A voler essere filologici e anglofili, come vogliono i tempi, la frase dall’autobiografia My Life and Work del 1922 recita: “ The modern city has been prodigal, it is today bankrupt, and tomorrow it will cease to be”. Un successone: da allora il mondo tutto, coi tecnici in prima linea, si è dato da fare per realizzare il sogno. Al momento ci abitiamo in mezzo a quel sogno, e non è un bel vivere.
E a voler essere ancora più filologici e giusti, già all’epoca in cui l’autobiografia di Ford era fresca fresca di inchiostro qualche urbanista preveggente aveva intuito il problema, oltre l’entusiasmo sfrenato dei vari guru alla Le Corbusier o Wright. Basta ricordare che tutti i quartieri usati da Clarence Perry come casi studio per costruire la sua famosa teoria della neighborhood unit rispondono essenzialmente a due principi: realizzare isole di viabilità locale, autonoma e fortemente pedonale nella maglia delle grandi arterie automobilistiche; usare la composizione funzionale e l’organizzazione spaziale per farle corrispondere a un quartiere socialmente equilibrato. La realizzazione più coerente, e successiva alle teorie di Perry, è quella di Runcorn in New Jersey, dove per la prima volta si provano a mescolare strade per le auto a cul-de-sac con piccoli gruppi di case che sembrano fotocopiate dall’agreste manuale di Raymond Unwin per le città giardino.
Anche qui un altro successone: quei cul-de-sac iniziano a diffondersi come un virus, li vediamo ancora oggi in quelle mappe GoogleEarth, una specie di ameba di dimensioni continentali. Anche la città, quella già costruita, inizia a adeguarsi, usando la vecchia tecnica dello sventramento per realizzare le nuove strade per l’automobile. Strade, appunto, non vie. C’è una bella differenza. Le vie sono fatte per le persone, arterie di un grande corpo che è la città; le strade per far transitare veicoli da un punto A sino a un punto B, sono come i tubi di un sistema idraulico, o magari quelli della canna di un fucile. Il quartiere fatto di vie e la città degli ingegneri del traffico fatta di strade si evolvono ognuno per conto suo, con una interpretazione particolarmente perversa dell’unità di vicinato. Li vediamo ancora oggi nelle nostre città, specie nelle periferie anni ’60-’70, quei grumi di case e palazzi a cui si accede solo passando sopra o sotto qualcosa: dovevano essere parti organiche della città, secondo i progettisti, che non avevano però messo in conto cosa, nella testa di altri progettisti, teneva insieme il tutto: le canne di fucile della circolazione veloce. Altro che nuclei sociali equilibrati, quelle sono delle versioni tascabili della valle del Little Big Horn, con gli abitanti a fare da caricatura del Settimo Cavalleggeri in rassegnata attesa dell’attacco finale della tribù di Cavallo Pazzo. Cavallo Vapore, per essere precisi.
Non è un caso che proprio là dove è nato il problema quasi un secolo fa, si stia sviluppando un movimento che si chiama “Complete Streets”, Vie Complete, rigorosamente distinte da qualunque road, dove si cammina, si va magari in macchina, si entra ed esce dagli edifici e via dicendo. Sembra una sciocchezza a prima vista, ma provate a fare tutte queste cose su un tratto stradale di quelli suggeriti ad esempio dal nostro Codice della Strada, quello che prevede di abbattere tutti gli alberi e fasciare il nastro stradale con delle belle strisce doppie di guard-rail zincato! Là dentro c’è solo un’opzione di sopravivenza, ovvero comprarsi un baccello metallico privato, prezzo variabile da 8.000 euro minimo in su. Le vie complete vogliono anche uscire dalla valle del Little Big Horn in cui le ha confinate certa progettazione urbana novecentesca. Uno degli strumenti tecnici è quello ideato dall’ingegnere eretico olandese Hans Mondermann, e si chiama “spazi condivisi”, ovvero un’organizzazione del piano stradale che fa coesistere in una secie di conflitto governato le varie modalità di spostamento: l’esatto contrario della pedonalizzazione a ben vedere, e anche l’esatto contrario delle arterie veloci.
Per applicare il principio non basta una progettazione puramente ingegneristica, occorrono anche strategie e programmi: l’eliminazione generalizzata delle barriere, che vuol dire anche organizzazione urbanistica e permeabilità, mica un paio di scivoli; una offerta funzionale composita delle vie, che non sono tali se non sono abitate e percorse; l’intervento diretto (bestemmia!) sulle ex arterie veloci, a partire dai punti di attraversamento da e per la zona interessata dal progetto attuativo.
Questa cosa si chiama idea di città, addirittura. L’hanno sperimentato ad esempio nella cittadina di Ashford in Gran Bretagna, sinora famosa per il mega-outlet progettato da Richard Rogers, e per la prima stazione isolana del treno internazionale sotto la Manica. A Ashford avevano da molti anni un problema, prodotto esattamente dalla cultura automobilistica novecentesca, ovvero di aver “risolto” la continuità fra centro storico e zone di espansione col classico anello di circonvallazione. Beh, che c’è di strano, ce l’abbiamo pure noi a Ciccibuccoli di Sotto la circonvallazione, e stiamo benissimo, potremmo forse pensare. Invece loro volevano star meglio, e hanno così iniziato una revisione dello strumento urbanistico, tutta basata sulla permeabilità multimodale di quell’anello di circonvallazione.
Non certo con sovrappassi e sottopassi, si scavalca l’anello di circonvallazione, ma addomesticandolo, facendolo diventare una via come le altre, almeno a partire da quei punti, che ridiventano piazze anziché svincoli di traffico. L’arredo urbano naturalmente è solo l’ultima fase, prima c’è la pianificazione degli interventi su traffico esterno, e quindi prima ancora la riorganizzazione funzionale di alcuni quartieri, delle grandi barriere (l’alta velocità ferroviaria tanto per fare un piccolo esempio), dei servizi ecc.
Poi gli studi psicologici e percettivi, per intenderci alla Kevin Lynch, o Jan Gehl, o William Whyte: come reagisce l’automobilista davanti al pedone, e viceversa? Quali spazi e comportamenti mettono più a loro agio entrambi? La velocità è un fine o un mezzo? Beh, naturalmente si potrebbe continuare un bel pezzo, con domande, risposte, casi studio. La cosa fondamentale è cercare di non fare tutti la fine degli abitanti del quartiere di Milano, modernizzato dai soliti tecnocrati gonzi, e raccontato da Franco Vanni nell’articolo che segue. E chiedersi: in quante delle nostre città succedono cose simili, o anche peggiori in prospettiva, e le accettiamo come destino ineluttabile?
Franco Vanni, Prigionieri di uno spartitraffico, la Repubblica Milano, 29 aprile 2011
Sono aumentati gli incidenti stradali, sono spariti i posteggi, e soprattutto è diventato impossibile fare inversione di marcia a causa del nuovo spartitraffico. Con il risultato che per fare dieci metri si è costretti a una gimcana di un chilometro e mezzo. Sono oltre 800 le famiglie residenti in via Graf e via De Pisis che si oppongono alla trasformazione della strada voluta dal Comune: da viottolo a fondo cieco a grande arteria di traffico. Questa mattina bloccheranno la circolazione in segno di protesta, attraversando la via a velocità di lumaca.
Da quando il Comune ha trasformato e ampliato la strada, 840 famiglie di Quarto Oggiaro sono di fatto prigioniere in casa propria. Gli incidenti d’auto sono aumentati e sono scomparsi centinaia di posti auto. Via De Pisis, un tempo vicolo cieco di poco transito, oggi è un’arteria di traffico importante che collega via Eritrea alla Bovisa. La trasformazione della strada, considerata strategica da Palazzo Marino già negli anni Ottanta, scontenta i residenti che hanno scritto decine lettere di lamentela. Della «grande e strategica opera viabilistica» (sindaco Marco Formentini, settembre 1994) i residenti vivono solo i pesantissimi effetti collaterali.
Per protesta, oggi, dalle 10.30 bloccheranno per un’ora il traffico sulla via, camminando a passo di lumaca sulle strisce pedonali.
Lo spartitraffico che separa le due carreggiate costringe i residenti delle vie De Pisis e Graf a percorrere un chilometro e mezzo di strada in auto per passare dall’altra parte, vista l’impossibilità di fare inversione. La nuova conformazione della strada, con marciapiedi ridotti e nessuna visibilità verso i veicoli in transito per chi esce dai posteggi, ha causato 14 incidenti negli ultimi due mesi e mezzo, di cui due hanno coinvolto ambulanze. Con i lavori, cominciati sette mesi fa, se ne sono andati anche 350 posti auto in strada. E il cantiere, ancora aperto, contribuisce a creare caos nella circolazione. «L’amministrazione ha sempre dimostrato menefreghismo verso le nostre richieste - dice Isabella Morosini, portavoce del comitato di zona - per questo abbiamo deciso di bloccare la strada».
Luca Ruffino, anche lui attivo nell’assemblea dei cittadini del quartiere, attacca: «La speranza è che qualcuno ci ascolti. Vogliamo punti di svolta, posteggi e sicurezza. Abbiamo raccolto 500 firme e le avremmo volute consegnare alla Moratti». E infatti ieri il sindaco, temendo contestazioni, ha rinunciato all’annunciata visita a Quarto Oggiaro.
La storia delle strade a scorrimento veloce nella zona Nord della città, un tempo riunite nel "Progetto Gronda Nord", è lunga è travagliata. La costruzione della "superstrada urbana continua", che nei sogni delle giunte socialiste avrebbe dovuto decongestionare il traffico, si è scontrata con una valanga di ricorsi, bocciature del Tar e pronunciamenti sfavorevoli da parte della corte dei Conti. La "grande opera" è stata allora fatta a pezzi, con i singoli spezzoni approvati e finanziati in maniera autonoma. Uno è quello di via De Pisis.