intelligenti. Saranno poi questi pensieri a tornare nella quotidianità di tutti i giorni, ad offrire una resistenza in più; a sostenere il diritto-speranza ad una vita dignitosa alla quale ciascuno, in cuor suo, vuole aspirare.
Qualcuno forse ritrova, mentre guarda un film, un pezzettino di sé; qualcun altro sta bene senza un perché: forse è il posto pieno di colore, forse la musica, forse la poltrona del cinema nel calmo buio della sala. Qualcuno pensa: “Questo è successo anche a me”. E forse si sente un po’ meno solo. Le storie di tutti, in fondo, hanno sempre qualcosa in comune. Gramsci lo chiamava il “valore aggiunto della socializzazione dell’opera artistica, del suo rivivere in altre persone” [4].
Note
[1] Profondamente legata, nella nascita umana, alla vitalità, secondo la definizione di M. Fagioli. Cfr. Massimo Fagioli, Left 2011, Roma: L’Asino D’Oro, 2014, pp. 231-236
[2] Cfr. Massimo Fagioli, Bambino Donna e Trasformazione dell’Uomo, Roma, L’Asino D’Oro, 2013, pp. 122-123
[3] Fatema Mernissi, La Terrazza Proibita, Firenze: Giunti, 1996, p.220
[4] Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli, Gramsci per la Scuola. Conoscere è Vivere, Roma: L’Asino D’Oro, 2018, p.54
Sara Forcella è arabista e mediatrice culturale. Laureata alla Facoltà di Studi Orientali dell’Università La Sapienza di Roma (oggi ISO), dopo varie esperienze di studio all’estero nel 2012 ha iniziato a lavorare come mediatrice culturale all’interno dei centri di accoglienza per richiedenti asilo, durante l’Emergenza Nord Africa. Si occupa di mediazione linguistica e culturale in ambito legale e medico, di alfabetizzazione in italiano L2, e di attività per l’integrazione e la “sensibilizzazione culturale” attraverso l’arte. Attualmente è dottoranda presso L’Istituto Italiano di Studi Orientali di Roma (ISO).