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Thierry Paquot
La torre di domani sarà certo più alta
16 Marzo 2008
Altre città italiane
Motivazioni psicosociali e vistose controindicazioni, di un simbolo del tecno-capitalismo apparentemente in grande ripresa. Le Monde Diplomatique/il manifesto, marzo 2008 (f.b.)

Il grattacielo, oggetto architettonico nato alla fine del XIX secolo, deriva dalla combinazione di una tecnica di costruzione (lo scheletro metallico), del perfezionamento di ascensore e telefono e soprattutto dall'incredibile ricchezza di alcune imprese, che si possono permettere un edificio emblematico, che suscita ogni tipo di invidia. Il primo immobile di grande altezza (40 m) è costruito a New York nel 1868, il secondo a Minneapolis e il terzo a Chicago nel 1884, da William Le Baron Jenney. La torre diventa l'espressione per eccellenza del capitalismo. Come si dicesse che è datata: essa viene sempre sorpassata da un'impresa di maggior successo, che esibisce la sua supremazia edificando la torre più alta. All'insaziabile «sempre di più» dei capitani d'industria o dell'alta finanza, corrisponde il «sempre più alto», simbolo, ai loro occhi, della potenza: la loro torre, allo stesso tempo sede sociale, insegna e marchio. Vi è qualcosa d'infantile in questa competizione ascensionale, fatta salva una manciata di architetti convinti che «la torre» esprima il futuro...

di un secolo passato! La vera sfida, d'ora in poi, consiste nell'inventare una forma architettonica che possa rispondere alle contrastanti aspettative di cittadini alla ricerca di un reale confort nel rispetto dell'ambiente, e accompagnare le trasformazioni urbane in atto. Le persone senza fissa dimora attendono delle ancore di salvataggio (strutture leggere di servizi d'emergenza), primo passo verso un'abitazione decente. Chi soffre di un disagio abitativo spera in alloggi più confortevoli e adatti alla dimensione della famiglia o alle esigenze dei sensi individuali. Anche l'edilizia popolare esige norme nuove e inserimenti più civili. In breve, la posta in gioco è enorme e necessita di sperimentazioni coraggiose nel metodo di finanziamento, nel sistema d'attribuzione, nell'architettura di questi habitat e, perché no, nel coinvolgimento dei futuri locatari nella loro costruzione. La torre non è la risposta all'alloggio della maggioranza delle persone: è costosa, le tasse rappresentano un secondo affitto - ciò spiega perché sia riservata ad abitazioni di lusso - non possiede alcuno spazio pubblico, la vita ruota intorno all'ascensore, la consegna a domicilio, l'isolamento dalla città «reale». Essa è un vicolo cieco in altezza, come la definisce Paul Virilio, in Città panico (Raffaello Cortina, 2004).

Quanto agli uffici, non è ancora un fenomeno ben conosciuto l'assenteismo causato dall'internamento in un universo dominato dall'aria condizionata ma abbondano le testimonianze relative ad angine e altre patologie respiratorie. Dopo l'attentato dell'11 settembre 2001, gli impiegati delle imprese del World Trade Center sono stati trasferiti in edifici più piccoli: oggi, soddisfatti dei nuovi ambienti, rimpiangono solo l'atmosfera di Manhattan (1) . Tuttavia qualche architetto-star stimolato da tutta una lobby immobiliare afferma senza alcuna prova che la torre risolve la questione fondiaria (questo è vero, in parte), accresce la densità (questo non è dimostrato), economizza l'energia (i dati sono contraddittori), e partecipa allo spirito della città (questo non è sempre evidente), ecc.

Al Mercato internazionale dei professionisti dell'immobiliare (il Mipim), a Cannes nel 2007, i visitatori potevano ammirare i plastici dei futuri grattacieli di Mosca (la torre della Federazione, 448 metri, consegna nel 2010), di Varsavia (Zlota 44, 54 piani, 192 metri), di New York (la torre della Libertà 541 metri, quella del New York Times, 228 metri), di Dubai (certamente di circa 800 m), della Défense (la torre Granite del gruppo Nexity di Christian de Portzamparc, la Generali di Valode e Pistre, la torre faro di Unibail di Tom Mayne di 300 metri, consegna nel 2012), di Londra (Renzo Piano e la London Tower Bridge di 300 m)... Un'incredibile frenesia costruttiva, immagine dell'arroganza delle multinazionali. Già nel 1936, all'epoca delle sue conferenze a Rio de Janeiro, Le Corbusier reclamava Parigi una torre di 2.000 metri. Per il momento solo dei giapponesi hanno lavorato al progetto di una torre di 4 km d'altezza o una piramide di 2004 m (detta «Try 2004») che può accogliere 700.000 residenti permanenti.

Già nel 1930, l'architetto Frank Lloyd Wright denunciava il «tout-tour» (il tutto-torre, ndt): «I grattacieli non hanno vita propria, né vita da dare, non ricevendone alcuna dalla natura della costruzione.

(...) Perfettamente barbari, essi si innalzano senza particolari riguardi per i dintorni, né gli uni per gli altri (...). L'esterno dei grattacieli è senza morale, senza bellezza, senza continuità.

È una prodezza commerciale o un semplice espediente. I grattacieli non hanno che il successo commerciale come ideale unitario più importante (2) ». Certamente, Wright non anticipava la vittoria del centro commerciale (shopping mall) e dello scenario che l'accompagna, almeno in certe megalopoli. Questo surrogato di città si bea di questa immagine, nella quale la torre ha il ruolo principale. Guy Debord, nella rivista Potlatch (n° 5, 20 luglio 1954), se la prende con chi è «più guardia della media» (si riferisce a Le Corbusier) che ambisce «a sopprimere la strada» e rinchiudere la popolazione nelle torri, anche quando secondo lui si tratta di valorizzare i «giochi e le conoscenze noi abbiamo diritto ad aspirare in una architettura veramente sconvolgente».

Svilupperà, in seguito, la psicogeografia, l'urbanistica unitaria e la deriva, criticando senza tregua la fredda geometria dei grandi complessi, torri e sbarre insensibili al vagabondaggio ludico.

L'urbanista cinese Zhuo Jian (3) , che elenca 7.000 immobili di grande altezza a Shanghai (una ventina superano i 200 m), constata che il suolo si abbassa di parecchi centimetri ogni anno. Gli esperti spiegano che una torre è energivora nella sua fabbricazione (la produzione di acciaio e vetri sempre più sofisticati necessita di un'importante spesa energetica) e nella sua manutenzione (aria condizionata, illuminazione delle parti centrali dei piani, ascensori, etc.), anche se si considerassero soluzioni alternative (come quelle utilizzate nell'ingegnosa torre Hypergreen di Jacques Ferrier). Insistono sulla durata di vita limitata (una ventina d'anni, senza lavori di ristrutturazione) di questo «prodotto» oneroso e poco adattabile a utilizzi differenti. Credere che sia facile alloggiarvi un'università, una biblioteca, abitazioni di lusso, un hotel a 5 stelle, con orari e con «clienti» così diversi, è illusorio.

E a Parigi? Il Front de Seine, le Olympiades, il quartiere Italie-Masséna, Flandres e la torre Montparnasse (1973, 210 metri) non incoraggiano la costruzione di altre torri e condannano l'urbanistica funzionalistica.

Nel 1977, il Consiglio di Parigi fissa a 37 metri l'altezza massima delle costruzioni. Nel 2003, una consultazione della cittadinanza parigina registra il 63% d'opposizione contro gli edifici di grande altezza. Tuttavia, nel giugno 2006, alcuni architetti individuano diciassette siti in grado di accogliere torri di 100-150 m e immobili per abitazioni di 50 m (cioè 17 piani). Nel gennaio 2007, tre di essi sono presi in considerazione dalla municipalità, a titolo di test (Porte de La Chapelle, Bercy-Poniatowski e Massena-Bruneseau).

Dodici squadre disegnano torri che possono arrampicarsi fino a 210 m, su terreni inospitali, circondati da infrastrutture pesanti, rumorose e inquinanti. La maggior parte dei progetti prevede spazi verdi e luoghi pubblici, si integra alla periferia vicina e necessita di trasporti pubblici. Tuttavia, conserva una monofunzionalità verticale, non tiene in gran conto dell'effetto maschera sul soleggiamento del quartiere e dell'accelerazione dei venti, del trattamento dei rifiuti e del costo energetico di queste costruzioni. Quanto all'estetica, il dibattito è appena cominciato! È assurdo, di conseguenza, essere semplicemente a favore o contro: esistono torri splendide, che onorano il paesaggio della città che contribuiscono ad abbellire - chi resterebbe insensibile alla bellezza di alcune città «in piedi», come New York o Chicago? È tuttavia aberrante costruire una torre solitaria senza preoccuparsi dell'urbanistica, cioè dei trasporti pubblici, della relazione col suolo, con la strada, dei rapporti di scala con gli altri edifici, del gioco delle proporzioni fra le facciate, il piazzale, le coltivazioni. Se, al posto di costruire delle torri adatte ad uno stile di vita costrittivo, certi architetti avessero dedicato la loro intelligenza a concepire degli ecoquartieri, non solo secondo le attuali norme dettate dall'alta qualità ambientale, spesso elementari, ma anche secondo quelle di «alta qualità esistenziale», prendendosi cura delle persone, dei luoghi e delle «cose della città» (per esempio, delle illuminazioni dolci e rassicuranti), allora l'urbanità sarebbe meno selettiva e l'alterità meno discriminante.

La torre non permette l'incontro. Del resto, né la letteratura né il cinema l'hanno rappresentata come un luogo magico; al contrario, essa alimenta gli scenari catastrofici! Diffidiamo delle mode, per loro natura passeggere.

note:

L’Autore è filosofo, urbanista e docente universitario, ha scritto tra l’altro Petit manifeste pour une écologie existentielle (Bourin-editore, 2007), collabora alla rivista Urbanisme , Parigi.

(1) Sophie Body-Gendrot, La société américaine après le 11 Septembre , Presses de Sciences Po, Parigi, 2002.

(2) «La tyrannie du gratte-ciel», conferenze del 1930, inL'Avenir de l'architecture , Editions du Linteau, Parigi, 2002.

(3) Cfr. Urbanisme , n° 354, Parigi, maggio-giugno 2007.

(Traduzione di A. D'A.)

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