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Umberto De Giovannangeli
La vergogna libica
5 Luglio 2010
Articoli del 2010
Un nuovo ampio dossier de l’Unità (5 luglio 2010) sul doppio scandalo degli eritrei intrappolati nel lager di Geddafi e del silenzio dei mass media. Scritti e testimonianze di Natalia Lombardo, Amos Luzzatto, Roberto Natale, Dagmawi Yimer, Carlo Lucarelli e Giancarlo De Cataldo

Inferno Libia. Il dramma dei respingimenti

Sms dal lager nel deserto:

di Umberto De Giovannangeli

Siamo profughi innocenti non fateci morire qui Disperato appello degli eritrei prigionieri nel carcere di Brak: «Rinchiusi in celle sotterranee, colpiti da malattie o torturati. Vi chiediamo accoglienza»

Voci dall’inferno. Un appello disperato, una angosciante richiesta di aiuto. Non ascoltar la significa essere complici dei carnefici. Poche righe che danno conto di una situazione drammatica. Quella dei 200 eritrei deportati nel lager di Brak, nel sud della Libia. «Signore, signori, questo messaggio di disperazione proviene da 200 eritrei che stanno morendo nel deserto del Sahara, in Libia. Siamo colpiti da malattie contagiose, la tortura è una prati ca comune e, quel che è peggio, sia mo rinchiusi in celle sotterranee dove la temperatura supera i 40°. Stiamo soffrendo e morendo. Questi profughi innocenti stanno perdendo la speranza e rischiano la morte. Perché dovremmo morire nel deserto dopo essere fuggiti dal nostro Paese dove venivamo torturati e uccisi? Vi preghiamo di far sapere al mondo che non voglia mo morire qui e che siamo allo stremo. Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro. Vi preghiamo di inoltrare questo messaggio alle organizzazioni umanitarie interessate».

L’Unità lo ha fatto. Inoltrandolo anche a chi ha l’autorità per poter intervenire sulle autorità libiche: il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi; il ministro dell’Interno, Roberto Maroni; il ministro degli Esteri, Franco Frattini. «Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro», invocano i 200 segregati nel Sahara. Quel luogo può, deve essere l’Italia. Ne hanno il diritto, hanno i requisiti per ottenere l’asilo. L’alternativa è scritta in quella disperata richiesta di aiuto: «Stiamo soffrendo e morendo. Stiamo perdendo le speranze. Qui moriremo nel deserto. E a casa ci aspetta la tortura o la morte».

Chiedono aiuto. E di far conosce re la loro storia. L’Unità lo ha fatto, in solitario per alcuni giorni. Il messaggio è riuscito ad uscire dalle celle del centro di detenzione di Brak, 80 chilometri da Sebah, nel Sud della Libia, dove dal 30 giugno scorso si trovano oltre 200 eritrei deportati dal centro di detenzione per migranti di Misurata, nel quale sono rimasti una cinquantina di loro compagni di sventura, tra cui 13 donne e 7 bambini. Il gruppo era stato deportato su tre camion container come «punizione» a seguito di una rivolta scoppiata il giorno prima fra i detenuti che non hanno voluto dare le proprie generalità a diplomatici del loro Paese per paura di essere soggetti a un rimpatrio forzato. E per molti di loro rimpatrio equivale a una condanna a morte o, se va bene, ai lavori forzati.

A gestire le sorti dei 200 eritrei nel Centro di detenzione di Brak, che dipende da quello di Sebah, secondo quanto riferiscono fonti non governative locali, sono in questo momento i militari e non il normale circuito della polizia penitenziaria. Mentre nel carcere l'emergenza umanitaria si fa sempre più pressante sono in corso a Tripoli «incontri fra diplomatici eritrei e ufficiali governativi libii», riferiscono fonti dell'Iom (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) di Tripoli, «per arrivare a una soluzione che permetta ai reclusi di lasciare al più presto il carcere di Brak».

Quel sms interroga le nostre coscienze. Chiama alla mobilitazione. Pretende una risposta dai ministri Maroni e Frattini. Una risposta che tarda a venire. Come tarda la riapertura l’ufficio dell’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) in Libia. Tra quei 245 segregati in un lager, ci sono anche una parte degli eritrei respinti dalla Marina militare italiana nell'estate 2009. Intercettati sulla rotta di Lampedusa. E rispediti indietro. All’inferno. «I rifugiati sono sottoposti a forti maltrattamenti e sono tenuti in estrema scarsità di acqua e di cibo. Alle persone che presentano ferite e gravi condizioni di salute non sono fornite cure mediche», ricorda in un comunicato il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir). «Stiamo soffrendo e morendo..». Qualcuno li ascolterà?

Intervista a Amos Luzzatto

L’Olocausto «Noi ebrei abbiamo sperimentato sulla nostra pelle il principio nefasto del non tocca a me»

di Natalia Lombardo

«Non giriamo la testa. L’indifferenza è un virus, lo dimostra la Shoah» - L’ex presidente degli ebrei italiani: «Giusto l’appello dell’Unità. L’immigrazione non è un fatto di ordine pubblico. Servono ponti e non Muri»

L’indifferenza. Il voltare la testa dall'altra parte “tanto non tocca a me...”, tutto questo noi ebrei lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle con la Shoah. L'indifferenza è un virus letale per la coscienza civile di un individuo, di una comunità, di un Paese. E lo è anche pensare che il tema dell'immigrazione sia in primo luogo un problema di ordine pubblico e non invece, come dovrebbe essere, un problema di soccorso pubblico; d'integrazione e non di respingimenti, di “ponti” da realizzare e non di “muri” da innalzare. Ed è per tutto ciò che trovo lodevole e condivisibile l'iniziativa assunta da l'Unità a favore dei 245 cittadini eritrei detenuti, in condizioni degradate e degradanti, in un carcere libico». Ad affermarlo è una delle figure più rappresentative dell'ebraismo italiano: Amos Luzzatto. «Occorre afferma l’ex presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppare una iniziativa che metta l’accoglienza ai bisognosi al centro della nostra attenzione e al centro anche degli accordi internazionali che l’Italia sottoscrive». In questa battaglia di civiltà, rileva Luzzatto, un ruolo di primo piano devono averlo i media che «non sono solo espressione dell’opinione pubblica ma al tempo stesso la formano».

Duecentoquaranta esseri umani, tra i quali donne e bambini, sono da giorni detenuti in condizioni disperate, sottoposti a violenze fisiche e psicologiche, in un lager libico. Cosa c'è dietro l'indifferenza che circonda questa tragedia?

«C'è il principio, nefasto, che non tocca a me e quindi giro la testa dall'altra parte; un modo di pensare e di agire che ha avuto il suo peso ai tempi delle deportazioni della Shoah. È un clima, un atteggiamento che non sono ancora passati. L'indifferenza alimenta il pregiudizio e viceversa. Per questo ritengo che un appello all' opinione pubblica quale quello lanciato da l'Unità sia importante e doveroso sostenerlo, soprattutto se è vero che si tratta di persone che, almeno in parte, avrebbero diritto all' asilo politico».

L'indifferenza si rispecchia anche, tranne lodevoli eccezioni, anche sui media.

«Un fatto davvero preoccupante. I media, al tempo stesso, esprimono e formano l'opinione pubblica. Sottovalutare o addirittura tacere su eventi drammatici come questo non contribuisce certo a formare una coscienza civica più matura e aperta».

Questa indifferenza significa che i più deboli, gli indifesi, fanno meno notizia di altro e altri...

«Non si tratta solo dei più deboli. Si tratta di tutti coloro che non hanno influenza su quello che si ritiene essere l'interesse concreto e materiale del nostro Paese».

Ma non è nell'interesse del nostro Paese salvaguardare i diritti umani in Paesi, come la Libia, con cui l'Italia ha sottoscritto un Accordo di cooperazione?

«Sì, dovrebbe esserlo...».

Ma cosa lo impedisce?

«Due cose: la prima, inafferrabile, è la cultura con la quale si analizza e si reagisce alle notizie internazionali. Questa cultura generale, anch'essa in buona parte indotta, induce molto spesso all'indifferenza e ad una malintesa neutralità. C'è poi un secondo aspetto sul quale ho difficoltà a pronunciarmi...».

In cosa consiste questo aspetto?

«C'è da chiedersi fino a che punto la nostra politica estera presti attenzione a fatti come quello che l'Unità ha contribuito a far emergere».

La vicenda dei 245 cittadini eritrei riporta di attualità il tema dell'immigrazione. È pensabile poter affrontare e risolvere questo fenomeno solo in termini di ordine pubblico e di sicurezza?

«Direi proprio di no. E lo dico non sottovalutando affatto la questione della sicurezza. Il fenomeno dell'immigrazione non è prioritariamente un problema di ordine pubblico, ma di soccorso pubblico. Finché non si opera questo cambiamento profondo di angolo di giudizio, problemi come quello di cui stiamo parlando, si moltiplicheranno».

Solidarietà. E un termine che ha ancora un senso compiuto, reale, un suo diritto di cittadinanza in Italia?

«Io credo di sì, ma ritengo anche che non trovi ancora i canali più adeguati per esprimersi in maniera efficiente, incisiva. È un problema di canali di comunicazione e di iniziativa da costruire, mettendo l'accoglienza ai bisognosi al centro della nostra attenzione e anche degli accordi internazionali che l'Italia sottoscrive».

«I media diano spazio al caso

Rischiamo un auto-bavaglio»

di Natalia Lombardo

I grandi giornali ignorano il dramma dei 245 eritrei detenuti in condizioni disumane in Libia. L’Unità ha acceso un faro sulla vicenda, ripresa da pochi tg e alcuni quotidiani. Natale, Fnsi: «È un auto-bavaglio».

Quando il bavaglio è nella testa: ci sono notizie che i grandi giornali ignorano o relegano nelle venti righe di un box. Avviene in questi giorni sulla drammatica vicenda dei 245 eritrei detenuti come bestie nel carcere libico di Brak, denunciata da l’Unità il 2 luglio. Silenzio sui grandi giornali, dal Corriere della Sera a La Stampa, un box «il caso» su la Repubblica di ieri. Un meccanismo che Roberto Natale, presidente della Federazione della Stampa, definisce di «autobavaglio. Non è solo un problema di censura, ma anche di autocensura». Un silenziatore «non imposto da alcuna legge». Così destini segnati non hanno «dignità di notizia», mentre «un tg dedica un servizio su come si aprano le bottglie di champagne con un colpo di sciabola...».

SILENZIO STAMPA

Ieri dal deserto è arrivato l’ultimo grido afono per sms: «Stiamo morendo, aiutateci». A rompere il silenzio ad alta voce, nel deserto dell’informazione italiana, è stata l’Unità venerdì scorso, raccogliendo l’appello dei detenuti comunicato da un sacerdote, accendendo un faro sulle loro condizione disumane nel buio di tre celle.

Il primo luglio il manifesto ha raccontato la prima tappa infernale degli eritrei a Misratah, altri articoli sono usciti fino a ieri. Il 2 luglio il Tg3 ha ripreso la notizia «gridata» a ragione da l’Unità già nell’edizione delle 14 con un lungo servizio e la voce di chi sta vivendo il dramma, approfondito la sera su Linea Notte. Notizia e servizi anche su RaiNews e Sky. Ieri l’Avvenire, quotidiano della Cei, ha riservato una pagina alla «sorte dei respinti»; Terra, quotidiano ecologista, un ampio riquadro alla voce «diritti umani». Diritti che si restringono su Repubblica, spariscono sugli altri giornali, anche quelli agguerriti nel difenderli. Il 2 luglio la notizia è stata rilanciata dalle agenzie di stampa e ripresa da numerosi parlamentari Pd, Idv, Udc e radicali, oltre ai Verdi e qualche voce nel Pdl; nel governo solo il sottosegretario Boniver.

Roberto Natale parla di qualità dell’informazione: tanto più in piena battaglia per la libertà di stampa non ci si può imbavagliare da soli. Ma c’è qualcosa di più profondo, secondo il presidente Fnsi, che si richiama alla «Carta di Roma varata due anni fa, che definisce i termini corretti da usare», ma anche l’attenzione ai temi. Sull’immigrazione «in questi anni la società e la stampa italiana sono state investite dalla campagna dell’osservazione sicuritaria. Ma grandissima parte della nostra informazione ha riportato senza commenti la cifra fornita dal ministro dell’Interno Maroni alla Festa della Polizia: ha vantato l’abbattimento del 90% degli arrivi di migranti come un successo del governo. Ecco, nessuno dei nostri giornali si è chiesto da cosa derivasse questa cifra, o che fine abbiano fatto gli immigrati. La risposta ora c’è, ed è drammatica».

Ma «se il rispetto della vita umana non è solo retorica, si deve avere attenzione su vite che spariscono nel nulla, anche in conseguenza delle politiche italiane sui respingimenti», conclude Natale.

«Italiani, ribellatevi.

O sarete responsabili come nelle colonie»

di Dagmawi Yimer

Dagmawi, protagonista del film di Segre «Come un uomo sulla terra», racconta in prima persona l’inferno della Libia

Mi appello al governo italiano e a quello libico, in nome di tutti gli eritrei, i somali e gli etiopi che in questo momento stanno soffrendo in Libia. So benissimo cosa vuol dire essere nelle mani della polizia libica. Uso le ultime parole che mi rimangono, perché anche le parole finiscono quando non avviene nessun cambiamento. Io l'ho vissuto sulla mia pelle: i maltrattamenti nelle carceri libiche, gli schiaffi, le bastonate, gli insulti dei poliziotti libici. Anche io sono stato deportato dentro un container, durante un giorno e mezzo di viaggio, verso il carcere di Kufrah, con altre 110 persone, ammucchiate come sardine. Con noi c'erano anche otto donne e un bambino eritreo di quattro anni. Si chiamava Adam. Chissà che fine ha fatto quel bambino, chissà se è riuscito a salvarsi dalla trappola italo libica, chissà se sua mamma non è stata violentata dai poliziotti libici davanti a lui... Se è sopravvissuto, ormai avrà otto anni, e comincerà a capire piano piano che razza di mondo è riservato a lui e a tanti altri come lui.

Veniamo da paesi dove l'Italia non ha ancora fatto i conti con i suoi massacri durante il periodo coloniale e dove ancora oggi, dopo mezzo secolo, usa i libici per combattere gli eritrei, come all'epoca delle colonie usava gli eritrei per combattere i libici. È vero che la libertà di questi miei fratelli minaccia il benessere dei cittadini europei? È vero quindi che un accordo per il gas e il petrolio vale di più delle vite umane e della loro libertà naturale? Perché l'Italia, da paese civile, non ha previsto nell'accordo con la Libia il minimo rispetto dei diritti "inviolabili" degli esseri umani invece di chiudere un occhio e vantarsi di aver bloccato l'emigrazione via mare? Mi ricorda la stessa ipocrisia con cui Mussolini fece credere al suo popolo che l'Italia avesse stravinto sugli abissini senza dire nulla sui mezzi che avevano portato a quelle vittorie, ovvero tonnellate e tonnellate di gas utilizzate senza pietà per sterminare i civili. Il tono del governo è lo stesso, oggi come allora, ed è la stessa la reazione della gente.

Se ripenso a Adam il bambino di quattro anni che era con noi sul container, mi chiedo: quale era la sua colpa? Mi ricordo che ogni tanto l'autista del container (Iveco) si fermava per mangiare o per i suoi bisogni, mentre 110 persone urlavano per il caldo infernale del Sahara, per la mancanza d'aria, che a malapena entrava mentre il camion era in movimento. Il piccolo Adam lo tenevamo vicino al buco da dove entrava un po' d'aria da respirare... mentre chi si trovava in fondo al container si agitava disperatamente, urlava, piangeva. È possibile vedere ancora deportazioni di massa dentro i container?

Quando ci hanno arrestato poi, i libici non ci hanno chiesto perché fossimo in Libia e cosa volessimo. Eravamo semplicemente la preda dei poliziotti, eravamo donne da stuprare e uomini da bastonare. Pochi giorni fa ho incontrato una persona che lavora a Tripoli e mi ha detto che tra gli ultimi respinti in mare verso la Libia c'era una ragazza di 22 anni che è stata violentata dai poliziotti libici appena arrestata. Alla fine è riuscita a evadere, corrompendo una guardia, ma ora è incinta e non vuole far nascere un figliastro di cui non conosce nemmeno il padre... Perché tutto questa indifferenza verso la sofferenza degli altri, oltretutto provocata dall'Italia stessa? Dov'è la "civiltà" di un paese che finanzia un soggetto terzo per eseguire il lavoro sporco e lavarsene le mani come Pilato? Quando smetterà l'Italia di essere il "mandante" di queste violenze?

Guarda caso poi, dopo la "deportazione" i poliziotti libici ci vendettero per 30 dinari a testa (circa 18 euro) agli intermediari che poi ci riportarono sulla costa.

Anche noi abbiamo dei genitori che piangono pensando alle sofferenze che viviamo. Ma anche noi avremo giustizia per tutto quello che stiamo subendo. Oggi paghiamo il prezzo che i vostri governi hanno deciso di pagare per far godere al "popolo" la sicurezza energetica. Ma le lacrime e il sangue versato non saranno dimenticati. Uso le ultime parole che mi sono rimaste, l'ultima energia dopo due anni di battaglia su questo tema ma spero di poterlo avere ancora. Ho girato l'Italia, partecipando a centinaia di incontri e di proiezioni (di "Come un uomo sulla terra", ndr.) e ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto vedere la loro indignazione e la loro vergogna di essere rappresentati da questi governi ipocriti.

Ma mi chiedo: se io che grido da qui non ho ascolto, figuriamoci i miei fratelli che stanno nella bocca del lupo. Ma continuo a gridare lo stesso e dico: Italia tu che sei civile e potente guarda queste persone e ricordati cosa hai fatto ai loro nonni..

Chiediamo al Governo di intercedere per loro

Adottiamo un profugo

di Carlo Lucarelli e Giancarlo De Cataldo

Nessuno sa quanti fra i trecento eritrei detenuti a Sebha abbiano diritto all’asilo politico in quanto rifugiati. Nessuno sa, perché nessuno domanda. Nessuno sa, neppure, se fra quei trecento c’è qualcuno non che ha tentato di entrare in Italia e non c’è riuscito. Nessuno sa, perché nessuno ha accertato. Ma cambierebbero le cose, se l’accertamento ci fosse stato? Perciò, quando qualcuno ci verrà a dire che non c’era certezza che fra quei trecento la maggioranza non fosse fatta di ladroni, disertori, pregiudicati comuni, e non potenziali rifugiati, e che magari, in apparenza, l’Italia non c’entra, noi dovremo rispondere: è vero, non c’è certezza, non è stato possibile raggiungerla, questa certezza. Ma che l’Italia non c’entri, beh, questo è un altro discorso. È vero, manca la prova che siamo stati proprio noi a rimandare a Gheddafi «quegli» eritrei. Manca però anche la prova contraria: che non siamo stati noi. Da anni i nostri governi

menano vanto dei successi delle politiche dei respingimenti. Che, di per sé sole, ci mettono al riparo dalle domande, diciamo così, «pericolose». Appena qualche drappello di (potenziali) profughi si affaccia alle nostre coste, non gli diamo tempo di aprire bocca, esibire documenti, contattare organizzazioni umanitarie, enti internazionali, i parenti che (forse) qualcuno di loro ha in Italia. Appena certe sagome scure e disperate si profilano all’orizzonte delle nostre sicurezze, le intercettiamo e le consegniamo alle affettuose cure del governo libico. Interveniamo in prevenzione. E lo facciamo perché è così che stiamo trattando, da anni, la materia dell’immigrazione: con una guerra preventiva. E in guerra, si sa, non solo non si va tanto per il sottile: anche se esistono leggi che regolamentano il diritto bellico, e le convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra prevedono trattamenti sicuramente più umani di quelli ai quali sono assoggettati, oggi, gli eritrei temporaneamente detenuti da Gheddafi.

Molti di quegli eritrei, soprattutto quei ragazzi e quelle ragazze destinati, per esempio, al servizio militare a tempo indeterminato nel deserto della Dancalia – che significa spesso morirci, in quel deserto fuggono da una situazione economica e politica durissima e non hanno altro modo per andarsene che quello di sfidare lunghe marce attraverso altri deserti, di sabbia e di acqua, e arrivare da qualche parte da «clandestini». E al ritorno non trovano altro che galera – in Libia o a casa loro e spesso un destino peggiore.

Eppure, ci sono ottime ragioni per immaginare che, nel caso dei detenuti eritrei, la nostra responsabilità di italiani sia persino maggiore che in altri casi. L’Eritrea è stata a lungo colonia italiana. Siamo stati insieme, noi ferengi e loro abescià per ottanta anni e continuiamo spesso a stare insieme anche adesso, noi che siamo stati allevati da tate con lo scialle bianco sulla testa, noi che siamo nati laggiù e loro che sono nati qui, noi che ci siamo innamorati insieme, sposati e fatto figli. Se fossimo un paese con una memoria e con una coscienza dovremmo conoscere il suono dei nomi di quegli eritrei che abbiamo respinto e conoscere le città da cui vengono come conosciamo quelle da cui verrebbe un turista americano o europeo. Nel bene e nel male siamo stati fratelli per tanto tempo e sempre nel bene e nel male abbiamo condiviso un pezzo di storia.

Un certo pensiero di Destra, oggi abbastanza in voga, tende a dipingere il colonialismo italiano come una magnifica avventura di civiltà e progresso. Ci amerebbero ancora perché siamo (siamo stati) brava gente. E tutto ciò sarebbe testimoniato dalla presenza di una vasta e ramificata colonia di eritrei/ italiani tuttora legati sia a quel Paese che al nostro. Gli eritrei, insomma, sono ragazzi «nostri». Proprio perché noi, quando fummo colonialisti, lo fummo in modo meno aggressivo di altre potenze. Non a caso, nei giorni scorsi, il Belgio ha chiesto scusa al Congo, e i nostri organi di stampa singolarmente silenti sulla tragedia dei trecento di Sebha hanno sottolineato con enfasi l’avvenimento. I Belgi erano cattivi, noi eravamo «buoni». Perciò gli eritrei ci amano. Ne siamo davvero certi? Proviamo a pensare che cosa ne pensano quegli uomini rinchiusi in container 50 gradi all’ombra in una delle estati più calde del secolo? Che cosa pensano di noi italiani brava gente? Che cosa racconteranno ai loro figli di noi, se riusciranno a scampare al destino che pare ineluttabilmente attenderli? Al netto di ogni considerazione, ci sono trecento esseri umani che potrebbero morire da un momento all’altro. Ucciderli non risolverà il problema dell’immigrazione, refrattario a ogni «soluzione finale», e finanche intermedia. Continueranno a cercare vie di fuga e di libertà, spinti dal bisogno e dalla disperazione, oppressi da dittature vergognose.

Come fecero i nostri padri quando combattevano per l’indipendenza dell’Italia. I nostri padri che trovarono accoglienza, quand’erano migranti e disperati. Senza quell’accoglienza, oggi l’Italia non esisterebbe. Nemmeno quella che si autodefinisce «padana». I credenti, così attenti alla vita potenziale da preservare ad ogni costo, potrebbero sposare una battaglia per la salvezza di vite reali, concrete, vite di oggi, di qui e adesso. I nostalgici del buon colonialismo di un tempo potrebbero passarsi una mano sulla coscienza e decidere che, sì, in fondo, gli eritrei che ci hanno dato tanti shumbashi e tanti bravi zaptiè, ascari e quant’altro venuti a morire nelle nostre guerre, una mano la meritano. Chi invece quell’epoca non la rimpiange ma la critica potrebbe passarsi anche lui una mano sulla coscienza e fare ammenda delle nostre colpe aiutando adesso quel paese e quella gente che lasciammo allora al suo destino.

Immaginiamo già le obiezioni prevedibili a questa sortita: ecco gli scrittori einaudiani, ecco i fighetti radical-chic che si lavano la coscienza con tante belle parole mentre noialtri lavoriamo per tenerci, tutti, e Lucarelli e De Cataldo per primi, al riparo dall’orda nera. E sta bene. Facciamo una proposta concreta. Chiediamo agli scrittori, ai giornalisti, ai religiosi, agli spiriti liberi con i quali in questi ultimi giorni abbiamo condiviso la battaglia contro la «legge bavaglio» di fare un gesto di buona volontà. Chiediamo tutti insieme al nostro Governo di adoperarsi perché i trecento siano trasferiti in un luogo più umano. Chiediamo che siano comunicati i nomi dei trecento, e copie dei loro documenti. Chiediamo che si attivino le procedure per la concessione del diritto d’asilo, nei casi previsti dalla legge. Chiediamo di accertare chi ha parenti in Italia che potrebbero garantire per loro. Ci dichiariamo pronti ad «adottare» un profugo e la sua famiglia. Chiediamo, come dicono gli avvocati, «in estremo subordine», di non lasciarli morire.

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