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Paolo Colonnello
La tragedia dimenticata del Lambro
23 Marzo 2010
Articoli del 2010
Le ferite ancora aperte nel territorio di un paese immemore dai molti misteri insoluti. Su La Stampa, 23 marzo 2010 (m.p.g.)

Gli argini del fiume in fuga dalla Brianza velenosa, per lunghi tratti sono ancora neri. Mentre i germani reali, gli aironi o i cormorani, le ali appesantite dagli olii bituminosi, volano sempre meno tra i cieli plumbei di questa campagna piatta tra Lodi e Cremona, bagnata dalle piogge e dalle acque limacciose e scure del Lambro, dove 450 tonnellate di idrocarburi si sono fermate davanti alla diga di Isola Serafini. Verso Piacenza, pescatori e contadini aspettano la prossima piena: quando le acque sporche trascineranno verso il Po e poi al suo Delta ciò che rimane del più grande disastro ambientale degli ultimi anni, mettendo a rischio la fauna ittica, le coltivazioni di vongole e mitili di Goro e Gorino e le acque di quel gigantesco catino verde e caldo che è l’Adriatico.

A un mese esatto dal versamento di tremila metri cubi di petrolio nel fiume Lambro, la tragedia ecologica più devastante del già fragile patrimonio fluviale della pianura padana, rimane un mistero. L’inchiesta aperta a Monza dai pm Emma Gambardella e Donata Costa con l’ipotesi di inquinamento delle acque e disastro ambientale, è tuttora contro ignoti e l’unico a finire sul registro degli indagati, ma con un’accusa marginale rispetto al cuore delle indagini, ovvero violazione della Legge Seveso (per avere cioè stoccato più idrocarburi di quelli denunciati), è stato Giuseppe Tagliabue, presidente della Lombarda Petroli, la società di Villafranca Monza dalle cui cisterne nella notte del 23 febbraio scorso sono stati riversati nel Lambro e poi nel Po, tonnellate di gasolio e oli combustibili. La mano criminale che alle 4 del mattino aprì i rubinetti delle 6 cisterne (su 30) ancora attive dell’enorme stabilimento alle porte di Monza rispondeva a un interesse intimidatorio preciso: ma quale?

L’area su cui sorge la Lombarda Petroli della famiglia Tagliabue è da tempo preda di diversi appetiti, destinata ad essere riconvertita in terziario e edilizia abitativa per uno di quei faraonici progetti dai nomi suggestivi ma dai destini incerti: Ecocity, 300mila metri quadrati capaci di smuovere interessi di ogni genere: da quelli delle cosche a quelli imprenditoriali e politici. Non a caso la scorsa settimana, dopo aver interrogato dipendenti, ex dipendenti e autotrasportatori i magistrati hanno voluto ascoltare come testimone uno dei fratelli Addamiano, titolari della Holding immobiliare che si è aggiudicata il progetto di riconversione. A parole sembrerebbero tutti danneggiati per la bonifica dei terreni. Ma nei fatti, qualcuno ne ha tratto un vantaggio che ora i carabinieri stanno tentando di scoprire, pur considerando che forse chi ha agito è andato al di là delle intenzioni. Il petrolio infatti, prima di raggiungere il Lambro, ha dovuto inondare il piazzale delle cisterne, infilarsi nei tombini, scorrere nelle fogne, intasare il depuratore di Monza e poi gettarsi nel fiume. E solo il ritardo negli allarmi e nelle contromisure ha consentito il disastro ambientale.

La chiazza lunga diversi chilometri che per una settimana ha alterato l’equilibrio del principale fiume italiano, è scomparsa solo in parte, lasciando strascichi che richiederanno mesi prima di essere sanati e decine di milioni di euro: almeno 100, calcolano amministratori e sindaci dei comuni interessati dai fiumi inquinati. «Se sono vere le cifre fornite da fonti ufficiali, dovrebbero essere state recuperate almeno 2.600 tonnellate di idrocarburi: questo significa che all’appello ne mancano almeno 400», spiega Damiano Di Simile, presidente di Legamabiente Lombardia. 400 tonnellate di oli e gasolio che solo in parte potrebbero essere evaporati.

«Qualcosa, ma non molto, trattandosi di materiale più leggero dell’acqua, potrebbe essersi depositato sui fondi. Il resto è lungo gli argini e se non si interverrà al più presto, con la prossima piena il petrolio potrebbe inquinare il Delta del Po facendo danni irreversibili prima di gettarsi in mare. La nostra paura è che tutto ciò rimanga senza colpevoli».

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