Alluvione: se l’emergenza facesse finalmente scuola
Roberto Bernabò
C’è il bambino con gli stivaloni in gomma e la pala in mano in mezzo al fango; c’è l’argine del Serchio mangiato dall’onda di piena nel giorno di Natale e ricostruito il 31 dicembre; c’è l’autostrada a Migliarino, e le fabbriche e le case intorno, sommersa dall’acqua, da un lago improvviso che visto dall’alto è grande quanto il Massaciuccoli.
Sono le istantanee di una settimana orribile che raccontano del dolore ma anche della forza della gente comune di reagire; della capacità delle istituzioni di affrontare l’emergenza con un impegno eccezionale che ha evitato il peggio; e della scia mostruosa di danni che hanno colpito case, industrie, strade e che richiederanno centinaia di milioni di euro per tornare alla normalità.
In queste immagini c’è davvero la sintesi della straordinaria risposta di chi per spirito di solidarietà e di chi, tantissimi, per dovere - ma andando oltre orari, competenze, burocrazie - si è immerso nel fango in aiuto degli altri, ha lavorato senza un attimo di sosta, ha portato conforto e dimostrato competenza. C’è un patrimonio di umanità (e di esperienza) che è una straordinaria ricchezza di questo paese, un bene prezioso che resiste alla disgregazione politica e sociale che stiamo vivendo. Sottolinearlo è una gioia. Saperlo impiegare nell’ordinaria amministrazione, farne un obbiettivo della gestione quotidiana sarebbe un dovere di qualunque istituzione.
Un ruolo chiave, ragionando con la voglia di imparare la lezione per un futuro prossimo che purtroppo non sarà privo di altre calamità, va però riconosciuto alla Protezione civile. L’arrivo di Bertolaso e del suo vice è stato decisivo perché è riuscito a mettere insieme enti e strutture separati geograficamente e funzionalmente. Nell’immediato - e molti cittadini lo hanno gridato, così come i cronisti l’hanno verificato - non tutto ha funzionato al meglio: né nella segnalazione dell’emergenza né nella individuazione degli interventi urgenti, anzi urgentissimi. Ogni Provincia pareva andare per conto suo, con le proprie forze, senza un punto di coordinamento. Il pugno del duo Bertolaso - De Bernardinis ha fatto quello che la scarsa esperienza ed abitudine a coordinarsi avrebbe probabilmente impedito. La traccia da seguire è allora proprio questa: al di là delle belle parole sulle aree vaste, c’è davvero sempre più bisogno di gestioni unitarie, di concertazione degli interventi, di pianificazione complessiva. Anche perché la natura è indifferente ai confini delle Province e ai loro piccoli feudi.
Ma il fiume ha detto di più. Ne parlavamo già domenica scorsa, molti altri ne hanno detto e scritto anche meglio in questi giorni: serve una politica oltre l’emergenza, serve un uso del territorio che sappia prevedere gli effetti di un’antropizzazione eccessiva, serve una pianificazione urbanistica capace di evitare una costante e pericolosa cementificazione. E mentre si progetta, speriamo, questo futuro c’è bisogno di risorse per riparare ai danni del passato, per mettere in sicurezza innanzitutto i fiumi. Tantissime risorse: soldi che non si vedono, elettoralmente parlando, eppure vanno trovati e investiti, con il coraggio di farlo comprendere ai cittadini. Perché l’assenza di interventi - come dimostra il caso dell’Autorità di bacino del Serchio di cui parliamo a pagina 3 - prima o poi presenta il conto. Più pesante e più drammatico e con un surplus di dolore e sofferenza.
Scriveva testualmente tre giorni fa il professor Salvatore Settis, negli auspici per il 2010, rivolgendosi alla classe politica che la guiderà: «La Toscana non può accontentarsi del “meno peggio”; non può affidare la propria politica del paesaggio, come troppo spesso è stato, a soluzioni compromissorie, mescolando ammiccamenti a chi vuol tutelare e cedimenti a chi intanto va devastando. Deve scegliere e indicare la propria strada, con massima consapevolezza e ambizione: per rispondere alle aspettative dei cittadini (qui, più e meglio che altrove, spontaneamente raccolti in reti di Comitati locali), ma soprattutto per rispettare se stessa, la propria tradizione e il proprio futuro”.
Parole da sottoscrivere in pieno. Da indicare come faro per chi governa. E come monito per i piccoli e grandi interessi che bussano alla porte dei palazzi del potere.
Povero Serchio, strizzato tra case e aziende. I vincoli ci sono ma si continua a costruire: rubati al fiume migliaia di ettari di terra
Mario Lancisi
Dante forse ci ha visto giusto anche sul Serchio. Nella Divina Commedia lo cita infatti nel girone infernale degli imbroglioni. La storia, almeno quella recente, del fiume, stretto tra le Apuane e l’Appennino, che da Piazza al Serchio si snoda tra Lucca e Pisa fino alla foce vicino a Vecchiano, ha a che fare con l’imbroglio, le speculazioni, i piani di carta.
Lui, il fiume, sia chiaro, è l’«imbrogliato», la vittima, verrebbe da dire. Terzo fiume per lunghezza (102 chilometri) della Toscana - dopo l’Arno e l’Ombrone -, il Serchio è sì un po’ bizzarro e nervoso perché ha il vizietto di dar di fuori spesso e volentieri, ma è anche molto generoso. Alla sua acqua si abbeverano infatti lucchesi, pisani, livornesi e pistoiesi della Val di Nievole e anche d’estate, quando l’Arno e l’Ombrone soffrono la siccità, il Serchio non lascia a secco i suoi abitanti.
Fiume generoso e anche prodigo di scenari e ambienti d’incanto, il Serchio è celebrato da scrittori e poeti: «Tu vedi lunge gli uliveti grigi/ che vaporano il viso ai poggi, o Serchio, / e la città dell’arborato cerchio,/ ove dorme la donna del Guinigi...», canta ad esempio Gabriele D’Annunzio.
Quanto costa il Serchio...Sì, è vero che c’è anche il detto toscano «è costato quanto il Serchio ai lucchesi», ma si riferisce al passato quando, spiega Raffaele Nardi, segretario dal 1990 dell’Autorità di bacino del fiume, Lucca (e in misura più modesta anche Pisa) spesero fiori di quattrini per costruire attorno alla città (da Ponte a Moriano a Ripafratta) argini grossi per ripararla dall’alluvione sempre in agguato. Nel XVI secolo Lucca affidò la sistemazione del Serchio ad un’apposita magistratura e anche nel ’700 e ’800 furono fatti lavori importanti, spiega Nardi. E nella basilica di San Frediano a Lucca c’è un dipinto che raffigura il santo mentre devìa il corso del fiume per evitare che le esondazioni colpissero la città. Immagine sacra che dà la misura dell’impegno profuso dai lucchesi per arginare il Serchio.
Cemento selvaggio. Oggi, purtroppo, scuote il capo Nardi non è così. Negli ultimi decenni il Serchio è stato preso d’assalto dalla speculazione edilizia e quando, nel 1990, si è deciso di porre rimedio alla cementificazione selvaggia è stato troppo tardi. Abusi, imbrogli e imperizia hanno devastato il corso del fiume da Piazza al Serchio, a Castelnuovo Garfagnana, Fornaci di Barga, Gallicano, Coreglia, Fornoli, Borgo a Mozzano fino a Vecchiano. Quando è stata istituita l’Autorità di bacino con Nardi al comando, l’imbroglio era già stato consumato: al Serchio sono stati rubati migliaia di ettari di terra ed è stato imprigionato in una sorta di camicia di forza. «Sono state costruite in territori, che poi con il piano abbiamo vincolato, intere zone industriali e anche molte case, villette e strutture ricettive», denuncia Nardi.
Il Piano di Nardi. Nel 2001 è stato varato dall’Autorità di bacino del Serchio, una struttura di circa 40 dipendenti per un costo annuo che si aggira sui 700 mila euro, il piano di salvaguardia del fiume. Che - per dirla in breve - disegna una mappa delle zone più a rischio, definite in base anche alle esondazioni subite nel corso degli anni. Lì non si può costruire e il divieto, spiega l’assessore regionale all’urbanistica Riccardo Conti, è stato fatto proprio da tutti i piani di Regione e Provincia di Lucca.
Solo 4 milioni su 500... Il piano di Nardi non contiene solo divieti, ma anche un programma di interventi per rafforzare gli argini e mettere in salvaguardia il Serchio.
Per realizzare il piano occorrono cinquecento milioni, ma sono arrivati dallo Stato ad oggi solo quattro milioni. Basta fare due conti per capire lo scandalo: i danni provocati dall’alluvione di Natale, provocati dallo strappo degli argini del Serchio, in località Nodica, nel comune di Vecchiano, ammontano ad una stima di ieri (ma destinata a crescere) a trecento milioni. Cioè una cifra che si avvicina al costo del piano.
E i soldi arrivati da altre fonti, come i 12 milioni di euro previsti nel 2004 dall’allora ministro dell’Ambiente Matteoli per la zona di Massarosa, non stati spesi perché mancava la pianificazione. Insomma, dove ci sono i piani non arrivano i soldi e dove vengono stanziati i soldi (pochi) mancano i progetti...