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Virginia Della Sala
La vittoria dei petrolieri. Niente royalties ai parchi
10 Marzo 2017
Invertire la rotta
«Il testo approvato dal Senato, ora in discussione alla Camera, prevedeva che chi estrae dagli impianti nelle zone protette dovesse contribuire alle spese per il recupero ambientale».

«Il testo approvato dal Senato, ora in discussione alla Camera, prevedeva che chi estrae dagli impianti nelle zone protette dovesse contribuire alle spese per il recupero ambientale». il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2017 (p.d.)

A volte la toppa è peggio del buco: è capitato in commissione Ambiente, ieri, alla Camera. Si discuteva la proposta di riforma dei parchi nazionali e delle aree protette (non si è conclusa, si continuerà a fine marzo) e, tra i 700 emendamenti arrivati e la fretta di chiudere una vicenda che va avanti da anni, è saltato proprio uno dei punti contestati dagli ambientalisti. Paradossalmente, però, si è trasformato in un regalo a petrolieri e impianti d’energia.

Nel dettaglio: la riforma della legge 394 del 1991, licenziata a novembre dal Senato, prevedeva che per le concessioni già esistenti rilasciate agli impianti di sfruttamento delle risorse naturali (da quelli idroelettrici a quelli estrattivi fino alle biomasse), agli “Enti parco” fosse versata una quota “per concorso alle spese per il recupero ambientale e della naturalità”. Tradotto: chi aveva già avuto l’autorizzazione a sfruttare le risorse del parco, poteva continuare a farlo purché pagasse. Per le concessioni petrolifere, ad esempio, doveva essere versato annualmente un terzo del canone di concessione. Ora, invece, si chiederà una tantum di cui, ammesso che la versino, il 70 per cento andrà a finanziare il Programma triennale dei parchi. In pratica, si rimanda al futuro l’applicazione di un articolo che era stato inserito nel Collegato ambientale – prima che il governo lo facesse decadere – che prevede l’istituzione dei cosiddetti “servizi ecosistemici”. In parole semplici: si valuterà di volta in volta la pressione degli impianti sul territorio e in che misura ci sia bisogno di un intervento riparatorio. Complicato: le pressioni dei portatori d’interesse continueranno anche quando la riforma passerà in commissione Bilancio, con il rischio che sia eliminata anche questa unica misura riparatoria.
Resistono, poi, molti punti critici, segnalati anche ieri dalle associazioni e, nei giorni scorsi, da ambientalisti e accademici. “Ci sembra una riforma senza una grande visione – spiega Dante Caserta, vicepresidente di Wwf Italia – La legge del 1991 aveva un’ispirazione. Questa fotografa la situazione e fa qualche aggiustamento”. Le polemiche riguardano soprattutto la governance dei parchi: “La scelta di presidente e direttori fa riferimento alle competenze – spiega Caserta – I parchi nazionali sono solo venti, comparabili ai nostri musei: ma non viene chiesto un concorso. Stessa cosa per il presidente, non si capisce perché non debba avere competenze specifiche. Alla fine conterà di più la carriera politica”.
Un punto sul quale la commissione ritiene di aver inserito i necessari accorgimenti. “Abbiamo rafforzato la sinergia nazionale – spiega Ermete Realacci, presidente Pd della commissione Ambiente – Il bando per la selezione dei direttori dovrà essere approvato dal ministero dell’Ambiente, si sceglierà da una terna di tre candidati e la commissione avrà al suo interno anche un membro del ministero. Poi, il consiglio del direttivo: sarà formato sempre da 8 membri, consentendoci di far entrare un rappresentante delle associazioni scientifiche”. Resta polemica sulla presenza, nei consigli, degli agricoltori: “Sono portatori di interessi economici specifici – dice Caserta – Allora perché non le altre attività imprenditoriali?”.
Confermato l’inserimento di un piano triennale per le aree protette (già previsto nella 394): prevede una politica di gestione nazionale e un finanziamento di dieci milioni di euro all’anno (oggi alle aree protette sono destinati circa 90 milioni all’anno). Nelle intenzioni, il piano dovrebbe garantire più sostegno anche ai parchi regionali (a cui è destinato il 50 per cento dei fondi, in cofinanziamento con le Regioni), ammesso che stiano alle regole previste dal piano. “I soldi? Per me ci vorrebbero almeno 200 milioni in più”, ammette lo stesso Realacci.
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