Recensione del film di Paolo Virzì, Capitale umano: come la finanza distrugge vita e territorio. www. Dinamo, 13 gennaio 2014
Paolo Virzì ha scelto di ambientare il “Capitale umano” nella Brianza. Un territorio geograficamente omogeneo, seppur amministrativamente spacchettato in quattro capoluoghi di Provincia, considerato da sempre, nell’immaginario del nostro paese, come “ricco”. Una fabbrica totale dove attività legate alla costruzione di mobili convivono con il comparto del cuoio; le fabbriche di motori automobilistici con quelle di aerei; le lavorazioni del legno con i distretti manifatturieri; moda e design con il terziario avanzato e, naturalmente, l’edilizia. Case e fabbriche, a volte un unico edificio per tutte e due, che, in alcuni casi, hanno rappresentato fino alla seconda metà del ‘900, veri e propri saggi in cemento sull’abitare di alcuni tra i più bravi architetti italiani. Una ininterrotta città fabbrica.
Non è più così e questo, ormai, da molto tempo. La Brianza è un posto come un altro; non diverso dai moltissimi che, giorno dopo giorno, vedono scomparire i propri caratteri identitari. Succede ovunque. Anche l’intorno di Varese è oggi un luogo simile a qualsiasi provincia italiana.
Qui, tuttavia, la finanza e i suoi strumenti si esibiscono con maggiore visibilità, forti della condizione geografica del luogo rappresentata dalla prossimità di questo territorio al confine svizzero. Lì, a pochi chilometri dai cancelli delle proprie case, per decenni e decenni, i cosiddetti “imprenditori” locali hanno portato i soldi della propria rendita. Oggi, forse, è il luogo dove poter “raccattare” più facilmente, con promesse di altissimi interessi di reddito, capitali nascosti, sopravvissuti alla crisi, scudati o da riciclare. La riserva di caccia per illudere che è ancora possibile farcela, continuare a vivere di privilegi. Basta sostituire il lavoro con la nuova opportunità offerta dalla speculazione finanziaria: fare i soldi con i soldi.
Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni) vende questo sogno. Ha capito però che i capitali che servono per alimentare il suo fondo d’investimenti non si raccolgono allo sportello bancario, ma facendo di se stesso il manifesto tangibile del proprio “acume” finanziario. Giovanni e il suo fondo sono già leggenda assicurando, si dice, un più 40% su base annua. Per lavorare con soldi non suoi ha capito che oltre la propria fama di raider deve metterci dell’altro: l’immagine di una famiglia che tutto ha e tutto potrebbe avere e soprattutto la casa, il vero valore aggiunto al suo progetto.
Casa che non è a Milano. E’ volutamente lì, proprio in quella brughiera. Alta, bianca e squadrata, austera ma non solenne, con doppia scala d’accesso, ma sospesa appoggiata come è lievemente su di una collinetta dove è localizzata una piscina interna dalle ampie vetrate vista parco. Annessa c’è una zona sportiva: un campo per il tennis. In terra rossa naturalmente. Come si addice a chi, quello sport, pratica da sempre.
Una casa che segna un territorio, oggi devastato proprio dalle case: quelle degli altri
.Paolo Virzì, come fatto da Matteo Garrone in Reality, ci sbatte subito in faccia il disastro territoriale di questa eccedenza edilizia, facendoci atterrare, dopo una ripresa dall’alto, all’interno di una porzione dell’enorme villettopoli spalmata senza misericordia alcuna nell’hinterland a nord di Milano.
Le case, per Virzì, sono importanti. Le ha sempre scelte praticando una sorta di geografia duale, quale esemplificazione microspaziale, per raccontarci i diversi personaggi che incontriamo nelle sue storie. Succede in Ovo sodo; con i lividi palazzi della “Corea” livornese contrapposti alla raffinata edilizia del lungomare dell’Ardenza o, ancora ultimamente, in Tutti santi giorni dove la casetta a schiera di Acilia, con i rassicuranti riti di buon vicinato nella periferia romana, misura la distanza siderale con l’abitare metropolitano di San Lorenzo.
Giovanni Bernaschi usa anche il tennis per fare promozione. Lui vuole vincere non giocare. Componendo le coppie, dosando gli inviti, tesse le proprie relazioni. Anche Carla (Valeria Bruna Tedeschi), la moglie ex attrice strappata al palcoscenico, ha questo ruolo. E’ tutto uno con quella casa. Si muove silenziosa tra le molte stanze e quando esce stressa l’autista perché non è mai sicura dei suoi giri in città. Guida la macchina solo quando sa dove deve andare. Non è però la provincia a starle stretta né quella vita dorata, quanto piuttosto che marito e figlio la considerino un accessorio. Il marito non le spiega nulla di quello che fa e Massimiliano, il figlio fragilissimo, risponde alle sue domande dicendole di non “cagarle il cazzo”.
Carla non si stupisce più di tanto, né fa una piega quando, sembrandole impossibile che nel territorio dove vive stia per scomparire anche l’ultimo teatro - quello dove aveva debuttato Tino Buazelli - lo dice al marito e questo, che ha come rifermento il mondo, esclusivamente via conference-call, le domandi se sia proprio così importante.
Lei si è ritirata da molto tempo dal teatro, lui lo costruisce quotidianamente. Gli aderenti al suo fondo, i suoi soci, i propri dipendenti, non sono forse, al tempo stesso, suo pubblico e suoi attori?
Tutti a muoversi secondo il copione scritto dalla finanza vorace. Quella che non guarda in faccia nessuno, capace di far credere possibile ad un piccolo imprenditore edilizio che è meglio barattare mattoni e progetti con investimenti finanziari. Il gancio tra i due sono proprio i rispettivi figli, entrambi alunni di una scuola per fighetti, che tra loro stanno concludendo, senza dirlo ai genitori, una storia.
Così Dino Ossola l’immobiliarista brianzolo (interpretato da un supremo Fabrizio Bentivoglio capace di trasmettere perfettamente l’ambiguità del personaggio) fa il grande balzo. Sostituisce cementi e rogiti con soldi. Costruire e vendere case è un mestiere che non può finire perché, dice: “di case e bare ce ne è sempre bisogno”. Solo che, almeno delle prime, si è un po’ esagerato; ce ne sono tante, troppe e da qualche tempo sono destinate a restare vuote. Lui lo sa perché la crisi morde anche lui, tanto che ha già venduto ai cinesi una parte del suo ufficio. Ora vuole recuperare: riprendersi quello che dice spettargli: il poter continuare a lucrare rendita, il facile arricchimento, il non essere schiacciato dal governo della finanza del mondo, dalle sue nuove regole del gioco.
Vuole recuperare nell’unico modo che conosce: come ha sempre fatto. Prende i soldi che non ha grazie all’aiuto di un compiacente direttore di filiale millantando businnes plan di lavori inesistenti. Li tiene fuori da lavoro. Li investe nel fondo di Bernaschi.
Lo fanno tutti, anche, soprattutto, le banche perché non dovrebbe riuscire a lui? Solo che i conti non tornano perché questo fiume di denaro è destinato a vivere sollevato da terra a muoversi nello spazio altissimo e vastissimo rppresentato dalle oscillazioni valutarie, dalle scommesse sui titoli. Non è facile tirarlo giù quando si sta con l’acqua alla gola; trovarselo in quella strada dove vivi, dove scorre la vita; farlo atterrare secondo programma nella sua casetta con giardinetto, su due livelli simile alle centinaia con cui è costruita la lottizzazione.
La casa di Ossola e quella di Bernaschi, anche se dimensionalmente diverse e architettonicamente distanti, hanno una cosa in comune. La cucina ovviamente c’è ma, nei sei mesi dell’arco temporale in cui è raccolta la vicenda, non si vede mai un pranzo domestico. Nessuna delle due famiglie consuma pasti insieme. Né nella grande casa. Né nella villetta. La prima solo feste nel parco. La seconda solo passaggi veloci su tavoli multiuso, dove tracce di cibo si accostano a libri, computer, risultati di ecografie della compagna dell’immobiliarista (Valeria Golino), psicologa della Asl, attualmente inattesa di un parto gemellare.
Spazi non casa. Dove ognuno è solo con se stesso certo che così facendo, cullandosi nel proprio egoismo, farà il bene di chi gli sta intorno. Si sentono i genitori migliori del mondo. Perché loro il mondo lo sanno governare. Sanno quando c’è d’alzare la posta. Lo fanno perché vogliono i loro i figli vincenti e felici. Ognuno fa questo dal proprio singolo punto di osservazione. Virzì compone il film sezionando un medesimo avvenimento a loro ancora ignoto, ma che noi conosciamo fin dall’inizio della storia, attraverso tre capitoli che rappresentano come Carla, Dino e sua figlia Serena vivono quello che è successo, che sembrav non aver nessun rapporto con la loro vita, ma che, invece, gli precipiterà addosso .
Serena e Massimiliano, i figli, sono differenti dai loro genitori e tra loro. Mentre il ragazzo non riesce a vedersi fuori dai propri agi e il ruolo di privilegiato che la figura paterna gli assegna d’ufficio, Serena, la ragazza, saprà uscire fuori da questo mondo fatto di feste, sballi, automobili, repliche in piccolo delle mille sopraffazioni sociali di cui sono campioni i propri genitori , i loro amici, i loro avvocati. Saprà guardarsi intorno e non aver paura di quello che, a prima vista, le pare così distante da lei. Gli altri, i grandi, faranno quello che hanno sempre fatto, vivere di ricatti, tristi scopate, le isteriche scenate di un intellettuale meridionale che era convinto di tirar fuori, dopo un rapido amplesso con Carla, il proprio talento da uno squallido condominio, arredato come un foyer teatrale, passerelle dei politici di turno con l’assessore leghista con la suoneria del telefonino tarata sul Nabucco, preti beoti impacciati e deferenti presentatori di ragazzi-bene, amiche galleriste con le ultime cose appena arrivate dall’India, e tanti, tanti, comprimari per le feste nel parco. Sempre disponibili ad arraffare le briciole.
Non è la Roma di Sorrentino né la provincia brianzola. E’ l’Italia. Già affondata quando, ma è successo ormai da tempo, ha iniziato a ”tabellare” il valore di una vita secondo parametri finanziari. Quella del cameriere ucciso sul bordo della strada da una manovra avventata - è questo l’avvenimento che tiene insieme tutta la storia - vale poco più di duecentomila euro. Una cifra che il finanziere Bernaschi non accetterebbe di prendere neppure in considerazione accogliendo gli ospiti nella sua casa in cui si decide come saranno calpestati magari dal giorno dopo.
Virzì riesce a comporre tutto questo come un giallo rendendo tutti gli attori (protagonisti e comprimari) assolutamente credibili. Il sorprendente montaggio di Cecilia Zanuso ci fa sentire come spettatori di un set di diapositive, che non sono però ricordi di un viaggio già fatto, ma di quello verso cui vorrebbero trascinarci tutti.